Accostamenti all’opera di Valerio Adami


Da: Catalogo Valerio Adami (opere 1990-2000), a cura di P. Fabbri, Ed. Skira, Verona, 2001.


 

Dissegno
Un giovane d’aspetto nobilissimo, vestito d’un vago e ricco drappo, che con la destra mano tenga un compasso, e con la sinistra uno specchio.

(Cesare Ripa, “Iconologia”)

0.

Ritrarre è rischioso esercizio. Non è infrequente che chi conosce il soggetto rappresentato non lo riconosca in effige e viceversa. E soprattuto che colui che viene ritratto non si riconosca (persino gli specchi non riflettono abbastanza). Il rischio s’aggrava se chi è ritratto è un pittore e chi lo ritrae un semiologo, che sa più di linguaggi che di visione. (Ritrarre un altro è maniera obliqua di parlar di sé.) Bisogna comunque tentare, di abbozzare il ritratto di Valerio Adami, altrimenti il gioco della conoscenza personale e obbiettiva non varrebbe un barlume di candela del metodo. L’ineffabile è proprio quello che aspetta di essere ancora detto.
La Semiotica è una disciplina costruttiva e prospettica che si attribuisce spesso il privilegio esorbitante di applicarsi dall’esterno ai testi visivi, per farli parlare. Ma io non faccio parte della genia che estorce in via applicativa sensi pittorici da ricettare poi nella teoria. Mi interessa, m’appassiona di più ipotizzare o immaginare che l’attività del disegnatore, del pittore abbia un senso complessivo nel suo fare e nel suo dire su questo fare. Spetta al semiologo, alla sua maniera e ai suoi modi, intendere come Valerio Adami si serva non di un vocabolario iconologico preordinato, di unità di senso precedenti al testo, commisurate ad una realtà oggettiva o soggettiva preesistente. E crei invece un lessico di segni, immanente ai suoi affreschi, quadri e disegni che sta a noi dis-implicare. Per questo la produzione di Adami non è riducibile ad un codice culturale epocale, anche se al suo tempo il pittore deve molto e molto rende.
Nel nitore delle linee e nella saturazione del colore, il lessico di Valerio Adami è enigmatico. Non è un segreto che si nasconde nelle profondità dell’io, nello spessore del mondo o nelle pieghe della cultura. È un enigma che risiede nella superfice della rappresentazione; nelle unità e nelle regole della composizione che il pittore indica e schiva. Il mistero non è nel profondo, ma nelle pieghe dell’evidenza planare del testo che Valerio Adami ci dà a vedere.
Provo quindi a procedere per Epanalessi – mi piace, come anche a Valerio Adami assaporare le immagini e i termini rari -, figura retorica della ripetizione con variazioni, dell’iterazione destinata a rafforzare un’idea. Mi capiterà quindi di riprendere immagini e propositi di Valerio Adami con varianti e varietà d’intonazione e di distanza.
(In un periodo di riflusso e di deriva dello sguardo semiotico è bene puntare i piedi!)

1.

Non mi tratterrò sull’evoluzione del pensiero visivo di Valerio Adami, sulla piega “neoclassica” della sua pittura, dopo l’esperienza della Pop Art (il suo “classicismo di mezz’età”). Nella cronoillogica storia dell’arte, ogni ritorno infatti è intriso di metalinguaggio e di ironia, come nel quadro di De Chirico, Il ritorno del figliol prodigo, dove il manichino avanguardista del pittore abbraccia la statua del padre in redingote, che non potrà certo uccidere vitelli grassi. Esattamente, se lo intendo bene, come nel quadro di Adami, Aeneas and Anchise in a classical landscape (1994): il figlio porta in salvo, corpo a corpo, la tradizione classica. La scena si svolge sotto l’occhio dello spettatore, mentre l’occhio ironico dell’animale domestico che chiede ed ottiene la nostra complicità. Inoltre le figure pseudo-circolari del ritorno (al figurativo, al classico, ecc.) nascondono la spirale dell’evoluzione stilistica. Orfeo non è più lo stesso dopo aver rivolto gli occhi ad Euridice.
Torniamo all’antico sarà del nuovo. Ma senza dimenticare l’intensità che si cela nelle sembianze algide del neoclassico e la virtualità d’immaginazione che è implicita nella riproduzione delle forme. Rifare con variazioni le figure della mitologia classica o di quella moderna, come piace ad Adami, non costringe ma libera una inventività continua. È, per l’appunto, Epanalessi.
Libero da ogni obbligo di esaustività, io sceglierò allora un certo numero di testi che sono il risultato dell’attività creativa di diversi periodi, in particolare degli ultimi dieci anni.
Titoli e figure hanno già un loro senso leggibile. Mi propongo di mostrarne qualche funzionamento, per trasformare questo senso immediato in significato costruito. La loro difficoltà, l’enigma, non è dovuta soltanto alla sottigliezza intellettuale e all’ampia cultura di Adami di cui le recenti Sinopie sono una “sinossi” di riflessione estetica e pratica letteraria. È l’eterogeneità degli elementi che caratterizza la solida composizione delle tele di Adami. “Il capolavoro è cosa plurale” (:62). Una molteplicità di “segni segreti e dubitanti” (:80) provenienti da universi figurativi singolari, trattata con diversi gradi di compiutezza, ma tenuti insieme dall’impalcatura fluida e salda del disegno, dalla distribuzione degli spazi tenuti insieme dalla linea e dalla compattezza delle campiture colorate. Corpi riconoscibili? Certo, ma senza dimenticare che “un corpo è fatto di un insieme di innesti” (:82).
Certamente nei quadri di Adami c’è depositato un vero immaginario, nel senso di un vocabolario di immagini. “Il quadro è una proposizone complessa e la sua forma […] si trasforma continuamente” (:12). L’autore ne parla nei termini di un gioco di fiche – come si dice un gioco di carte – ma il senso di questi elementi è esso stesso ambiguo. “Sono un raccoglitore di schede, ‘fiches’ (figere), che si può leggere con qualche licenza in un volgare italiano f., dunque un segno di maternità. Pronunciato in inglese è ‘pesce’, dunque segno astrologico, andare alla pesca, ecc. Nel gergo bancario americano vuol dire ‘ricerca’. La fiche è anche il segnapunti del gioco” (:67).
Le frequenti citazioni che troviamo sulle tele o sulle carte di Valerio Adami non sono prime rispetto al testo, il quale si presenta come un montaggio nei procedimenti postmoderni. Sono definite invece come gli esiti particolari di un effetto d’insieme del quadro o del disegno. È l’insieme compositivo che assegna alle diverse parti scritte o dipinte il loro ruolo a livelli diversi di astrazione. Alcuni oggetti sono immediatamente riconoscibili (corpi, mani, cappelli, ventilatori, animali – cani, gatti, cavalli, uccelli – occhiali, forbici e biciclette, aerei e barche, finestre, colonne, ponti, laghi, astri diurni e notturni, e così via), altri sono elementi astratti, meglio non nominabili, effetti di senso nel gioco della linea e dei colori. Anche le figure antropomorfe, i nudi ad esempio si possono leggere simultaneamente come unità e come “composti”. Un illusionismo ottico, come quello dei cubi di Necker che si rovesciano incessantemente in profondità.
Tra queste figure mi colpisce molto la statuaria di Adami. Una statua può essere un soggetto d’azione (il commendatore di Don Giovanni) e di passione (si piange sulle statue!) o un monumento, oggetto di memoria e di riflessione. Quelle di Adami sono commemorative e legate alla morte. La nettezza della linea, nella sua forza di contenimento, può fissare un contenuto in un sembiante irrevocabile. Se “la figura si visualizza nel conflitto” (:116), tra i poteri della linea c’è il memento mori (Giochi di strada, 1999).
In ogni caso, le immagini di Adami sono in continua commutazione e reciproco rinvio: immagini incrociate come diciamo “parole incrociate”. Non hanno un valore intrinseco, lo prendono dagli accostamenti con altre immagini, così come una figura prende colore dal riverbero d’un’altra. Non bisogna cadere nella trappola ontologica, come i critici che assegnano dei significati fissi alla ricorrenza di un motivo: l’uomo col turbante è il desiderio, la falce è la morte, il nudo la sensualità… L’autore si diverte a sviarci: il cane è la nostalgia oppure la fedeltà… “C’è una pittura schiava dei contenuti e dei contenuti schiavi della pittura” (:33). Ma non è questo il caso di Valerio Adami.
È necessario far la parte di gioco e di ironia che sta dietro alla serietà del proposito: ad esempio, quando Valerio Adami gioca con le iniziali di Vittorio Alfieri: “Disegno, fortissimamente disegno”! per far coincidere idea e ironia. Ma soprattutto scrutare più a fondo il montaggio delle attrazioni visuali e concettuali nella sua opera, che devono qualcosa a F. Bacon. La strategia del figurare (per lui, il pittore di getto non ha opinioni): “Disegnare un corpo che ‘pianta’ è un concetto, disegnare un collo che ‘gira’ è un concetto” (:43). Siamo avvertiti: “al di là del dimostrare le apparenze il disegno (speculativo) consiste in una certa raffigurazione logica che viene combinando i segni, le forme, gli alfabeti che stanno nascosti nell’esperienza e nel segreto di chi li disegna” (:96). E ancora, questa proposizione che sarebbe piaciuta al Calvino del Castello dei destini incrociati: “Il disegno appare come un mazzo di carte appena mischiate che ritroverà il suo ordine nelle regole del gioco” (:128).

2.

Chiediamoci dunque di che natura sono le relazioni testuali che ordiscono il quadro. Prima facie, è un regime prosastico. “Vorrei poter usare i termini poesia & prosa e definire il mio lavoro come pittura in prosa” (:15). Ma Adami subito si ravvede, in tutti i sensi del termine: “Dipingo in prosa, ma qualche rima scappa via” (:86). Poi semina gli indizi: anagrammi, ponti tra i disegni e le rime, fin alla metrica “segni di una logica diversa dalle leggi del vedere comune si fanno rime di strofe complesse” (:81). Allora: poesia o prosa? Guardiamo più da vicino: oltre l’ordito la trama (chi vuol lavor gentile, ordisca grosso e trami sottile, dice il proverbio).
Non nego l’impulso narrativo, che si fa più forte nell’ultimo periodo della sua produzione. Anche se non mancano le indicazioni politiche e storiche (Anniversario, 1991; Paix au Moyen Orient, 1991) e i temi dell’intimità erotica e sentimentale, i quadri più recenti si potrebbero dividere secondo le diverse fasi del Viaggio. I momenti di territorializzazione e deterritorializzazione: le partenze, i percorsi e i ritorni, ma anche i soggiorni domestici – la casa di Meina e l’amato lago – sono abitati dalla tensione dell’andirivieni. Perché non raggrupparli allora secondo le mete esotiche preferite, l’India soprattutto, il Messico, il Medio Oriente? Però questo è solo il piano immediato del racconto che, per la sua stessa forma, rinvia – per metafora, allegoria o parabola – ad un altrove non geografico, ma affettivo e mentale. Adami ha messo sull’avviso i critici rispondendo al filosofo e comune amico J. F. Lyotard, “vede nel quadro Il Posto l’interno di un treno, ma è come se dicessi che il primo atto della Traviata rappresenta l’interno di una casa” (:18). Il senso è altrove, è l’Altrove. I Figuranti del dipinto vivono, direbbe Benjamin, in stato d’allegoria. E “la rappresentazione retorica farà da guida a tutto il percorso della forma e del colore” (:98). La retorica è solo l’avvio: è molto, ma non è tutto.
Un esempio per tutti – le teorie girano intorno a pochi esempi: Et in Arcadia Ego. Qui l’esperienza privata della perdita di un bagaglio nel corso d’un viaggio esotico diventa una profonda riflessione testuale sulla morte e sulla pittura (Poussin). Ma la narrazione si realizza in via anagrammatica sul piano delle immagini e della scrittura. A livello figurativo il carrello dei bagagli è commutabile con l’Arca scoperta dai pastori d’Arcadia (gli inservienti indiani?). Sul piano linguistico l’India è iscritta come un anagramma nella citazione pittorica classica: Et (IN) arca (DIA) ego. Ma l’aneddoto (“ancora in India”) cambia segno e valore con l’iscrizione del simbolo arcano e mortale dell’ARCA, che trasforma il viaggio in parabola. Nello stesso tempo è esplicito il rinvio al motivo della storia della pittura: i pastori d’Arcadia, che scoprono in terra d’Utopia la morte onnipresente1. Ricorderemo che uno dei pastori mostra, agli altri personaggi della storia e a noi osservatori, la lettera R (iniziale del cardinal Rospigliosi, committente dell’opera) e che l’ombra del braccio traccia sul sepolcro la sagoma di una falce. Così come nel quadro di Adami, il carrello-arca dei bagagli smarriti inalbera una falce, autonoma nella forma e nel colore.
Certo le ‘figure’ – cosi si chiamano i tropi retorici della paranomasi e dell’anagramma – costellano dei loro enigmi la pittura di Adami (“Rebus: nel mio ritratto di Freud l’amo sta per l’amore”, :102).
E ne rendono i procedimenti – condensazioni e spostamenti – simili a quelli del sognare, meglio, del trasognare. Seguiamo lo sguardo del pittore: “Anagrammi è forse il mio quadro migliore” (:78).

3.

Quindi: se l’impulso è narrativo, il procedimento testuale è poetico.
Le forme nascono dal racconto, ma per disporsi prosodicamente. Per esplicita ammissione di Adami: “Dipingo in prosa, ma qualche rima scappa via” (:86); “Trovare forme adatte al discorso poetico, ecc.” (:92); “le figure sono versi dalle rime baciate e il colore compone dolci assonanze” (:107). Il funzionamento poetico si riscontra ad un livello più profondo di quello figurativo, intriso questo di citazioni, ironie, antifrasi (un quadro d’amore può essere attraversato dalla morte e viceversa). La poeticità non risiede nel livello figurativo, ma in quello Figurale. Un esempio: per Valerio Adami il motivo frequente la Falce è segno o appannaggio della Morte, ma può essere solo (o insieme) un numero 7 (si veda Un amour, 1990). Ciò che conta è il “formante figurale” non la rappresentazione figurativa.
Generalizziamo questa strategia visuale. In poesia il piano lessicale è il risultato compositivo di tratti sonori o grafici soggiacenti, fonemi e grafemi che si organizzano in reciproci rinvii, liberando la lettura dalla linearità del linguaggio naturale. I principi della rima, assonanza o allitterazione sono all’opera in ogni testo che presenti questa funzione poetica di parallelismo grafico e sonoro. Parallelismo diretto e rovesciato – come in /Roma/ ed /amor/ – e che si riscontrano nella spazio del testo. Così nella pittura in generale e in quella di Valerio Adami in particolare, i formanti figurali rimano, per simmetria o antifrasi. Una stessa configurazione (formante) è soggiacente agli occhiali e ai ponti, alle cornette dei telefoni, alle ruote delle macchine e delle biciclette, ai fari delle macchine. Lo scalmo della barca rima con la falce della luna, il sole e i cappelli appesi (Tramonto, regard en arrière, 1990; e Un amour). Operano all’interno dello stesso quadro o tra quadri diversi. Il formante circolare del sole si oppone a quello cruciforme (la croce rossa dell’ambulanza) nella Pentesilea (1994); mentre la circolarità del sole, sempre nella Pentesilea, si oppone al formante cruciato del ventilatore ne Lo Zufolo (1995). Sul piano figurale troveremo la stella sul cappello americano di Paix au Moyen Orient e sul viso di Anniversaire, nel primo associato ad una falce la quale rima – rovesciandola – con la luna di The Great Moghul (1994). Ma le due stelle, parallele nel formante, si oppongono sul piano cromatico (giallo e rosso), così come i due formanti a falce (giallo e bianco). E il sole e la stella insieme (quest’ultima sempre su un viso) in Il guado (1997).
Queste sommarie indicazioni sono un invito a scrutare nei testi di Adami la ricchezza e la regolarità – classica dunque – di una prosodia fatta di rime interne e di rime incrociate. Le serie dipinte nei quadri di Adami sono tenute insieme da una Poeticità Figurale che incrocia i parallelismi e le inversioni delle forme e delle tinte, con sorprendente fecondità. Mi spiego così l’interesse di Adami per Blake, poeta e pittore. Ma soprattutto così interpreto alcune delle sue proposizioni e proposte: “il colore, fonema del disegno” (:27); “disegnare anche il colore” (:25); ecc., le quali danno ben altro senso alla vulgata di un Adami disegnatore, che attribuirebbe al colore una valenza sussidiaria. Al contrario mi sembra che il colore sia per lui un genere di prima necessità. Se sta alla linea, nella tradizione mediterranea, creare il volume della storia, il colore aggetta invece, verso lo spettatore, come nella pittura fiamminga.
Più difficile invece è mostrare, meglio rispecificare il ritmo che ogni quadro dà alla molteplicità delle rime figurali, e che ne fa la singolarità. C’è però nell’opera di Adami un’indicazione tematica che lo accomuna ad un pittore musicista come P. Klee, letto con tanta profondità da P. Boulez: la rappresentazione musicale. Sono i violini (nell’Arte del Violino, 1993/4, riconoscete AV, le iniziali del pittore, come in Au Vestiaire, 1998?); i violoncelli (gli archetti sono pennelli?); i flauti (sono là forse per dare alle figure la voce?).
In ogni caso è il ritmo che dà al lessico delle immagini la sua sintassi.

4.

I rapporti che tessono queste opere ce le fanno guardare poeticamente (le palpebre non sono forse le rime degli occhi?). E danno loro un senso a venire, una promessa di significazione. Adami non si limita a pronunciarsi contro l’insignificanza e a prendere partito per un segno capace di raffigurazione e di sembianze. La strategia poetica dà ai suoi dipinti densità e polifonia; più ancora, li fa suscettibili di nuove attribuzioni di senso, cioè di significato e di orientamento. Ad esempio, se l’archetto è (anche) il pennello, allora che dire del bastone di Odisseo nel recentissimo Odisseo e Calipso? La falce della morte, portata come una bandiera e cambiando di colore – dal giallo al verde -, può diventare uno stendardo di felicità, Un amore. Il dispositivo dei formanti consente una attribuzione regolata di senso. Non tutto si può dire: il testo ha la sua positività. Ma rintracciando per ogni dove testuale (spaziale, figurale, cromatico) rapporti e relazioni, siamo portati a trovarne dove forse il pittore non li aveva esplicitamente intesi. Non è un eccesso interpretativo, quanto un modo di muoversi secondo le fibre o le vene di un testo, la cui combinatoria non cessa d’offrire nuove opportunità di combinazione. È quindi legittimo leggervi, secondo questa modalità poetica, quel che un quadro siffatto iscrive come memoria futura. Nel nostro tempo ossessionato dalla costruzione informatica di stock di memorie trascorse (archivi, indici, cataloghi, regesti, ecc.), per il semiologo J. Lotman la poesia è un dispositivo che mobilita ricordi a venire. Stendhal, che Adami ha raffigurato, diceva che l’arte è promessa di felicità.
Per noi, la poeticità è un augurio di senso e la pittura di Adami un’arte augurale. “Un disegnare” – dice – “profetico” (:121), in cui il futuro si legge nelle viscere non informi del testo. Anche l’augure tracciava con il suo strumento delle figure nello spazio del cielo. E cercare il futuro non è un frugare nelle possibilità, ma cercare la determinazione d’un destino.

5.

Una lettura poetica e augurale non ci distoglie dalla ratio costruttiva classica dei dipinti di Adami. C’è tutta una dispositio sapiente di piani che chiameremmo meta-pittorici, segni di segni che attirano subito la nostra attenzione. Alcuni sono familiari alla maniera del pittore, altri mostrano una inflessione più “teatrale” che caratterizza la sua attività più recente.
Al di là dell’espressione soggettiva, una nuova esigenza artistica di reciprocità.
Nei quadri sono inseriti – il semiologo direbbe infissi – molti spazi “inquadrati”: finestre di case o finestrini di treni, porte, quadri, spartiti, etichette, mappe, specchi e specchi d’acqua. Portatori d’immagini di secondo grado, che hanno con la totalità del quadro rapporti complessi di memoria o di revêrie o di citazione che agiscono in contrappunto o a commento della “situazione” rappresentata. Immagini nell’immagine, come Lo Zufolo (1995); Per un anniversario (1996); L’ora del sonno del fanciullo (1993); 1919-1938 (1990); Alla fonda (1999-2000); Vittorio Alfieri; L’arte del violino; Au vestiaire; Home sweet home (2000); Pifferata (1990); La terre natale (1994).
L’atto di “vedere il vedere” si va facendo sempre più importante in Adami, grazie alla raffigurazione di una vera a propria attrezzeria teatrale. A volte riconosciamo impalcature e scene teatrali viste dall’esterno (Canto della strada, 1995; Aenea and Anchise) o dall’interno (New York, city Ballet), altre volte sono parterre di ribalta, e/o luci di scena (Odisseo e Calipso; Voyage pittoresque; Per un anniversario; Vittorio Alfieri; New York City Ballet, 1993-4; Anniversaire). Questi elementi tuttavia non hanno significati univoci: i formanti paralleli che leggiamo come legni delle ribalte possono diventare gradini di scale mobili (Al Cairo, 2000), rotaie di treno (Dal finestrino del treno, 1999), sollevarsi come veneziane di una finestra (We are proud of you, 1997) o piegarsi come il legno della barca nell’incantato (Lilliputian boat, 1990).
Il pittore predispone al suo osservatore un Belvedere.
C’è poi nella ricerca di Adami un’altra tattica dell’Enunciazione. Non la teatralità “interna”, quella rappresentata e nel quadro, come accade in Aeneas e Anchise, ma quella “esterna” che viene creata dal quadro, dalla sua maniera di situare e coinvolgere lo spettatore, “che si trova implicato in qualcosa che sta ancora succedendo…” (:20).
Additiamo alcuni tra gli stratagemmi diversi e sottili. Lo spettatore-pastore di Aeneas and Anchise, iscritto nel quadro, ci propone di prendere – come suggeriva L. B. Alberti – la sua stessa postura osservativa attraverso il malizioso invito del suo cane. Il gioco costante delle frontalità (l’Io-Tu del quadro) e dei profili (la sua Terza Persona) come in Trio (1994), Beau monde davanti alla TV (1900), Pentesilea. Ci sono occhi dovunque, meglio il loro Formante: anche i bottoni o i fari di un’auto ci prendono di mira. E le molte figure che ci voltano le spalle lo fanno per invitarci a guardare, come in 1919-1938; New York, city Ballet; La nuvola (1900-91); Al Cairo: e alla loro combinazione (Pifferata; Au vestiaire; ecc.).
Ci sono dispositivi più sottili che lasciamo al piacere della scoperta: per esempio, l’uso del colore che, integrando una sola tra le diverse figure del dipinto, guida la vista verso il sole giallo di Pentesilea o il cane screziato di Aeneas e Anchise, alla falce bianca di Anniversaire e così via.
La traccia più precisa del Soggetto dell’Enunciazione sta nel modo di trattare le mani e la loro calcolata gestualità: “disegno la mano con il medio e l’anulare appaiati” (:52). Si veda New York, city Ballet; Pifferata; Il muro del pianto; Giochi di strada (1999); Per un anniversario e così via. Qui Adami rappresenta il gesto della figura e il fare del pittore che l’ha tracciata. Un pittore non disegna impunemente il pennello o altro per esso, come Progress and Poverty, Il trio e via dipingendo, fino al gioco etimologico e sensuale di Un amour (guardate il vocabolario: il pene è il pennello).
Consideriamo attentamente questi dipinti perché, come diceva Klee “…i quadri figurativi ci considerano”.

Ancora

Torniamo all’icona del Dissegno da cui siamo partiti.
Non ho mai visto disegnare Valerio: so che non riesce a farlo se qualcuno lo guarda. Spero che vorrà egualmente riconoscersi, per un contratto di intelligibilità e di affetto, in questo ritratto che ho tracciato usando come lente la pagliuzza semiotica che ho nell’occhio. E soprattutto nel compito assegnato ai due strumenti che il Dissegno di Cesare Ripa tiene (o che lo tengono): il Compasso per misurare le cose, lo Specchio per guardare se stessi. Uno per calcolare la propria espressione interiore, l’altro per speculare sul mondo.
Aggiungeremo, su indicazione di Valerio Adami, il “lapis”, pietra degli alchimisti, operatore filosofale di tutte le metamorfosi.


Nota

  1. Un Tema che fa parte del lessico dei motivi della pittura classica, studiato in particolare da E. Gombrich e dal comune amico L. Marin, presente alla conferenza al Centro “G. Pompidou” (Beaubourg), che è all’origine di questi Accostamenti. torna al rimando a questa nota

Bibliografia

Valerio Adami, Sinopie, SE, Milano, 2000. A questo libro si riferiscono le citazioni numerate.

AA.VV., Valerio Adami, couleurs et mots, (entretiens avec R. Lesgendre, V. Morel, J. Derrida, D. Arasse, P. Fabbri), Le Cherche Midi Ed., Paris, 2000.

Paolo Fabbri, “Lettera a Valerio Adami, il più stendhaliano dei ritrattisti di Rossini”, Catalogo della mostra Il volto estatico, a cura di F. Mancini, Galleria Franca Mancini, Rossini Opera Festival, Pesaro 2000.

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