Abitat e bellezza


Da: AA.VV., Abitat e bellezza, a cura di Giovanni Fraziano, Lint Editoriale, Trieste, 2008, pp. 76-89.
Contributi di Marco Casamonti, Philippe Daverio, Antonio Monestiroli, Luciano Semerani, Paolo Fabbri.


Che cos’è la bellezza? È una domanda difficile. Questa domanda evidentemente è un problema molto grande, ed è il problema dell’estetica.
Vorrei ricordarvi, in maniera molto banale, che per definizione la bellezza nella nostra cultura è Venere. Ma dalla parola venus deriva: Venere e venereo. Curiosamente la parola velenum viene da Venere. Cioè Venere è l’origine di grandi piaceri ma anche di malattie veneree. Cioè la bellezza è veleno. Non possiamo non pensare la bellezza senza il suo veleno.
C’è una dimensione velenum nella bellezza, in ogni tipo di bellezza; e l’idea olimpica della bellezza come armonia, come tranquillità… sembra difficile da vivere nella nostra epoca. Diventerebbe davvero nostalgica.

In modo scherzoso una volta ho detto che Goethe poteva essere olimpico, (anzi è lui che ci ha proposto questa visione del mondo) ma che con la televisione tocca a noi essere olimpici noi, gli spettatori. La televisione tenta di divertirci a tutti i costi, e tutto quello che possiamo fare è l’esercizio di una certa olimpicità: mettere a distanza i problemi rifletterci.
Allora cosa voglio dire con veleno: che c’è gusto e disgusto e che tutto sommato mi piacerebbe con voi fare uno sforzo di uscire dall’idea dell’estetica, o meglio lo studio della bellezza, e porla sul piano della sua radice che è l’estesia. Estesia vuol dire percezione, l’estesico. Là dove il corpo è in qualche misura percettivamente impegnato con il mondo e con l’abitat.
L’abitat non è questione d’estetica, è questione di estesia. Stare nella vostra casa nei momenti gradevoli… l’idea di un piacere di un’intimità della casa. L’idea che la casa è un mondo.

Vi faccio una proposta di pensare al momento della bellezza come un atto intellettuale di valutazione successivo al momento estesico. Il momento estesico percettivo al contrario è un momento dove si sta bene. Quindi sostituisco la parola bello e brutto, con l’idea di benessere e malessere.

Il problema contemporaneo dell’abitat non è il bello ed il brutto, ma è il benessere e malessere.

Un grande filosofo degli anni ’40 e ’50 [Gaston Bachelard (1884-1962)] ha scritto un testo molto bello, si chiama “Poetica dello spazio” e diceva una cosa molto interessante, diceva: bisogna fare delle topoanalisi, nel senso di analisi di spazio, e diceva che noi stiamo al mondo come topofilia o topofobia, cioè gli spazi sono gli spazi amati o gli spazi odiati.
Cioè l’idea che noi viviamo in un mondo dove ci sono degli spazi che ci fanno orrore e ci sono degli spazi in cui noi stiamo bene. Ecco l’idea (questa è la mia proposta), è di pensare in qualche modo al mondo non come luogo bello o brutto, che è un giudizio esterno…

Distinguiamo dunque dal giudizio estetico, che è un giudizio valutativo esterno culturale oggettivato, al momento in cui noi siamo inclusi nell’abitat, perché l’abitat non è qualcosa che noi vediamo dall’esterno ma dentro il quale stiamo.

Cominciamo da una cosa che mi interessa molto, e che è il problema di un concetto: è il concetto di natale, natale come il luogo dove si nasce, che è un luogo intermediario tra il sociale ed il biologico. La casa natale, l’abitat, cioè della casa. Cos’è una casa? Allora, voi direte ma la casa è quella cosa che serve per coprirsi per vivere…. no, parliamo di estetica ed estesia, se io vi dicessi che quando avete molta sete vi buttate sull’acqua e la trangugiate va benissimo, soddisfate un principio di necessità; ma voi siete sicuri che quando bevete, o tracannate l’acqua in un momento di sete, non sentite il piacere dell’acqua? Cioè i mezzi sono solo mezzi? O c’è un piacere dei mezzi? La casa non è fatta soltanto per coprirsi, perché ha il riscaldamento, beninteso che c’è… ma il piacere di stare in casa non è riducibile alle funzioni che la casa ha, è un altro piacere.
Ecco il problema estetica.
L’estetica è il fatto che persino nei mezzi strumentali, più banali, più ovvi: nella bicicletta, con la moto c’è il momento in cui… certo che serve per andare da qui a lì, ma mentre vai lì c’è il vento, e c’è anche il rischio di cadere. Dunque l’estetica è dentro le funzioni delle cose.
La casa è un piacere: la casa è un valore. Voi direte: un valore perché costa tot! Si ho capito che costa tot, però immaginiamo che voi stiate in una casa e ci stiate male, e immaginiamo che voi stiate in una casa e ci stiate bene, l’amato e l’odiato. Quindi il problema per me dell’estetica non è un problema. È un problema del valore.

Quindi sostituirei alla domanda della bellezza la domanda dell’estesia, cioè il piacere, l’amato e l’odiato, e del valore e del disvalore.
La casa può essere un luogo di disvalore, dove uno sta rinchiuso, dove non ti da la possibilità di accesso all’esterno, cioè la casa come prigione. E la casa invece come valore, il luogo dell’intimità, del momento in cui ci si sottrae ad un mondo faticoso e si sta per così dire, in un concetto fondamentale della nostra vita, che è l’agio. Fondamentale per l’abitat è l’agio, è il disagio, è il bello ed il brutto. È l’agio non nel senso degli agi, nel senso dell’agiato. Ma l’agio nel senso della propria libertà. La libertà di trovarsi con se stessi o con la propria famiglia, la libertà di sottrarsi all’esposizione delle autorità.
Estesia e Valore: quindi ho preso il concetto di bellezza, l’ho riarticolato e ho detto: valore estesia, gusto disgusto, agio disagio.
Voi direte, ma allora se il problema è piacere dispiacere, agio e disagio: ci sono anche i luoghi indifferenti. È quello che oggi chiamano non-luoghi. Si dice sempre che il mondo attuale è un esempio di non-luoghi, c’è tutta una retorica dei non-luoghi assolutamente noiosissima: l’aeroporto è un non-luogo, grandi spazi delle stazioni sono dei non-luoghi, eccetera…

Nei non-luoghi inabitabili si può comunque abitare.

Un esempio è il film The Terminal: è una paradossale storia che dimostra che nei luoghi più impossibili c’è comunque uno spazio curioso.
Secondo me non esistono veramente i luoghi indifferenti in sé, semmai sono indifferenti rispetto alle nostre pratiche.

Primo Levi, nel campo di concentramento scrive, oltre all’orrore della prigionia, una cosa molto interessante: che gli ebrei di Salonicco si erano messi tutti assieme, avevano fatto un mercatino, dove si vendevano chiodini, laccetti… piccole cose. E lui là vede benissimo che non era solo la funzione, era il piacere del commerciare, il piacere di scambiarsi una cosa. E aggiunge: e se fossimo restati ancora là dentro, forse tutta questa gente che parlava lingue diverse avrebbe fatto nascere una lingua nuova.

Siccome abbiamo il linguaggio, e il linguaggio ci serve per differenziare i problemi, propongo di non parlare di case quando si parla di casa. perchè c’è la ragione che la casa è un oggetto, e quindi non serve. L’oggetto lo puoi definire bello o brutto. Quello che sto dicendo io è che ci vuole un concetto che esprime l’abitabilità della casa, la quale può essere impossibile, orripilante e invivibile anche se bella, ma vivibilissima anche se brutta.

Cosa mi interessa della casa? Non l’aspetto di ‘edificio’ sottoponibile al giudizio bello o brutto, ma la relazione tra l’abitazione e la dimora. Dico abitazione nel senso del posto dove si abita, non la casa. Si può abitare anche non dentro casa, si può abitare dentro ad una tenda, i nomadi viaggiano, ma hanno l’abitazione anche loro. Il nomadismo non è un contro la casa. Il nomadismo è una tenda dove c’è ‘abitazione.

Mi piacerebbe fare una piccola analogia con le parole: l’invenzione della terza persona è importante quanto il cavallo e la ruota.
Perché voi potete parlare di qualcosa come se voi non ci foste: dite “piove”. Ma chi è che dice che piove? Io dico che piove. Ma la costruzione dell’oggettività è stata fatta sottraendo tutte le istanze personali. Pensate che noi possiamo parlare interamente all’impersonale: Trieste è una bellissima città!
Una delle nostre capacità è la oggettivazione. Noi possiamo oggettivare le parole, poi però possiamo soggettivare.

Voi che siete oggettivati fuori, che compite attività oggettivate, voi in casa dite io, siete in grado di poter dire io. In qualche modo c’è in casa un raccogliersi, un raccoglimento.
Voglio case in cui ci si possa raccogliere! Raccogliere prima di uscire, perché la casa dentro cui ci si raccoglie senza uscire è un rifugio, non una casa.

Una casa dentro cui sia possibile raccogliersi nell’intimità è in qualche misura topofobia. Ma naturalmente una casa che improvvisamente diventasse un muro da cui non si può uscire, da cui uscire è immediatamente pericoloso e dannoso è certamente una casa terrificante. Il raccoglimento si rovescia in clausura, e vedete benissimo che la dialettica, chiamiamola così tra clausura e raccoglimento è quello che vi raccontavo prima di Venere: Venere/veleno. Le case contemporanee in cui noi possiamo raccoglierci, ma non possiamo poi da lì ri-imbraiare sul mondo, ricominciare di nuovo ad uscire e incontrare, i posti da cui non si può uscire perché ci vogliono 40 minuti soltanto per avvicinare un altro posto non vanno bene.
Dunque è necessario simultaneamente che noi affrontiamo il problema dell’intimità. Di una intimità protettiva tale che ci consente di non essere invaso dall’altro e nello stesso tempo che sia un luogo dove si può ‘partire’ per l’altro.

Un esempio di totale invasione della casa contemporanea da parte dello straniero: È una poesia di Aldo Palazzeschi… che vuole una casa:

[…]
sogno una casina di cristallo
proprio nel mezzo della città,
folto dell’abitato.
Una casina semplice, modesta,
colina piccolina,
stanzette e la cucina.
Una casina
come un qualunque mortale
può possedere,
che di straordinario non abbia niente,
ma che sia tutta trasparente,
di cristallo.
e si veda bene dai quattro lati la via,
e di sopra bene il cielo,
che sia tutta mia.
L’antico solitario nascosto
non nasconderà più niente
alla gente.

Mi vedrete mangiare,
mi potrete vedere
quando sono a dormire,
prendere i miei sogni;
mi vedrete quando sono a fare i miei bisogni,
mi vedrete quando cambio la camicia.
Se in un giorno di malumore
mi parrà di litigare colla serva,
prenderete la sua parte,
e farete benone,
non c’è niente di male,
vi accorgerete dalla mia cera
come va la mia arte.
Mi vedrete chino sulle carte
dalla mattina alla sera.
E passando mi potrete salutare,
augurare il buon giorno
e la buonanotte,
e io vi risponderò.

[…]
Quando gli uomini vivranno
tutti in case di cristallo,
faranno meno porcherie,
o almeno si vedranno!
– Sostenete delle tesi sbagliate.
– È un pazzo come lui!
– Ma come se ne sta tranquillo quel salame!
– Guarda guarda, ci saluta!
– Ah! c’à detto buona passeggiata.
– Buon lavoro, poeta!
– È una gran puttanata!
– È una bella trovata!
(da Una casina di cristallo)
Allora che cos’è questa casa? È una casa dove l’altro è dentro fino alla fine, dove voi non avete nessuna intimità, e ironicamente, il nostro amico Scheerbat [Paul Scheerbart, Architettura di vetro (1914)] e i teorici della casa di vetro, con l’idea che non si può avere una casa di vetro, che bisogna proteggersi in qualche misura; e che il raccoglimento, il gioco del raccoglimento e il mostrarsi è fondamentale.

Un racconto di Alberto Savinio, Casa “La Vita” (1943):
Entra in una casa e non trova niente, trova tutti i mobili disposti come se la gente fosse andata appena via, visita visita, gira la casa… c’è il suono di un violino. Alla fine attraversata tutta la casa lui arriva e vede che c’è un violino che si muove da solo, non c’è nessuno. Si guarda in uno specchio e si accorge che è entrato bambino ed è uscito vecchio.
È l’idea che la casa è anche il posto in cui passiamo tutta la nostra vita, e se vi ricordate bene, per ciascuno di noi il natale, la casa natale, diventa il parametro non solo della nostra memoria, ma diventa il diagramma di tutte le case dentro cui vivremo, e che quando c’è memoria, noi ricordiamo le case della nostra infanzia, e quando guardiamo le case della nostra infanzia abbiamo bisogno di pensare il futuro e di liberarci di questo modello perché se no ripensiamo tutta la vita alle case della nostra infanzia.
Sapete che la memoria è una strana cosa… si perde! Tant’è vero che quando vedete le fotografie vostre che hanno i vostri amici che voi non vi ricordavate più siete sorpresi perché nelle fotografie vedete: “oh mio dio, guarda quella foto, di me stesso che non mi ero più visto!”
Ebbene la casa è il luogo dove si riportano sistematicamente i propri ricordi. A volte è kitsch, le collezioni di bamboline, degli oggetti Swarovski, le cose da aeroporto, sono non-cose comprate nel non-luogo, ma appena entrano nella casa, improvvisamente per brutte che siano fanno parte di questa cosa stupefacente che è l’intimità della casa.
Esistere in qualche misura è dimorare da qualche parte.
L’esistenza è dimora, da cui si può rifugiarsi nell’intimo e uscire.

Qual è lo spazio della casa che è destinato all’accoglienza dell’altro?
Il luogo dell’ospitalità.
È fondamentale che nella casa ci sia uno spazio di ospitalità.
Questo è uno dei grandi problemi della casa contemporanea, la fine degli spazi di ospitalità. Nel ritorno a casa, nel raccoglimento, ci deve essere spazio di ospitalità. Una delle cose tragiche, nelle città, nei luoghi dell’abitare, nella vostra casa, è la fine del luogo dell’ospitalità, cioè la fine del luogo dove l’altro è vicino a noi e da cui noi possiamo uscire per cercare l’altro.
Dove stanno adesso i luoghi di ospitalità?

Il problema non è che siano belli o brutti, il problema è il disgusto di un luogo perfetto dove manca uno spazio ospitale, assegnato alla funzione di ospitalità. Un luogo in cui l’altro obbiettivato, il terzo, la terza persona, abbia spazio per essere un po’ fra voi, cioè dove c’è un luogo di accoglienza e non solo di raccoglimento.
Il raccoglimento è fondamentale, ma è assolutamente negativo se non è un luogo che prepara al luogo dell’accoglienza.

Le nostre città hanno problemi tragici non tanto di raccoglimento, quanto di accoglienza. E allora la bruttezza o meno della città va valutata a seconda se vi siano dei luoghi dove è possibile l’ospitalità!
La gente si lamenta di non-luoghi, ma quali non-luoghi? Ogni non-luogo può essere un luogo trasformato in luogo di ospitalità, o viceversa.
Di qui l’elogio della finestra! … La gente che visita le case si precipita alle finestre. Ma perché? Si precipita alle finestre perché nel luogo in cui nel massimo del raccoglimento c’è l’apertura verso l’altro, lo spazio altrui.
Nella finestra che è il posto dove voi guardate senza essere guardati, avete uno spazio che è veramente il vostro spazio dentro e fuori così importante … altro luogo fondamentale della casa sulla cui importanza topologia/topofilia topofobia … La porta! Pensate alle porte.
Negli ultimi trent’anni le industrie di costruzione, di sicurezza e di allarme sono cresciute in maniera stupefacente. Le città sono diventate blindate.
La porta è diventata il luogo dove gli altri possono fare irruzione. Dovremmo andare tutti a vivere in un posto in cui non c’è bisogno di chiudere la porta … infatti andiamo in vacanza in un posto dove si può ‘non chiudere la porta’. Ecco l’idea di uno spazio lodato, che sarebbe quello che avrebbe la possibilità di un raccoglimento sufficiente per potere sempre uscire e di una possibilità di accoglienza e di ospitalità.

Tommaso Moro nella sua Utopia: le porte si aprono in tutte e due le direzioni.
Fino ad adesso vi ho parlato di una sola cosa, di dire la casa come concentrazione, l’idea della cosa come raccoglimento.
La casa ha un’altra qualità, oltre al raccoglimento, ed è la sua verticalità!
Allora parliamo di cantina e di soffitta!
“La buona, la vera casa è quella
che ha come gli uomini, i piedi e la testa.”

Quindi la cantina e la soffitta.
Cioè che in qualche modo viviamo tutti a una dimensione, come diceva Pruan, per la semplice ragione che viviamo a livello dello ????? ci manca la cantina e ci manca il soffitto. Non abbiamo posti dove andare a rimettere le cose e non abbiamo posti in cui mettere sotto le cose. Sarebbe molto divertente studiare, guardare i film dell’ orrore contemporaneo, del genere topofobia.
Non so se avete notato: sono tutti su case americane bellissime, dove c’è l’orrore che comanda tutto. Ad un certo punto il momento più orribile è quando la gente scende in cantina. Tutte le discese in cantina sono terrificanti. Le salite in soffitta sono tutte minacciosissime, per chi ha vissuto sempre in luoghi a metà sono due posti impossibili, terribilissimi. I film dell’orrore sono tutti domestici.
Gli americani sono specializzati nel loro cinema in rendere terribili i giocattoli, nel far uscire i mostri dalla televisione… perché?
Perché la casa, isolata dalla sua funzione di interazione, la casa senza ospitalità (che è la casa americana), la casa senza la possibilità senza un’ uscita che dia direttamente sul mondo, è una casa terrificante, spaventosa.
E non a caso l’immaginario l’approfondisce: l’immaginario non è l’antro della realtà. L’immaginario è quella cosa che approfondisce i problemi della realtà.

Adesso vi ho parlato delle diverse cose veneree, cioè dei piaceri. Adesso però dobbiamo cominciare a fare un piccolo sforzo per pensare ai possibili veleni. Un po’ l’abbiamo già detto: la casa è il luogo della reclusione, è il posto dove si sta così bene che non si esce più, è il mondo della pantofola e del forno, il luogo del raccoglimento dentro la bellezza… il piacere del raccoglimento di sé: “comincio a non avere più voglia di uscire!”
Ecco il veleno! Il veleno di una interiorizzazione dove tutto è povero/poco?, l’idea per esempio: “dobbiamo metterci in casa tutte le comodità possibili, così riusciamo a non uscire mai più!” La casa che per aumento di comunità diventa perfetta per il giorno, lo so che quello che dico è un po’ fenomenologico, un po’ banale, ma quest’idea che la vita a casa propria può essere “farmacon”, (come diceva Platone) e che i farmaci sono allo stesso tempo una cosa che se presa fa bene, ma se presa troppo fa male.
Anche l’ospitalità, cioè accogliere qualcuno dentro la casa, può essere un momento fondamentale, ma chi di voi non sa che l’ospite dopo tre giorni puzza. Cioè l’idea che l’ospitalità non deve essere abbastanza prolungata. Un altro dei problemi dell’equilibrio tra raccoglimento è il problema della gestione della porta della casa. Può essere la porta sempre verso l’esterno, può essere solo aperta verso l’interno, può essere chiusa.

Ad esempio in Sicilia la grande cura ed attenzione per gli interni delle case, non corrisponde al degrado delle pareti esterne delle case.
Il problema fondamentale è dove comincia il fuori e dove comincia il dentro. Il bello ed il brutto si calcola anche a partire da questo: dove comincia il fuori dove comincia il dentro.
Esempio semplice ed etimologico:
Da dove viene la parola “fuori”? Viene da fores, fores vuol dir porta. Ma è la parte fuori della porta, la parte dentro si chiama ianua.
Da fores viene fores-tiero. Il forestiero entrando sta vicino alla porta. Quello lontano no! Quello è il pellegrino, si chiama per agra cioè va per i campi. Il pellegrino, una cosa pellegrina è una cosa lontana. Quello è il vero fuori.
Ma l’esteriorità non è il fuori: c’è un’interiorità e c’è un vero dentro; c’è un’esteriorità e c’è un vero fuori. L’interiorità e l’esteriorità son gestiti dalla porta, e la porta è quella cosa che si può gestire in modi diversi.
Le porte di oggi sono blindate. E pongo problemi molto seri non solo sulla blindatura, ma anche sul problema della loro apertura. La fine dell’ospitalità è uno dei grandi problemi oggi, ed è lì forse un problema dell’estetica contemporanea.

Il film Tutti a casa: l’idea fondamentale che quando finisce il mondo, quando finisce la nazione, quando finisce la guerra, quando finisce un progetto culturale, la gente va tutta a casa, la gente torna…
Dovremmo incominciare a trovare bello quello che chiamavamo brutto, dovremmo cominciare a pensare che un mondo di scorie è un mondo dove dovremmo arrangiare la nostra vita, che non dobbiamo pensare nostalgicamente a un passato in cui sarà possibile – vecchia storia- ritrovare un mondo pulito definitivamente, in cui le statue saranno tutte bianche (anche perché non lo erano mai).
Ma non credo che dovremmo arrangiarci in questo mondo, dovremmo vivere arrangiando, facendo gusto dei nostri disgusti. Non voglio dire adattarsi al mondo così com’è, questa non è utopia! No! Sarà la vera utopia: quanto ci sarà possibile fare in un mondo in cui qualunque richiesta contraria, che è, sarà sbagliata, non voglio dire che il mondo va in quella direzione, bisogna opporsi a questo mondo, ma il mondo sarà la composizione della nostra opposizione e di questo orientamento. Ed è qui che dovremmo trovare in qualche modo il nostro senso.

Le scorie e la storia

Viviamo sembra la fine della storia, ma non la fine dei suoi effetti, cioè delle scorie della storia. Ogni processo storico lascia dei ruderi e dei residui, dei rottami, dei liquami, dei relitti, dei frantumi; figuratevi il capitalismo industriale globale. Abbandonati dalla storia ci troviamo sperduti sotto le macerie del muro di Berlino, in mezzo ai gas di scarico, immondizie, inquinamenti, veleni e altre nequizie e altre iniquità ambientali. È il tempo della scoria! Restiamo fra i resti, risediamo tra i residui, avanziamo tra gli avanzi. Oggi le idee avanzate sono solo avanzi di idee. Non si tratta di frammenti e di rovine che lasciano intendere e rimpiangere una perduta totalità, a cui potremmo risalire.
Sono dei residuati, residuati bellici, residuati civili, commerciale, industriale, rimanenze urbane, irriconoscibili e senza senso, insomma: post modernariato. La parola scoria è precisa: è excremento, cioè la parte deteriore superflua che rimane dopo la cernita, i procedimenti di vaglio e di selezione.
La scoria è secrezione, ma di tale entità che ormai è lo stesso processo di cernita che viene sommerso. Una volta facevamo le cernite, oggi è il processo di cernita.
L’inconscio collettivo e i nostri incubi sociali sono fatti di questi residui diurni, siamo presi nella gabbia di scorie di prodotti, merci, uomini, linguaggi scaduti, e ce n’è di avanzi. Che può fare lo spazino che in alcune lingue politicamente corretto si chiama: operatore di superficie? Ci sono scorie nucleari come il plutonio che per decadere richiedono migliaia di anni. I mass media ci trascinano senza sosta nei prodotti infiniti del trash, scorie! Scorie radioattive e telepassive, comunicazioni trite e contaminazioni da detrito.
Il resto è silenzio.

Che faremo delle scorie delle scorie?
Ci sarebbe un’altra via da percorre: trasformare la quantità in qualità, praticare un’estetica della scoria, chi lo fa oggi? L’arte contemporanea.
Se andate in una mostra trovate al 90% oggetti di scarto. La maggior parte delle cose che troviamo sono sublimazioni di scorie. E attualmente l’arte ci mostra la via!
Via paradossale, lo so.
Sto scherzando ma allo stesso tempo sto dicendo quale sarà la difficoltà di domani. La difficoltà di domani, che gli artisti stanno tutti con il dito puntato verso una trasformazione del residuo nella sua estetizzazione.
Oggi, diciamo la verità, l’arte contemporanea si è immersa nelle nature morte e nei messaggi delle merci. Facendo un grande bricolage che tenta di trascendere questo trash, e poi questa roba ricade nella pubblicità, ricade nella produzione.

Foscolo disse: “Italiani vi esorto alle storie”.

Ecco allora io vi dico: Italiani vi esorto alle scorie.
Anzi ad una nuova scoriografia. Una storia delle scorie.

Bisogna cercare in questi tempi ultra-post-storici i corsi, i riscorsi, i discorsi delle scorie. La scoria non è naturale. L’hanno studiata con cura i detti, le alte gesta che l’hanno generata. Accelerazioni, accumulazioni, sedimentazioni, rotture… studiando con metodi rigorosi: scorie di vita, scorie quantitative, scorie di breve e di lunga durata, scorie periodizzate, scoria moderna, scoria contemporanea, per trarne una lezione: scoria magistra vitae. Con una propria musa, l’undicesima musa, a cui propongo il nome: la chiameremo Calia. Calia nel vocabolario definisce cosa da niente senza valore anticaglia. Ma noi la chiameremo la musa.
Che scorie son queste! Voi mi direte! Non c’è da meravigliarci, noi siamo alla fine, è proprio un’altra storia!

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