Tonino Griffero su NELSON GOODMAN


Da: “Alfalibri”, n. 6, supplemento di Alfabeta2, n. 14, novembre 2011.


 

Nelson Goodman
Arte in teoria arte in azione
traduzione di Nicoletta Poo,
a cura di Paolo Fabbri,
et al. 2010, pp. 102, € 18

Nelson Goodman
Catherine Z. Elgin
Ripensamenti in filosofia, altre arti e scienze
traduzione di Nicoletta Poo,
prefazione di Paolo Fabbri,
et al. 2011, pp. 192, € 25

L’estetologo «continentale», affrancatosi a fatica dall’ossessione romantica per il carattere utopico dell’arte, è francamente sorpreso di leggere in un filosofo analitico come Nelson Goodman la tesi secondo cui l’arte è la creazione di un mondo. Anzi, di molteplici mondi, nessuno dei quali tra l’altro, non essendovi mai un al di là del linguaggio, può dirsi più vero dell’altro. E da questo ambizioso irrealismo costruzionalista, affiancato da un salutare «agnosticismo sui valori» (Fabbri) attento a non tramutare surrettiziamente una classificazione («è arte») in un encomio («è buona arte»), che deriva la proposta di riformulare la domanda centrale in estetica («che cos’è arte?») in quella («quando è arte?») che, assai meno metafisica, valorizza l’integrale contestualità delle proprietà estetiche. Molto più problematico è invece il rifiuto dei criteri dell’intenzionalità autoriale e della ricezione a vantaggio del modo in cui l’opera funziona (così sottratta alla letale ipotesi proiettivistica), risultando poco coerente l’esclusione dell’intenzione dagli aspetti cognitivi ritenuti da Goodman indispensabili alla comprensione estetica, come pure della ricezione da ciò che («implementazione») aiuta a rendere operativa l’opera.
Altrettanto sorprendente è l’analogia di questo irrealismo, peraltro assai ben documentato nei due importanti volumi curati da Paolo Fabbri, con una certa ermeneutica. Goodman nega l’esistenza di un occhio innocente e ravvisa nella percezione, anche preartistica, non la restituzione realistica di un mondo dato ma la produzione di un mondo almeno relativamente nuovo. Soltanto che questa «filosofia del comprendere», tesa in linea di principio a evitare tanto l’assolutismo (un’opera significa quel che vuole il suo autore) quanto il relativismo radicale (l’opera ha qualunque significato le si attribuisca), non può fare a meno di mutuare alcuni, non sempre condivisibili, tòpoi «continentali»: riduzione dei fatti a interpretazioni e della verità alle molteplici verità in conflitto (la cui pluralità, peraltro, non le rende meno un dato di fatto!), inesauribilità del senso e integrale mediazione linguistica del mondo, distinzione tra la comprensione vincolata alla determinatezza del testo e interpretazione come libera riformulazione applicativa.
L’interpretazionismo radicale goodmaniano è ben argomentato e non dogmatico, e tuttavia inspiegato resta dal nostro punto di vista – posto che un nuovo mondo sia solo una variazione su un mondo precedente – cosa possa indurre a «rifare» ciò che funzionava adeguatamente? Detto altrimenti, se la validità in un contesto non corrispondentista è sempre e solo intraparadigmatica, come, quando e perché a certi paradigmi (o stili) ne subentrano degli altri? E le spesso evocate rigorose restrizioni che governerebbero questa proliferazione dei mondi non si esauriranno in permutazioni sintattico-simboliche prive di incidenza sul mondo della vita e quindi, in ultima analisi, incapaci di inaugurare appunto il nuovo mondo di cui si parla?
Al centro dei volumi troviamo, declinata nei vari saggi che li compongono, l’analisi del rapporto tra i «sintomi» dell’estetico e la simbolicità in termini di attenuazione della trasparenza sintattica e semantica, detto altrimenti di concentrazione sull’intransitività del simbolo a scapito del differimento. Col che però – paradossalmente – Goodman non s’accorge di concedere alla simbolicità quell’autonomia ontologica e semantica che rifiuta alla realtà esterna, estendendo inoltre, giusta la disidentificazione di rappresentazione e somiglianza, la tesi secondo cui quasi ogni cosa può stare per quasi ogni altra dai contesti molto artificiosi in cui essa effettivamente vale a quelli fondati sulle salienze non arbitrarie (mimetiche, isomorfiche) del mondo della vita.
Ma come in tutti i grandi autori, pregi e difetti vanno qui insieme. L’acuta sottrazione cognitivista dell’educazione artistica alle «ebbrezze tossiche» (Fabbri) del genialismo romantico, ad esempio, presuppone purtroppo una concezione solo fisicalistica (ossa, nervi, muscoli) della corporeità necessaria alla comprensione estetica, e solo soggettivistica dei sentimenti che vi sono implicati. Le finissime ricerche di Goodman riguardanti, per fare qualche esempio, il rapporto tra ordine del discorso e ordine del racconto, il problema delle «variazioni» nelle diverse arti, il valore epistemico della stupidità (meglio: dell’adozione di schemi concettuali meno raffinati), il carattere fuorviante del criterio della somiglianza nella competenza visiva, mettono bensì a giorno un solido approccio relativistico, ma forse troppo fiducioso nella penetrabilità cognitiva della percezione e nella possibilità di svincolare del tutto l’arte dalla filosofia della storia. La provocazione con cui Goodman liquida l’effetto morale di un museo riducendolo alla tentazione di commettervi dei furti (!), se è retoricamente efficace contro i cascami spiritualistici di una certa (cattiva) estetica, ha però il difetto di emarginare eccessivamente la dimensione corporeo-affettiva («estetica» in senso etimologico) dell’esperienza dell’arte.
In fondo, se l’arte ci aiuta a meglio comprendere il nostro mondo, facendo e rifacendo altri mondi a dispetto di ogni «ontalgia» (così Fabbri, ridicolizzando a giusto titolo ogni nostalgia dell’ontico come referenzialismo monistico), è anche perché coinvolge il corpo vissuto e gli affetti con i quali siamo di volta in volta nel mondo (al singolare!).
Non c’è comunque da preoccuparsi: anche il fenomenologo della vita affettiva, tanto quanto il costruzionista à la Goodman, ha ancora sempre molto da fare.

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