Gatti, suoni e luci


MIT Technology Review, 6/2015, pp. 30-31.


Françoise Bastide e Paolo Fabbri

Riflettere su mezzi e metodi per trasmettere informazioni vitali attraverso diecimila anni di storia è certamente molto stimolante per dei semiologi. Ancora prima di esporre eventuali soluzioni, ci è sembrato utile descrivere le nostre ipotesi di lavoro, basate su alcuni tra i possibili scenari di quel lontano futuro.
Innanzitutto dobbiamo immaginare che l’umanità sopravvivrà senza importanti modifiche delle sue caratteristiche morfologiche e psicologiche anche se le pratiche sociali (e le lingue) potranno subire radicali trasformazioni; diversamente, la necessità di segnalare la localizzazione delle scorie nucleari non esisterebbe (potrebbero persino non essere pericolose per un’altra specie d’abitanti terrestri).
Inoltre, il problema si porrà solo se si sarà persa l’usanza di deporre le scorie sottoterra (o nelle profondità marine); in caso contrario, una mappa dei depositi (e di altri luoghi che lo diventassero) verrebbe conservata e continuamente aggiornata da quanti negli anni si occuperanno delle scorie. Di fatto, la radioattività prodotta dalle scorie costituirebbe in sé un segnale sufficiente per chi sa cosa cerca e la scoperta di radiazioni atomiche non dovrebbe porre problemi tecnici in una civiltà dove l’energia nucleare fosse ancora in uso.Dobbiamo quindi considerare due percorsi possibili e contradditori per il futuro: o l’uomo avrà abbandonato (volontariamente o meno) e dimenticato tutte le realizzazioni scientifiche dei nostri tempi e dunque avrà smesso di produrre sia le scorie radioattive, sia i relativi strumenti di misurazione, oppure l’uomo avrà dovuto elaborare soluzioni tecniche più raffinate per il trattamento delle produzioni radioattive; in questo caso gli strumenti di identificazione esisterebbero, ma per venire utilizzati solo in caso di sospetta presenza di depositi radioattivi.
L’informazione relativa alle scorie radioattive consta di due elementi: la conoscenza dell’esistenza di queste pericolose discariche; l’esatta localizzazione dei depositi, la loro natura e il tempo di giacenza che consenta la valutazione del rischio in funzione del tempo trascorso. Se queste due informazioni venissero ignorate, il pericolo risiederebbe nella casuale scoperta di questi luoghi da parte di ricercatori o scienziati all’oscuro del rischio d’irradiazione, o anche in una modifica geologica del sito (naturale o causata da catastrofe) che farebbe affiorare in superficie quanto prima era profondamente interrato o coperto dalle acque del mare. Inoltre, i processi di trattamento del materiale radioattivo, benché studiati per prevenirne la dispersione e il conseguente avvelenamento su larga scala, potrebbero a lungo termine rivelarsi poco sicuri. In definitiva, l’ignoranza di queste problematiche comporterebbe l’assenza di regolari controlli così come di una sorveglianza dei luoghi per evitare la volontaria criminale disseminazione delle scorie.

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È presumibile che un elemento di conoscenza sia votato all’oblio e non venga più tramandato alla generazione seguente quando la sua applicazione non fosse più di interesse alcuno. Per contro, credenti di ogni specie hanno dato prova di una notevole facoltà di trasmettere informazioni sulla condizione umana, la vita e la morte per mezzo di avvincenti storie e riti suggestivi. Tuttavia, non esiste per ora una religione universale e inventare una religione nuova e duratura non sarebbe davvero facile.
Anche le opere d’arte hanno buone probabilità di venire devotamente conservate, copiate e restaurate, se necessario. Dunque, resta da augurarsi che le scorie nucleari siano d’ispirazione per numerosi poeti, romanzieri, musicisti, pittori e scultori di valore. Tuttavia, è dubbio che l’arte sia in grado di trasmettere informazioni di un livello tecnico tale da permettere di costruire un contatore o di tracciare la mappa dei depositi di scorie. Da questo punto di vista, una religione darebbe maggiori risultati. Si deve però tenere conto dell’eventualità di cambiamenti culturali che possono trasformare le pratiche religiose in soggetti di tesi per qualche raro studente d’archeologia. Anche il problema delle localizzazioni e datazioni a partire da antichi documenti presume sistemi di calcolo molto sofisticati perché le unità di misura possono cambiare così come i punti di riferimento: la morfologia di mari e continenti evolve e anche la carta del cielo si modifica con gli anni.

Come conservare un sapere in saecula saeculorum?

Sola soluzione possibile perché un sapere tecnico si conservi in eterno passa per la sua autoriproduzione. Poiché la riproduzione senza altra motivazione se non la riproduzione stessa è propria della vita, siamo indotti a immaginare in termini zoosemiotici un rivelatore vivente di radiazioni. Beninteso, affinché la specie non si estingua, bisogna che possegga una nicchia ecologica adeguata e duratura. Quale migliore nicchia potremmo trovare se non l’uomo stesso, dato che abbiamo ipotizzato che possa attraversare i secoli? Possiamo scegliere tra i numerosi parassiti che hanno sfruttato l’uomo sino a oggi. Per funzionare efficacemente come rivelatore, il parassita selezionato dovrebbe reagire all’aumento del livello di radiazioni pericolose con una trasformazione sensibile, ma non con la morte, troppo facile da confondere con la morte naturale né con una alterazione del processo riproduttivo. Esiste un illuminante esempio di ipersensibilità alle radiazioni (xeroderma pigmentosum) in cui un difetto genetico dei meccanismi di riparazione causa la comparsa di nei e macchie scure sulla pelle del soggetto esposto. Usando come esempio questa mutazione di colore non intendiamo suggerire l’utilizzo di parassiti umani, ma soltanto indicare l’esistenza di un fattore genetico suscettibile di conferire sensibilità agli irradiamenti mutageni.
Sarebbe per altro poco avveduto usare un micro-organismo di cui l’ospite nota la presenza solo al momento della sua trasformazione causata dall’aumento delle radiazioni. L’esistenza del rivelatore dovrebbe invece restare sempre presente nel pensiero dell’ospite, così da simulare l’effetto della fede religiosa o del piacere estetico, accrescendo la probabilità di conservazione dei documenti. La coscienza può venire alimentata dal dolore o dal piacere, ma l’angoscia può svanire e il ripetersi di disgrazie svigorire i sensi, mentre l’uomo non è mai sazio di piacere.
Se il rilevatore fosse un animale bello, affettuoso e misterioso, un gatto, per esempio, della cui compagnia l’uomo si è allietato dall’antico Egitto, è probabile che la perpetuazione di una razza speciale possa resistere nel tempo. Ci sarebbe anche da creare per questa razza una denominazione speciale, insieme suggestiva e enigmatica, che provochi curiosità nelle nuove generazioni: per esempio, se venisse chiamato “radiogatto”, ne verrebbe conservata la memoria delle proprietà di rilevatore. Inoltre, la traccia del rischio potenziale si conserverebbe nella memoria collettiva per mezzo di proverbi, storie, racconti e miti creati spontaneamente. A questo scopo, sarebbe utile una buona conoscenza della letteratura orale. In seguito, questo sapere così concretizzato dovrebbe resistere alle variazioni della cultura: avere un radiogatto in casa potrebbe, a seconda dei casi, rappresentare semplicemente una gradevole abitudine o trasformarsi nel culto di una divinità domestica.

Quali segni parleranno ancora tra diecimila anni?

Prima di progettare un sistema di segnalazione per il futuro, sembra utile guardare con occhio critico i segni già esistenti. La semiologia, da Peirce a Greimas, ci fornisce pratici strumenti per studiare il loro statuto. Per cominciare si possono distinguere i segni di carattere astratto (simboli) che sono comprensibili solo all’interno di una data società, dai segni figurativi (icone), leggibili grazie alla loro somiglianza con elementi dell’esperienza quotidiana. Solo la seconda varietà di segni sarebbe utile al nostro scopo, nei termini di una sagoma antropomorfica in azione o un semplice oggetto. In questo caso ci si domanda quale relazione si stabilisca tra l’oggetto rappresentato e il programma in questione.
Esistono, infatti, numerosi esempi in cui il segno non rappresenta l’oggetto mirato. Un segno composto da coltello e forchetta indica la possibilità di consumare un pasto e non quella di acquistare quegli attrezzi. La figura di un cranio decorato da tibie incrociate comunica la fine certa di chi penetra nel luogo così marcato. Ma in una diversa cultura l’associazione di coltello e forchetta potrebbe anche indicare che chi entra verrà mangiato e il cranio segnalare un rivenditore di ossa. Inoltre, la natura attrattiva o repulsiva di un oggetto è difficile da trasmettere in quanto dipende dalla nozione di buono o cattivo gusto culturalmente radicata nel soggetto. Per contro, desiderio, piacere, paura o disgusto vengono correntemente manifestati all’osservatore tramite gesti o mimiche più direttamente in relazione con la morfologia umana che con abitudini culturali e sono quindi meno suscettibili di variare secondo le mode.

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Sarebbe necessario, inoltre, porre segnali attorno alla zona a rischio, nonostante la inevitabile incertezza sulla loro durata data la possibile modifica della topologia locale nel corso del tempo (mentre si presume che il materiale usato per il condizionamento delle scorie sia indistruttibile). Si potrebbe immaginare un segnale sonoro come completamento della segnalazione visiva sopra descritta, con il vantaggio che il segnale sonoro è per natura sintagmatico contrariamente a quelli “da leggere”.
Tuttavia, è probabile che sia più difficile realizzare un segnale sonoro per diecimila anni e oltre, anche se potrebbe utilizzare come fonte d’energia quella delle radiazioni del deposito nucleare stesso. Più sicuro sarebbe forse utilizzare il rumore prodotto dal visitatore giocando sull’acustica dei luoghi per creare dei fenomeni di eco o di affievolimento del suono. Effetti sonori di questo tipo sarebbero conseguibili con appropriati rivestimenti delle gallerie quando le scorie fossero immagazzinate in miniere abbandonate. Quale che sia la soluzione adottata per la sua produzione, il suono dovrebbe aumentare d’intensità a misura della vicinanza alla fonte di rischio, mentre accanto all’area di stoccaggio il suono dovrebbe essere intermittente per disorientare i visitatori che intendessero accedere ai fusti. Grazie a un simile dispositivo, il sistema di gallerie della miniera – se si trattasse di una miniera – diverrebbe un “dedalo” non solo per la topologia particolarmente favorevole, ma anche per una specifica modalità di segnalazione.
Un segnale per essere operativo deve contenere una variazione monotona di una (o più) delle sue caratteristiche in funzione della distanza dal luogo verso cui orienta l’utilizzatore. Al contrario, qualità fondamentale di un segnale d’allarme è d’imporsi di colpo all’attenzione del soggetto: questo effetto viene di norma ottenuto con un brusco inizio e un’analoga fine e con ripetizione di sequenze, ossia un processo caratterizzato da quanto la semiotica chiama “aspetti”. Infine, il segnale dovrebbe avere una certa somiglianza con il fenomeno che annuncia, quantomeno per ciò che ne riguarda il carattere euforico o disforico.

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Va riconosciuto che queste proposte si basano sulla messa in opera di emettitori quasi eterni alimentati da energie inesauribili. Dato per risolto il problema, possiamo spingerci più lontano e ipotizzare che effetti simili si potrebbero ottenere mediante emittenti di luce, con l’ovvio rischio che questi giochi di suoni e luci passino per opere d’arte. Dunque, per concludere, resta un’ultima domanda pertinente: il soggetto condividerà il significato letterale del messaggio dissuasivo e della sua forza perlocutiva ovvero porrà sull’enunciato le virgolette della simulazione? Così l’effetto sarebbe assai distante da quello prefissato. Per un lupo una trappola è una trappola. Ecco perché le trappole per lupi sono efficaci.

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