Tatsuma Padoan su FRANÇOIS JULLIEN


Da: “Alfalibri”, n. 9, supplemento di Alfabeta2, n. 17, marzo 2012.


 

François Jullien
L’ansa e l’accesso. Strategie del senso in Cina, Grecia
a cura di Paolo Fabbri,
Mimesis Edizioni, 2011, pp. 350, € 26

1. Le scorciatoie intellettuali non sempre portano dritti al cuore della faccenda. È quanto ci ricorda François Jullien nel suo saggio Le détour et l’accès. Stratégies du sens en Chine, en Grèce, recentemente ripubblicato in italiano per i tipi della Mimesis (L’ansa e l’accesso. Strategie del senso in Cina, Grecia, a cura di Paolo Fabbri, Mimesis Edizioni, Milano, 2011). Jullien, evitando accuratamente il tragitto più breve e diretto, conduce il lettore attraverso un lungo e sinuoso percorso nei testi letterari, filosofici e artistici della tradizione cinese. Il lettore, nel corso di questo denso ma fluente détour intellettuale è guidato attraverso le anse, le curve e le deviazioni del modo di argomentare il discorso in Cina, ed è indotto ad apprezzare l’efficacia di tale procedimento come via di accesso al senso. Come l’aspirante nez delle industrie cosmetiche, che allena il suo olfatto a distinguere tra i diversi profumi delle mallettes à odeurs in tutte le loro sottili sfumature, il lettore-filosofo allena il suo intelletto gustando le fragranze di un pensiero altro, che si articola (in modo indiretto) attraverso allusioni, evanescenze, atmosfere, deviazioni, e matura una sensibilità di pensiero che gli permette di allontanarsi dai paradigmi della verità, della referenza, del segno, della rappresentazione. Ne risulterà dunque un lettore che non potrà più evitare di “pensare altrimenti” (Deleuze), e di ripensare criticamente i propri modelli concettuali e interpretativi.

2. Jullien, scivolando dalle tattiche militari all’arte dell’invettiva, dalla poesia alla diplomazia, dal dialogo filosofico confuciano al pensiero taoista, ci spiega come in Cina, l’efficacia del senso sia stata affidata non alla costruzione di un piano di verità trascendente, che punti verso l’essenza delle cose (ousia), bensì a una logica del discorso che suggerisce anziché definire, allude anziché rivelare.
Lo ritroviamo nei trattati militari (cap. II): l’azione efficace sul nemico va condotta prima ancora di dispiegare le proprie truppe di fronte a lui, attraverso un approccio trasversale che permette di dominare l’avversario rimanendo imperscrutabili. Il nemico rimane paralizzato in quanto non sa dove andremo a parare. Anziché infatti focalizzarci sul momento dello scontro, attualizzato da manovre tattiche, potremo mantenere l’iniziativa attaccando l’avversario nei suoi piani strategici, allo stadio virtualizzante (Landowski), attraverso un principio variabile di aggiustamento che ci fa cogliere la diversa circostanza per sfruttarla a nostro vantaggio.

3. Andando invece dal dominio del conflitto a quello più contrattuale del dialogo tra maestro e discepolo (cap. IX), Jullien nota come l’insegnamento confuciano sia spesso indiziale, ruoti attorno al non-detto e alla sottigliezza (wei yan): “Io sollevo un angolo [della questione], e se l’interlocutore non ritrova gli altri tre, non vado avanti” (Dialoghi di Confucio, VII, 7 e 8). L’enunciatore mantiene una distanza allusiva, attraverso cui egli non pretende di catturare tutto il significato – con la conseguenza di immobilizzare il senso. L’allusione lascia invece libero il senso, spostandolo verso un enunciatario, a cui viene lasciato il compito di completare il discorso. È ovvio che i meccanismi qui in gioco non riguardino tanto dei segni, quanto degli atti semiotici (Fabbri), capaci di riconfigurare la competenza degli interlocutori. La sintassi del discorso viene così scandita a livello tensivo-aspettuale: è capace di mantenere una tensione indagatrice in chi ascolta, proprio grazie al carattere incoativo, di iniziare a dire, per poi lasciare agire l’implicito.

4. La prospettiva di Jullien introduce in tal modo questioni epistemologiche di grande attualità per il dibattito contemporaneo. Ad esempio, l’idea, profondamente semiotica, che non esista un divario tra un soggetto particolare che percepisce e produce rappresentazioni, da una parte, e la realtà di un mondo a cui possiamo solo tendere asintoticamente, dall’altra. Soggetto e mondo, come spiega molto bene anche B. Latour, emergono invece insieme dalla dimensione del discorso, durante un processo di reciproca interazione, che articola il reale stesso in reti traduttive e dinamiche. Ce lo chiarisce Jullien con l’esempio dell’incitamento poetico (xing), in cui gli attori naturali fungono da partner degli attori umani in dinamiche di interazione. Il mondo si enuncia nel poeta suscitando la sua emozione, funziona da innesco affettivo: si creano atmosfere passionali descritte come aure di senso indefinite ma pervasive, che sono il prodotto di tali interazioni.

5. Resta da chiedersi se Jullien, che da filosofo e sinologo ha dedicato molto del suo lavoro a delineare alcuni orientamenti unitari e trasversali nello sviluppo del pensiero cinese, non abbia, in questo che pure è uno dei suoi saggi più articolati, tralasciato altri aspetti. Mi viene in mente il problema della metafisica buddhista, che ha conosciuto specifiche e assai importanti elaborazioni in Cina, influenzando a sua volta lo stesso neo-confucianesimo. Includere le diverse scuole di buddhismo cinese nell’analisi di Jullien metterebbe in luce una complessità ancora più ricca di strategie del senso (come il concetto di abilità dei mezzi o fangbian, o quello di dualismo non-duale, che presentano modi altrettanto diversi di trattare il problema della verità), utile a integrare il suo progetto eterotopico. Cionondimeno, come ci insegna Jullien, un linguaggio è tanto più efficace quanto più non pretende di sigillare i significati in una forma esaustiva. Ci sentiamo di consigliare al lettore i benefici che questo lavoro può infondergli, se sarà in grado di continuarne il movimento di innesco incoativo, cogliendone così il senso, nella sottile curva del suo discorso.

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