Efficacia e debolezze del metodo semiotico


Da: Stefano Traini, E|C, rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici on-line.
Pubblicato in rete il 23 aprile 2018.


1. L’efficacia del metodo semiotico

Nel suo ultimo libro Paolo Fabbri (2017) ricorda come la semiotica si sia imposta negli anni Sessanta nel segno dell’efficacia, con la critica delle ideologie proposta da Roland Barthes2. Barthes comincia a dire nella seconda metà degli anni Cinquanta che la borghesia ha accumulato sul linguaggio e sulla realtà della vita quotidiana dei significati ideologici e poi li ha, per così dire, sbiancati, rendendoli trasparenti. Se la borghesia tende a naturalizzare e a far passare come necessaria la propria visione del mondo, Barthes dice – riprendendo Saussure – che i segni sono arbitrari e che quindi i rimandi tra significanti e significati non hanno nulla di naturale e di necessario. L’ideologia è intesa da Barthes come la visione (parziale) del mondo da parte di una certa classe sociale e la semiotica si presenta come una disciplina capace di smontarne i meccanismi retorici. La semiotica appare subito come “una macchina da guerra scientifica contro l’ideologia”, dice Fabbri (2017, p. 16). Barthes comincia a dire queste cose in Miti d’oggi (1957), influenzato da Brecht ma anche da Bachelard, e continuerà ad applicare questa sua visione su vari oggetti di studio in quella che viene chiamata la sua “fase semiologica”. Tuttavia Barthes – ricorda Fabbri – si allontana dall’ipotesi hjelmsleviana di analisi scientifica e questo emerge chiaramente in S/Z (1970), libro in cui rinuncia alla concezione sistematica della connotazione, da lui intesa non nella forma categoriale delle opposizioni semantiche ma come “oro sparso nel testo”. In questo modo i codici usati in S/Z per spiegare le singolarità connotative si moltiplicano a dismisura e secondo Fabbri sono molto empirici, molto poveri, peraltro limitati a quel tipo di analisi. S/Z appare così come un libro di retorica, o di generica analisi del testo.
Greimas, da parte sua, ha una prospettiva scientifica, in continuità con la semiolinguistica di Hjelmslev, e tenta di mettere a punto un metodo di analisi efficace. Dallo studio del lessico passa allo studio dei testi e del senso con sguardo analitico. Il senso è ovunque intorno a noi, ma secondo Greimas (vedi Introduzione a Del senso, 1970) il semiologo deve trasformare il senso in significazione, cioè in senso articolato. La scommessa della semiotica consiste dunque nel trovare i meccanismi di articolazione del senso. La semiotica generativa di Greimas è una disciplina che ha una vocazione scientifica e che quindi per descrivere la significazione cerca di usare un metalinguaggio interdefinito, in modo che i risultati delle analisi siano controllabili intersoggettivamente. Il linguaggio semiotico ha uno strato applicativo, più vicino alla conoscenza dei testi; uno strato metodologico, che controlla le procedure dell’analisi; e uno strato teorico, di natura filosofica, che riflette sulle categorie fondamentali del metodo. Il Percorso Generativo messo a punto da Greimas è la forma compiuta di una semiotica con un taglio molto sistematico. Greimas – ricorda Fabbri (2017) – era ossessionato dall’idea di dare una forma equilibrata alla teoria semiotica, prevedendo sì dei livelli di profondità, ma anche tenendo insieme le componenti paradigmatiche e quelle sintagmatiche della significazione. Lévi-Strauss aveva molto insistito sull’importanza delle correlazioni paradigmatiche, ma Greimas insiste sul bilanciamento con le catene sintagmatiche fino ad arrivare a una rottura con il celebre antropologo. Presupposto di questo metodo è la “chiusura” del testo, che consente la ricostruzione sistematica di un’articolazione interna: attraverso la “chiusura” del testo si può cogliere la pluralità semantica3. Così se S/Z è un libro di analisi senza un metodo definito, il Maupassant di Greimas (1976) è un libro che si muove in una direzione molto più scientifica, anche se risulta molto meno attraente dal punto di vista dei risultati.
Fabbri ci tiene a sottolineare che la semiotica strutturale è costruttivista, non decostruzionista: mira alla costruzione di concetti, indica le procedure per costruire la significazione umana e sociale. Il costruttivista semiotico, dice Fabbri con una certa irritazione, non ha nulla a che fare con il relativista: il relativista è pigro, dice che tutto va bene, anything goes, ed è per questa via che si può arrivare al negazionismo. Per contro il costruttivista si impegna, lavora, deve costruire: soggetto, oggetti, sostanze, forme, schemi semantici e sintattici, valori. I valori non sono tutti uguali, sono tutti diversi e devono essere analizzati in modo comparativo.
Quanto a Eco, Fabbri non può fare a meno di rimarcare lo sguardo ancìpite del semiologo/filosofo. In una prima fase Eco è interessato al metodo strutturale e alle sue possibili applicazioni (La struttura assente, 1968), ma poi – già con Le forme del contenuto (1971) e più compiutamente nel Trattato di semiotica generale (1975) – comincia a teorizzare l’innesto di Peirce e della sua filosofia della conoscenza nelle maglie della semiotica strutturale di derivazione hjelmsleviana, inaugurando una tradizione semiotica di carattere filosofico che si sviluppa parallelamente a quella metodologica e analitica di Greimas. Si tratta, dice Fabbri con chiarezza, di due tradizioni completamente diverse. Saussure è interessato all’articolazione interna del segno (significante/significato): su questa linea Hjelmslev sviluppa l’ipotesi della biplanarità espressione/contenuto e Greimas riprende queste intuizioni mettendo a punto una complessa struttura per l’analisi dei testi. Il segno di Peirce invece è pre-saussuriano, non riconosce l’articolazione interna tra significante e significato. Peirce è interessato al fatto che un segno rinvia ad altri segni. La teoria di Peirce – e poi di Eco – è una teoria dei segni e della loro capacità di rinvio ad altri segni: un rinvio che avviene per via inferenziale. Come fa giustamente notare Fabbri, Eco teorizza la coesistenza della tradizione strutturale con quella epistemologica di Peirce all’interno della teoria filosofica di Peirce: non sarebbe possibile, infatti, pensare a tale coesistenza a partire da una teoria strutturale con vocazione analitica. La mia impressione è che dopo un periodo di sincera e profonda infatuazione per lo strutturalismo, Eco abbia semplicemente abbandonato la strada di una semiotica intesa come disciplina con vocazione analitica e abbia intrapreso la strada di una semiotica intesa come campo di riflessione filosofica, in linea con quella che era stata la sua formazione4.
Recentemente Claudio Paolucci (2017) ha messo in evidenza la continua oscillazione di Eco tra l’Ordine e l’Avventura: cornice più generale che ingloba l’oscillazione tra disciplina e campo in semiotica. Eco è attratto dalle teorie che mettono Ordine al caos della realtà: le summae medievali, le analisi strutturali, i modelli semantici dizionariali; ma è attratto anche dalle teorie che rimandano all’Avventura: il modello semantico enciclopedico, con la sua forma labirintica e rizomatica, è la forma di rappresentazione della realtà su cui Eco lavora di più e che ritrova nei testi letterari di Rabelais, di Joyce e di Borges, da lui molto amati. Ma già in Opera aperta (1962) – fa notare Fabbri – Eco aveva in mente il suo modello di semiosi illimitata, che poi perfeziona teoricamente attraverso Peirce (in seguito però si dovrà preoccupare di come limitare la semiosi illimitata, intimorito dalla deriva decostruzionista)5.
L’efficacia della semiotica risiede anche nella proposta di ripensare in un modo peculiare il problema del riferimento e quindi il concetto di verità. La semiotica non crede ci sia una referenzialità precedente al senso, a partire dalla quale il senso verrebbe generato: pensa piuttosto che la referenza sia un effetto di discorso, un effetto di senso con ricadute pratiche che possono essere anche molto pesanti. A questo proposito è molto incisivo l’esempio che Fabbri riprende da Ulrick Beck. Nei pressi dell’Indonesia c’è una nebbia molto fitta dovuta a strani e complessi fenomeni atmosferici e la nominazione di questo fenomeno è decisiva: se la si chiama fog (o smog) diventa un problema ecologico e bisogna spendere molti soldi per eliminarla; se la si chiama haze, cioè nebbiolina, allora non ci sono problemi e la gente può sopravvivere lo stesso: “La definizione, il nome che si sceglie per definire il medesimo fenomeno, provoca delle conseguenze fortissime, di modo che, a ben vedere, la realtà che il linguaggio costruisce non è più la stessa.” (Fabbri 2017, p. 163) Di certo di fronte a questi esempi i «nuovi realisti» evocherebbero l’inemendabilità del reale (scritto rigorosamente senza virgolette), sostenendo che la nebbia è tale nella realtà, indipendentemente dagli schemi concettuali per interpretarla e dai segni scelti per indicarla. Ma Hjelmslev ci ha insegnato che le lingue proiettano le loro forme dell’espressione e del contenuto sulle materie, producendo sostanze diverse. E Greimas ha precisato che le lingue traducono – o meglio tansducono – la realtà, con effetti che possono variare in termini di efficacia. Il concetto di corrispondenza referenziale lascia il posto quindi a quello di transduzione, ossia traduzione tra diversi sistemi segnici (cfr. Fabbri 1998). Peraltro riflettendo sulle tesi del “nuovo realismo”, Fabbri suggerisce di ipotizzare non una sola realtà, ma molte realtà con un diverso grado di esistenza. Ricorrendo alla teoria delle modalità di Greimas, Fabbri ricorda che vi è un livello di esistenza virtuale, un livello attuale, un livello realizzato: così per esempio il progetto di una pietanza avrebbe un’esistenza virtuale; la pietanza preparata e portata in tavola avrebbe un’esistenza attuale; la pietanza mangiata dai commensali avrebbe un’esistenza realizzata. L’idea sarebbe quella di considerare la realtà come qualcosa che si può smontare, decostruire, analizzare nei suoi diversi livelli di esistenza.

2. Debolezze

Ora, posta così, questa semiotica con taglio metodologico e vocazione scientifica sembra avere solidità teorica ed efficacia euristica. Eppure dopo i fasti degli anni Sessanta e Settanta questa disciplina è caduta – diciamo dagli anni Ottanta in poi – in uno stato di crisi che sembra irreversibile, e oggi nel mondo esterno della cultura e dei media quasi non lascia traccia, mentre nel mondo universitario stenta a mantenere una sua riconoscibilità. Quali sono le ragioni? Alcune, per la verità con molta indulgenza, le accenna lo stesso Fabbri (2017), il quale riconosce che la teoria dell’enunciazione in semiotica è ancora molto debole, che la teoria del discorso non è ancora ben articolata, che manca un raccordo tra una teoria dei generi e una teoria del discorso, che l’applicazione letteraria è stata particolarmente deludente perché i testi sono troppo complessi rispetto agli strumenti di analisi, che i risultati in campo musicale sono stati ancora più scarsi, ecc. Sulle debolezze della semiotica vorrei soffermarmi e aggiungere qualche considerazione.
Un problema molto serio, rilevato da Fabbri, riguarda l’impiego della semiotica come una “cassetta di attrezzi” da usare alla rinfusa, senza considerare che tali attrezzi sono legati a dei concetti, sono interdefiniti e controllati da una teoria. In questo modo la semiotica rischia di diventare una disciplina pop per quei teorici della comunicazione che prendono dei termini molto semplici e li usano molto liberamente. Il problema – attenzione – non riguarda gli oggetti più o meno pop studiati dalla semiotica: riguarda il metodo, la teoria a cui è collegato e gli strumenti utilizzati. Fabbri prende l’esempio del “contesto”, un concetto che ancora oggi viene utilizzato in modo molto confuso. Nella semiotica strutturale sostenuta da Fabbri il contesto non è ciò che sta intorno al testo o l’ambiente all’interno del quale avviene la comunicazione, come spesso si sente dire. Se siamo interessati all’ambiente, o a una porzione della realtà che ci circonda, questi verranno inclusi nel testo, entrando a far parte del corpus di analisi. Il “contesto” inteso in senso jakobsoniano, pertanto, viene incluso nel testo nella fase di definizione del corpus. Nei corsi di Semiotica la comunicazione viene spesso presentata come un processo con un emittente, un messaggio, un destinatario, un contesto (il modello di Jakobson, appunto); si dice poi che la semiotica si occupa del messaggio, mentre le altre entità sono studiate da altre discipline come la psicologia, la sociologia, l’antropologia, l’economia, ecc. Ma Fabbri ci ricorda giustamente che questa prospettiva è sbagliata: la semiotica seleziona un testo in quanto unità di analisi e vi inserisce tutti gli elementi che contribuiscono alla costruzione della significazione, compresi – se serve – emittente, destinatario, pezzi di contesto, ecc. La mancata comprensione teorica di questo principio ha innescato una lunga discussione su come si dovessero intendere e analizzare le pratiche, visto che includono comportamenti, azioni, scene di vita, quindi contesti. Ma all’interno di questa cornice teorica le pratiche sono testi, nel senso che possono diventare oggetto di studio come qualsiasi altra porzione del mondo “naturale”. Come ha ben mostrato Gianfranco Marrone (2010), in semiotica il “testo” va inteso in senso tecnico, come una qualsiasi porzione di realtà che l’analista ritiene pertinente per la sua analisi: sempre da preparare, delimitare, negoziare, sia esso un libro o un oggetto o una conversazione tra due persone. Nel senso comune il testo è invece un’opera scritta, all’interno di un circuito comunicazionale che prevede un emittente, un destinatario e un contesto appunto esterno al testo, cosicché si è portati a pensare che il testo abbia una delimitazione naturale, una chiusura oggettiva (sul modello del libro). Se dunque per il linguaggio comune il testo è qualcosa di già dato, con una sua delimitazione ben precisa, in semiotica il testo è sempre costruito, è una porzione del mondo che viene ritagliata dallo studioso in vista dell’analisi, quindi sulla base di un preciso progetto di descrizione. In una domanda a Fabbri (2017, p. 291), Gianfranco Marrone ricorda come alcuni semiologi ragionando sulle pratiche abbiano avuto dei dubbi sulla tenuta del principio di immanenza, pensando che le pratiche fossero oggetti di studio in qualche misura aperti, indefiniti, evanescenti (cfr. Fontanille 2008): tuttavia l’immanenza, ricorda Marrone, non è solo – in senso hjelmsleviano – chiusura dell’oggetto di analisi, ma è soprattutto – in senso greimasiano – costruzione di un livello di analisi. In questa prospettiva nell’analisi delle pratiche il semiologo ricostruisce un livello narrativo e discorsivo della significazione esattamente come in qualsiasi altro oggetto di studio. Fabbri ha sempre detto che per evitare confusioni sarebbe stato meglio parlare di semiotica del corpus e non di semiotica del testo. È evidente che queste confusioni teoriche (ci si sofferma anche su altri concetti come quello di “connotazione”) non hanno aiutato e non aiutano l’adozione e la diffusione della semiotica, proprio perché le categorie usate non dovrebbero essere prese liberamente da altri paradigmi teorici e usate alla rinfusa nell’analisi, ma inquadrate in una teoria semiotica coerente, definite concettualmente e possibilmente interdefinite.
Un altro problema è a mio avviso quello dell’arbitrarietà delle analisi, che mostrano una forte componente soggettiva difficilmente eliminabile. Prendo come esempio uno scambio che ho avuto proprio con Paolo Fabbri qualche tempo fa a proposito dell’interpretazione della foto-simbolo degli “anni di piombo” scattata il 14 maggio 1977: la celebre foto di un dimostrante che solo, in mezzo alla strada, con le gambe divaricate e le braccia tese, punta la pistola verso la polizia. Eco aveva subito scritto su L’Espresso che in quella foto la figura dello sparatore domina isolata, e che l’isolamento del protagonista rappresenta simbolicamente l’isolamento dei pitrentottisti (Eco 1977). Paolo Fabbri e Tiziana Migliore hanno rianalizzato molti anni dopo questa foto (2011) depurandola dagli effetti di cropping e zooming con i quali è stata diffusa, e hanno notato che lo sparatore non è affatto isolato ma fa parte di un gruppo di quattro attanti che disegnano un rombo, e che visti più analiticamente sembrano formare una squadra d’attacco. Non convinto di questa lettura, ho provato a rianalizzare la foto e ho trovato aspetti narrativi, discorsivi e plastici che a mio avviso confermavano invece l’ipotesi dell’isolamento avanzata da Eco (Traini 2013b). Inoltre, osservando altre venti foto (circa) scattate pochi momenti prima dello sparo6, ho potuto notare come dall’immagine del corteo (unità integrale) si passi alla rappresentazione di un gruppo di autonomi armati (totalità partitiva) alla visione del singolo dimostrante (unità partitiva), in una sequenza che a mio avviso potenzia l’effetto finale di isolamento del protagonista. Non so chi avesse ragione, ma a parte la prima lettura (peraltro non tecnica ma giornalistica) di Eco, nelle analisi successive abbiamo usato gli stessi strumenti, la stessa cornice teorica e lo stesso metodo, arrivando però a conclusioni molto diverse. Ricordo a questo proposito il tentativo di analizzare lo stesso film – The Village di M. Night Shyamalan – da parte di Maria Pia Pozzato e Guido Ferraro (in Pozzato 2007): metodologie sostanzialmente analoghe portavano a risultati molto diversi e il confronto costringeva a riflettere sul ruolo dell’analista, che con la sua abilità e anche con la sua creatività impone uno sguardo che difficilmente può essere ricondotto a procedure standard. L’effetto di aleatorietà delle analisi semiotiche mi pare una criticità da aggiungere a quelle elencate da Fabbri, ed è forse dovuta alla scientificità “non di alto profilo” (e sempre da potenziare) di questa disciplina (Marsciani 1999, p. 11). Il nostro scambio sulla foto del 1977 ha peraltro messo in evidenza quanto sia importante analizzare numerosi esemplari. Nel nostro caso il corpus più esteso di venti foto ha aiutato a ricostruire in modo più circostanziato la significazione della foto singola. È vero, come dice Fabbri, che la semiotica può sfruttare la possibilità dei Gedankenexperimenten e che con gli strumenti qualitativi della semiotica si possono prendere piccoli testi ed estrarre da essi problemi molto complessi. Tuttavia ho l’impressione che la semiotica abbia lavorato molto, forse troppo, su corpora ridotti, spesso costituiti da un solo esemplare (un film, un quadro, uno spot, un oggetto), mentre credo sia importante che i corpora siano costituiti da molti esemplari e che la semiotica recuperi quella vocazione comparativa che le deriva dai lavori di Lévi-Strauss, di Propp e di Dumezil7.
Infine, il problema degli sviluppi della disciplina. I detrattori della semiotica strutturale e metodologica fanno notare che le categorie dell’analisi sono ferme più o meno alla fine degli anni Settanta (Greimas e Courtés 1979). Non hanno tutti i torti, perché a parte alcune aggiunte coerenti come le categorie delle passioni avvenute ancora sotto il controllo di Greimas negli anni Ottanta, gli sviluppi postgreimasiani sono stati plurivoci, incontrollati e non sempre convincenti. La direzione più importante è stata senz’altro quella fenomenologica che, com’è noto, si è collegata al Greimas che nel volume Dell’imperfezione (1987) ha riflettuto sulla sensorialità in una prospettiva semiotica. A un certo punto Greimas si chiede se sia possibile trovare un livello immanente della sensorialità e a questo proposito Fabbri fa un esempio noto: noi articoliamo il processo percettivo di un profumo o di un vino attraverso un processo omologabile: c’è una testa, cioè un attacco di percezione; un corpo, cioè uno sviluppo della sensazione; e una coda, cioè un residuo di fondo. Questo processo articola sia il gusto sia l’olfatto. Questo significa che c’è una struttura immanente che permette la traduzione tra percezioni sensoriali diverse. Dallo studio della sensorialità e delle passioni si è arrivati a riflettere sulla soggettività prima della sua articolazione, insomma sulla dimensione del continuo in un quadro fenomenologico. Ma devo dire che già certe riflessioni sulla “tensività forica” e sui “quasi-soggetto” e “quasi-oggetto” elaborate da Greimas e Fontanille (1991) lasciavano perplessi; inoltre la semiotica delle passioni e delle tensioni che si è sviluppata in ambito post-greimasiano ha fatto fatica a dotarsi di strumenti descrittivi efficaci. Fabbri, che pure ha seguito molto attentamente questi sviluppi, coglie nel segno quando rileva che l’indagine fenomenologica sulla significazione pre-semiotica procede per auto-osservazioni, con gli exempla ficta tipici della filosofia, mentre la semiotica ha una vocazione empirica. La semiotica ragiona a partire da ciò che ha intorno, ciò che lo stesso Fabbri chiama “una rete esterna di senso” fatta di tutte le cose che gli uomini hanno intorno. È attraverso questa rete esterna di senso che si può fondare una semiotica della cultura, e la vocazione empirica è imprescindibile. L’impressione, insomma, è che l’attenzione al continuo e alla dimensione fenomenologica della significazione abbia fatto perdere alla semiotica la sua vocazione originaria. Scriveva Barthes: “Il fatto che si possa dire tutto con una sola differenza, produceva in lui una specie di gioia, uno sbalordimento continuo. (…) una semiologia che ha rinunciato al binarismo non lo riguarda più”. (Barthes 1975, p. 61)
Le criticità della semiotica riguardano quindi l’efficacia delle analisi in relazione agli strumenti, al metodo e alla teoria (detto in altri termini: la scientificità debole della disciplina); il livello di arbitrarietà delle analisi, che svela uno scarso controllo intersoggettivo degli strumenti e dei risultati; la modesta propensione a fare analisi comparative su corpora ampi. A questo si aggiunga la recente svolta fenomenologica che è andata in contrasto con la vocazione empirica e analitica della prima semiotica strutturale e generativa. Infine, l’annoso problema delle due anime: una metodologica e analitica, l’altra filosofica. Questa ambivalenza ha creato e continua a creare problemi di identità interna e di riconoscibilità esterna.

3. Prospettive

Eppure, al di là delle criticità che pure è necessario affrontare, la semiotica strutturale ha a mio avviso visioni e posizioni assai efficaci, e da queste bisogna ripartire. Vede la comunicazione nella sua dimensione strategica, con i meccanismi enunciazionali che costruiscono le identità degli attori e i simulacri del mondo. Esorta a considerare strategici tutti i discorsi: non solo quelli pubblicitari e politici, che lo sono in modo evidente, ma anche quelli storici e scientifici; con Bastide e Latour, Fabbri ha mostrato come i discorsi delle scienze sperimentali e le pratiche di laboratorio costruiscano la natura, anziché rivelarne più o meno oggettivamente l’essenza. Suggerisce di non concentrarsi sulla referenzialità (un segno denota una cosa), ma sugli effetti di discorso che possono essere più o meno efficaci. Non considera centrale la verità, ma gli effetti di veridizione. Non è interessata alla realtà ontologica che appassiona i nuovi realisti, ma al senso che la realtà incorpora e a come si può cogliere articolandolo in significazione. È interessata alla pluralità dei linguaggi e delle culture, ai confronti e ai dialoghi. Questo è un punto centrale. Fabbri è convinto che il compito precipuo della semiotica sia la transduzione, cioè la traduzione tra sistemi semiotici diversi – su questo aveva già molto insistito nel suo La svolta semiotica (1998) -, e da questo punto di vista l’apporto di Lotman risulta fondamentale. Lotman definisce la semiotica proprio come “scienza della correlazione funzionale di diversi sistemi segnici”. Jakobson considerava innanzitutto la traduzione linguistica, e poi anche la transduzione, cioè la traduzione intersemiotica. Il punto di vista moderno, al contrario, assegna una centralità assoluta alle transduzioni, rispetto alle quali la traduzione linguistica è solo un caso specifico. La traduzione linguistica dimostra che ci sono delle “relatività linguistiche”, a conferma della nota teoria di Sapir-Whorf, ma questa relatività è continuamente trasformata dall’attività traduttiva. Vi sono diverse culture e diverse visioni del mondo, ma queste visioni sono traducibili e trasformabili. Fabbri ribadisce così il suo elogio di Babele (Fabbri 2000): esistono tantissime lingue, sono tutte diverse e questo è straordinario perché “la continua comunicazione tra ciò che è incomunicabile produce forme nuove di significazione”. (Fabbri 2017, p. 49). La comunicazione non va vista come atto con cui cercare l’accordo e parlare delle stesse cose: è interessante invece l'”incomunicabile”, che emerge con l’accostamento delle diversità linguistiche e costituisce una sfida anche per il futuro. Per questo tra le prospettive della semiotica continua ad esserci l’esplorazione di diversi tipi di testualità – pittura, cinema, letteratura, balletto, gestualità – con l’obiettivo di estrapolare tratti comuni, comparare funzioni diverse, arricchire la teoria con nuovi strumenti. E continua ad esserci lo studio dei confronti e delle ibridazioni culturali, che – ricorda Lotman – generano novità.
Dicevamo all’inizio che la semiotica si è diffusa negli anni Sessanta come “macchina da guerra scientifica contro le ideologie”. Nonostante la fase di crisi questa impostazione continua a essere attuale. La semiotica può aiutare a comprendere i miti e le ideologie di oggi attraverso un metodo che va sempre rivisto, sempre rimesso a punto affinché mantenga la sua efficacia.


Bibliografia

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Note

  1. Questo testo è una versione più ampia di una relazione che ho presentato all’incontro dal titolo L’efficacia semiotica, che si è tenuto presso la Scuola Superiore di Studi Umanistici dell’Università di Bologna il 5 aprile 2018, con Paolo Fabbri, Gianfranco Marrone, Jorge Lozano, Isabella Pezzini. Moderatrice: Patrizia Violi. torna al rimando a questa nota
  2. Nel libro L’efficacia semiotica. Risposte e repliche, edito da Mimesis (2017), Gianfranco Marrone ha selezionato e raccolto alcune interviste che Paolo Fabbri ha rilasciato negli ultimi vent’anni. torna al rimando a questa nota
  3. Fabbri (2017) cita diverse volte Lotman, secondo il quale il testo artistico, colto nella sua immanenza, è carico di sensi da svelare nel tempo, è carico di “memoria futura” (Lotman 1970). torna al rimando a questa nota
  4. Ho sviluppato questa tesi in Traini (2013a). torna al rimando a questa nota
  5. Secondo Fabbri la passione di Eco per le liste (cfr. Eco 2009) è un’altra evidente spia del suo anti-strutturalismo (o un’altra forma di fascinazione per l’Avventura, per usare le categorie di Paolucci): in effetti le liste sono elenchi non strutturati, termini senza categorie, elementi senza organizzazione paradigmatica. torna al rimando a questa nota
  6. Raccolte in Sergio Bianchi (a cura di), Storia di una foto. Milano, via De Amicis, 14 maggio 1977. La costruzione dell’immagine-icona degli «anni di piombo». Contesti e retroscena, DeriveApprodi, Roma, 2011. torna al rimando a questa nota
  7. Ho affrontato queste problematiche in Traini (2012). torna al rimando a questa nota
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