Cose d’Alessi: la felicità e la cura


Da: (con G. Careri), AA.VV., Le fabbriche del design italiano. Alessi: une dynastie d’objets, Carte Segrete, Roma, 1994.


 

Questionnez votres petites cuillères (G. Perec)

1. L’altra scena

Cominceremo con una prolessi. La retorica chiama così quella figura che anticipa un’obbiezione a venire. Perché l’IIC consacra una serie di manifestazioni alle Fabbriche italiane del Design? Perché esporre all’Hôtel de Galliffet gli oggetti di Alessi che possiamo vedere nello show room di Parigi se non acquistarli in un grande magazzino, ormai aperti senza interruzione?

Per diverse ragioni e passioni – questi oggetti mi piacciono – ma soprattutto per eseguire un esperimento di pensiero. Lungi dai punti di vendita, da negozi che somigliano sempre di più a duty free d’aeroporto, da supermercati che sono i centri vuoti di agglomerati informi, si restituisce ad un bene un teatro; lo si sottrae, temporaneamente, al valore di mercato, alla sue funzioni, per renderlo alla sua “qualità” di forma e di finzione. Lo spiegamento degli oggetti offerti insieme allo sguardo permette, nel gioco delle differenze e delle analogie di uscire da un punto di vista. Senza creare feticci – il feticcio è quasi sempre impacchettato – un paradigma si svolge non di originali – è il peccato appunto della produzione in serie – ma di prototipi variati e trasformati in vista della loro riproducibilità. Ne emana uno stile percepibile e il ventaglio delle varianti – fatte di differenze che si somigliano – ricompone un similoriginale, un piccolo mito d’origine.
Liberati da ogni imperativo anche da quello già saturo e inerziale della pubblicità, dalla sua stupefatta euforia, gli oggetti domestici di Alessi, riposti nei luoghi dove sfilarono i vasellami di Talleyrand e del fondatore dell’alta cucina francese, A. Carême, offrono l’opportunità di comprendere l’estetizzazione attuale delle cose e dei modi in Italia, la sua cultura della produzione e del consumo. Le caratteristiche generali del design italiano – un singolare composto di futurismo e di tradizione industriale (v. Branzi) – avviano così una riflessione che, a partire dalla suppellettile, arriva alla casa (che si “dà” non si fa, come direbbe E. Sottsass) e di qui alla più complessa ecologia delle cose.
Non sembri pretestuoso questo suggerimento a partire da oggetti che Dumézil chiamerebbe di Terza Funzione, di riproduzone e di fecondità, diversi da quelli di Prima e di Seconda, cioè di potere e di guerra. Nella società della comunicazione e del consumo, sono essenziali, oltre alle armi e agli strumenti di scienza e tecnica i piccoli cerimoniali pragmatici (pragma in greco significava affare ma anche cosa). Ora, gli oggetti qui esposti, come le tazze mostrate nelle cerimonie giapponesi del te, alludono, quando non lo presuppongono, al cambiamento minuzione dei nostri programmi gestuali, ad una improprietà inavvertita delle circostanze. Nel bene e nel male, agiscono sulla sintassi delle maniere, mediatrice tra le regole del sociale e quelle del linguaggio. (Ci sono utensili che ci difendono oggi dall’inquinamento del mondo, mentre erano usati un tempo per difendere il mondo dalla nostra impurità).
Questi esseri d’arguzia e d’ingegno ci sollecitano a cogliere quanto di arbitrario sociale e di pretesa funzionale si è incorporato nella loro esatta evidenza. “La riappropriazione del linguaggio dei consumi e non l’atteggiameno del fattucchiere che tira fuori le meraviglie dal suo cappello misterioso”, ha scritto felicemente Alessi.
È il programma di G. Perec e di J. Baudrillard: se il vero esotismo sta nell’obbiezione radicale che le cose pongono al soggetto, allora dobbiamo frugare nelle nostre tasche e nei nostri assetti di cucina. L’esotico è l’endotico.

2. Il catalogo è questo

La mostra è una archeologia orizzontale. I suoi “pezzi” sono una piccola dinastia con le loro somiglianze di famiglia e vere strutture di parentela (filiazioni, clan, ecc.). Gli autori sono i loro blasoni, le loro “armi parlanti”. Fanno parte, eminente di quella nebulosa che è la piccola e media industria italiana di design; la quale evolve in territori ricchi di laboratori di ricerca. “Essa affonda, come Cassina, Zanotto, Kartell e B&B, le proprie radici produttive in zone geografiche particolari in cui si è propagata la creazione di imprese intorno a nuove tecnologie, riviste e corrette dall’artigianato, zone che permettono di ricorrere a numerose forme di produzione con grande elasticità di organizzazione” (Branzi). Queste imprese, fanno parte di un sistema che Branzi definisce “postindustriali” con “una cultura industriale non egemonica, che si presta ad uno scambio intenso con culture laiche, civili e creatrici; il possesso di una fabbrica e di macchinari non basta a definire il ruolo dell’imprenditore. L’impresa diventa un’energia che irradia nella società intera”.
Il Catalogo Alessi, tra cui sono scelti è un organismo vivente non una traversata d’autogrill, un cimitero di desideri morti. Non un repertorio ma un oggettuario, come si direbbe, un dizionario, in cui i termini sono reversibilmente entrate (riassumono tutti i sensi in cui sono stati impiegati) e uscite (aprono su nuove possibilità d’uso e d’usura). Gli oggetti esposti sono, in questa accezione, virtuali: sinonimi o antonimi, analoghi o contrapposti ad altri già prodotti, o giacimenti di possibilità che continuano a irradiare una loro luce fossile; termini o spunti di ricerca, opere chiuse o aperte, ricche di ipotesi circostanziali, d’inferenze osé, di incontri più o meno fortunati. E non è di poco conto, perché si tratta degli utensili in cui il formato è più strettamente dettato da una tradizone che è quasi un canone. Ogni variante è l’approfondimento d’un senso: cambiare una impugnatura è riprogrammare una mano, impoverire la decorazione di un becco di versamento è offendere il destinatario. Questa tradizione, già in mani artigiane, Alessi ha voluto integrarla, nella serializzazione, al design italiano più colto, non ispirata al razionalismo fondazionale della Bauhaus e alle sue propaggini nordiche, ma piuttosto ai modi dell’Arts & Crafts e della Wiener Werkstatten, fino alla più recente esperienza francese (in particolare con il progetto Orione). Il designer e l’imprenditore si sono trovati in condizioni di reciprocità nel realizzare la formula di Alberto Alessi: SMI, Sensorialità, memoria, immaginario. Il “prodotto” o l’esito creativo è “poetico” più che didascalico.
Non c’è nulla di più soggettivo delle tipologie. Diciamo che il dizionario Alessi si lascia ripartire in un momento assai puro di serializzazione, il momento metallurgico, prima di passare a quello semiurgico, dove il valore di uso è uno solo variabile dei valori di comunicazione. Infine un’ultima fase, ludica e animista caratterizzata da nuove forme, diversi cromatismi e nuovi materiali; da un diverso rapporto alla durata e alla percezione.
La mia preferenza – e con questo intendo il mio interesse per la ricchezza in individui “preziosi”, in nuovi capostipiti – va al periodo intermedio, tra il secondo e il terzo momento.
Periodo ricco in oggetti anfibi, ancipiti e bifidi nella forma e nella collocazione circostanziale, come la teiera con due becchi e altri soprammobili da fornello dotati di dettagli identificanti, come l’allegro fischietto a tre toni; le oliere di Castiglioni con il coperchio a bilanciamento che si apre e chiude secondo l’inclinazione dell’ampolla ecc. Momento di raro equilibrio tra la funzione e il desiderio, in cui l’oggetto non ha ancora assorbito il soggetto nella sua realtà funzionale e alla alienazione del soggetto non si è ancora sostituito l’animismo simulato delle cose (spiritelli e altri teriomorfismi).
Mi piace e suggerisco d’osservare alcuni tratti peraltro ovvi. L’alta “riflettenza” della luce che giunge, a fini comunicativi, fino a negare la consistenza dell’oggetto (il brunito per contro assorbe la luce per valorizzare al massimo la densità di presenza dell’oggetto in sé).
La microarchitettonica dei “pezzi”, con le caratteristiche conseguenze di individualizzazione e della miniaturizzazione (ma Bachelard diceva che la miniatura è un aspetto dell’immensità intima e l’architettonico più che nella forma del singolo elemento è percepibile in alcuni servizi da caffé che paiono città a volo d’uccello).
L’uso dei dettagli, eidetici, morfologici, cromatici con funzione ironica, cioè di menzione d’altre cose (il vassoio Girotondo, gli orologi – passatempi che non servono a dominare le durate ma a citare altre arti).
Gli spremiagrumi Juicy Salif o la formaggiera Meu-Meu avviano invece verso l’ultimo episodio della produzone Alessi, quello ludico animista. Una Disneyland, non decorativa né regressiva, tutta cuccioli e spiritelli e mostricci e arborescenze che ammicca al giocattolo e alla favola. Questi S/Oggetti che si vogliono transizionali e paradossali, sulla scorta “analitica” di Winnicot e di Fornari, sono minuscoli ideogrammi giocosi che osano diverse forme (il turgido e l’inclinato piuttosto che l’asciutto e diritto); diverse sostanze (le plastiche, meno consolidate che non l’acciaio modernista); diversi colori e diversi sensi (più tattili ed intimi) e forse una speranza di vita più breve (più sottoposta all’usura dell’immagine). Ma come gli oggetti che li precedono sono poco sensibili alla storia – non s’ammaccano e non si graffiano – e dalla parte della mitologia.

3.1. Regimi di segni

Quel che dovremmo scrivere è una patafisica degli oggetti: una scienza delle soluzioni tecniche immaginarie (Baudrillard)

È scorsa molt’acqua (quella d’Eraclito) e sono caduti alcuni muri a partire dai saggi abrasivi degli anni Settanta circa le pretese del Design. Si è spento il dibattito sulle funzioni (che non sono mai acquisite, ma scoperte) e sul carattere culturale – locale e ad hoc – della razionalizzazione. Gli stessi fatti sociali, che Durkheim voleva trattare come cose, li pensiamo come “oggetti”, continuamente prodotti da “attività concertate della vita quotidiana dei membri [della comunità] i quali utilizzano, dandole come note e scontate, procedure ordinarie e ingegnose per tale realizzazione” (H. Garfinkel).
L’oggetto del design industriale è assegnato ora all’esercizio regolato delle sue funzioni; è un segno del quotidiano con un significante in continua eccedenza rispetto ai suoi significati. Le stesse abitudini d’uso si sono rivelate diverse dall’idea behaviorista del condizionamento. E stimiamo la consuetudine è come una totalizzazione aperta, fatta di discontinuità e fratture.
Il kitsch commerciale e la tradizione artistica d’avanguardia (l’oggetto surrealista) sono state assunte, in dosi omeopatiche nella grafica dei designer italiani, già intrisa dell’idea futurista “delle tecniche come fattore di scandalo e del progresso come gestione dell’incertezza” (Branzi). È indubbio merito dell’industria italiana di aver articolato questo design alla sua strategia d’impresa, contro ogni mecenatismo o missione culturale.
La casa Alessi si distingue però in alcuni punti dagli orientamenti e dagli esiti di altre Fabbriche del Design. Pur senza astenersene produce pochi gadget (ma il gadget è un effetto d’insieme) e conta poco su quelle “mattane” (fades, crazes) che operano sui consumi con un effetto virale, epidemiologico. Fida di più sul montaggio delle attrazioni delle sue procedure di lavorazione (cento operazioni a freddo su di un disco metallico per produrre una caffettiera). Resta leale ad alcuni materiali come l’acciaio, la plastica, il legno (ma anche ottone e nichel, porcellana ed alpaca, bakelite, ecc.) e si attiene, per quanto riguarda le durate, ad oggetti non immediati ma a serie variata (Manzini). Riesce dunque a stabilizzare una tradizione riconoscibile e un segno autenticabile. Alessi ha inoltre, meno di altri, l’assillo di quella specie innaturale e inumana che sono i residui industriali. (Anzi non gli spiacerebbe, in quest’epoca che non genera vestigia e rovine ma scarti e resti, recuperare le rimanenze del patrimono d’oggetti Alessi che si trovano nelle case degli italiani!) Gli riesce quindi più agevole porre la questione, attuale e cocente, della ecologia delle cose.

3.2. Oggetti enunciati

Resta pertinente, per il presente e ancor più per il futuro, la possibilità di trattare materiali suscettibili di realizzare (quasi) ogni segno. Le idee infatti sono libere di tradursi in segni dato che abbiamo i mezzi per disegnare una materia malleabile fino alle fibre più intime. Il design, già “cosa mentale”, è un detto-fatto. Le limitazioni, già affidate alle strettoie della sostanza d’espressione, dipendono ormai dai sistemi e dai processi di contenuto. Una questione squisitamente semiologica.
Ci piacebbe allora, ma non è il luogo, interrogarci sullo status semiotico degli oggetti esposti. Con fugaci accenni.
In primo luogo va notato che è il linguaggio a trasmutare l’elementale (acqua, aria, terra e fuoco) in cose, disordinate e cangianti, poi in oggetti, presi nel processo discorsivo. Perché le cose perdano la loro plasticità e acquistino stabilità, tempo e luogo è necessario un soggetto parlante. Passando dal pre-logico al costruito, il soggetto che asserisce fa sì che l’oggetto reale divenga una grandezza integrata al mondo. La parola non s’oppone affatto alle cose, anzi “s’avvia verso quel che dice, va al di là di se stessa e si situa in un movimento intenziale di riferimento” (Merleau Ponty). Come nel poetico esempio di Aldo Rossi che definisce la sua “conica” con la denominazione: “Laconica”.
Sarà appassionante studiare questi tipi di intenzionalità, dal punto di vista delle loro articolazioni oggettuali e dividerli in composti, configurazioni, architetture, agglomerati secondo le loro relazioni tra parti e tra parti e tutto (scopriremmo forse degli stili individuali, cioè le deformazioni coerenti di una tradizione)
Ci piacerebbe passare poi dalle tassonomie di oggetti, ai prototipi, ai campioni e così via. Descrivere le loro diverse competenze (“cosa” viene da causa); le loro modalità: sapere, volere, potere e dovere; le loro tattiche di provocazione e seduzione.
Anche più interessante sarebbe descrivere la relazione reversibile tra Soggetti ed Oggetti, fin dalla minima propensione dell’uno a suscitare la protensione dell’altro (le cose che ci attirano e ci comprano!). Se la cosa si fa Oggetto solo nella relazione con un Soggetto, i tipi di relazioni (stime di forma, valutazioni di forza) definiscono diversi tipi d’Oggetti e di Soggetti ed il rispettivo valore. Ci sarebbe ad es. un design che iscrive nelle cose stesse delle relazioni diverse tra soggetti: un design lirico (caratterizzato dall’espressione dell'”io”) uno drammatico (volto alla correlazione di soggettività tra interlocutori: “l’io e un tu”) e uno epico (che mira alla impersonalità, cioè alla “terza persona “). E un design di ibridi fecondi, con congegni animati e gesti meccanizzati. Se le prime produzioni Alessi erano più epiche, le ultime tendono più verso il lirico e il drammatico!? Oppure: ogni approfondimento simbolico degli oggetti dipende e trasforma le grammatiche sociali in cui è iscritto (è possibile allora bere nelle caffettiere Alessi il caffé di Eduardo De Filippo?). E così via.
Ci sarà da meravigliarsi allora se la letteratura minimalista contemporanea, come e diversamente dall’Ecole du Regard degli anni ’60, incentri la sua attenzione sugli oggetti? E che, servendosi di infinite cose, G. Perec abbia scritto un'”autobiografia indiretta e plurale”?

4. L’attrattore strano

Si/
ma sapete voi cos’ha visto il macinino turco di rame, il macinino da caffé di Sarajevo/
(G. Kolmar)

Nell’epoca che chiamano “pseudolitica”, quella della virtualità e del silicio, l’immaterialità è all’ordine del giorno. Eppure l’uomo non è mai stato preso in un tale ingorgo di oggetti (un ipermercato può contenere fino a 200.000 ipermercanzie). Si tratta in apparenza di oggetti sfocati e ambivalenti, res nullius prive di relazioni definitive al valore. Non più protesi né antitesi singolari (oggetto è etimologicamente quel che aggetta contro di noi), ma un sistema autonomo che è diventanto il nostro interlocutore.
È però sintomatico che la fobia e la filia delle cose ritornino a livello immaginario. Basti pensare alla minaccia degli oggetti domestici nei film americani dell’orrore. La casa, apparato standard di suppellettili, destinata ad assicurare la stabilità emotiva, diventa fonte di angoscia. Ogni cucina una minaccia.
Nell’immaginario, l’oggetto scarico della serialità si riattiva; diventa nello stesso tempo un antioggetto e un oggetto perfetto (chi avrebbe immaginato l’uso degli accendini nei concerti rock?). Non può meravigliare se la malignità delle cose, la loro oggettiva ironia portino allora a pensare l’Oggetto come attrattore strano, non riflesso dell’uomo artefice, ma sfida contro di lui, orizzonte della sua sparizione. Dall’alienazione, o come si diceva dalla reificazione, non si uscirebbe con la riappropriazione di sé, ma con un passaggio al margine d’una eccentricità assoluta. Guardando altrove, verso l’artefatto e verso l’artificio. Allora l’Oggetto, l’altroché, riassume ogni figura di alterità, è l’Esotico (Baudrillard).

5.1. Trans-estetica

stupito di che? delle cose (Gozzano)

Torniamo al silenzio della nostra mostra, cioè fuori (e dentro) al meccanismo della produzione e del mercato. In uno spazio semioticamente meno inquinato, prendiamo le distanze dall’obesità degli oggetti e dal nostro rigetto. Possiamo leggere l’intero percorso come una vanitas, pittura di genere in cui nulla era così ben dipinto quanto l’oggetto destinato a morire.
L’inserimento nelle architetture dipinte dell’Hôtel de Gâlliffet permette, abbiamo detto, una lettura disinteressata, cioè estetica; attenta a quei tratti degli oggetti, più fini o più generali che Eco chiama di ipo- e di iper-codifica. E pone immediatamente, impone il quesito della relazione con l’Arte. Non con la produzone, che si vuole esplicitamente d’arti applicate, ma con la ricezione, con la presa artistica. Se a livello della creazione si può seguire la linea di cresta che trasforma il rapporto tra artigianato e opera d’arte (l’oggetto si fa sempre più bello!), il giudizio estetico che porta sull’oggetto può ancora decidere del Bello e del Brutto? Esaurita l’enorme pretesa del Metadesign di comprimere nell’oggetto bellezza e funzione, questo si fa sempre più transestetico, si colloca al di là del Bello e del Brutto. C’è chi dice: “un ludico sinistro”(Borsari).
Nel frattempo è l’arte che tende a smaterializzarsi. L’opera da oggetto diventa processo; l’autore da personalità riconoscibile passa a proposta inusuale d’interazione; il fruitore non è più coautore d’una opera aperta ma soggetto capace di modificare struttura e senso dell’opera stessa. L’odierno programma neotecnologico ad es. – come già i manifesti delle avanguardie – non è un insieme d’opere, ma una matrice che anticipa e sopravanza quello che l’arte che se ne ispira potrà, o no, generare.

5.2. Rinvio

Come si è visto e spero si vedrà, ogni mostra è una parabola: è metaforica (permette l’antifrasi e il parallelismo) ed esemplare (l’oggetto non solo possiede, ma esibisce le sue proprietà). È la condizione per far esistere ogni oggetto significante. Il segno è rinvio ed ha senso nella propria trasposizone in altro segno. Quale previsione, quale rinvio ad oggetti futuri ci permette la mostra. Come sarà la nuova generazione nella dinastia delle cose Alessi?
Finite le pretese del Metadesign – la ricerca razionale di un esperanto destinato a tradurre tutti i dialetti creativi – assistiamo oggi ad una nuova differenziazione. Attraversata l’esperienza ludico-animista, dopo quella puritana e funzionalista, si schiude una diversa problematica. Il crescente consumo di oggetti immateriali e l’inquinamento industriale pone di fronte a nuove responsabilità, chiede cioè nuove risposte. Le domande portano sull’uso dei materiali (alla richiesta di alleggerimento che ha caratterizzato gli ultimi anni seguirà una nuova richiesta di peso? si tornerà all’acciaio, di cui Alberto Alessi si dichiara figlio, o si insisterà sul legno e sulle plastiche?); sull’approfondimento estesico (cioè della percezione sensibile più ardua di manipolare che non quella concettuale ed ideologica); sulla misteriosa parola “qualità” (Carmagnola).
Il senso di resposabilità non deve farci dimenticare l’eterna verità di ogni edonismo: la promessa di essere un po’ più felici.
La felicità non è lo “star contento”, piacere soddisfatto che un oggetto definitivo saturerebbe. È un’animazione che incorpora una provocazione e una seduzone e si apre a nuovi desideri. Ma per non esser presi nel rinvio incessante da immagine a immagine, nel circuito delle svogliature che ci conduce al ludico sinistro e all’inquinamento semiotico si apre appunto la questione etica ed estetica.
Un principio di cura e di accuratezza verso gli altri attraverso le cose.


Bibliografia

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Luoghi della qualità. Estetica e tecnologia nel postindustriale, Domus Academy, Milano, 1991
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Controtendenze. Una nuova cultura del consumo, Domus Academy, Milano, 1990
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L’infraordinaire, Seuil, Paris, 1989
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