La Biennale perde il lume


Da: Alfabeta2, n. 12, agosto 2011.


1. Luminarie
La Biennale di Venezia, nelle intenzioni degli organizzatori, sarebbe un pellegrinaggio verso l’arte. A noi sembra piuttosto un circo lagunare dove clown e trapezisti eseguono gli stessi numeri, rovesciati nel valore. Ci sono acrobati che volteggiano intrepidamente in alto e buffoni raso terra che si scambiano lazzi e lepidezze (ogni qual allusione al padiglione (tras)curato da Sgarbi non è tale).
La successione dei numeri – 83 artisti invitati alla 54° edizione, l’incremento dei padiglioni e l’auspicabile successo di botteghino – rende il Circo Biennale un laboratorio fruttuoso per comprendere le forme di vita delle arti. Un luogo d’invenzione e di esperimento alla condizione di cambiare le tradizionali domande: “Come” e “Perché” e sostituirle con “Quanto” – l’implicazione economica” e “Quando” – l’esplicazione pragmatica. Il Quanto ha a che vedere con merci e mercati, calcolabili bolle finanziarie e beni rifugio; il Quando è più sfuggente e imprevedibile. Alla domanda intima e insistente del visitatore: “È Arte? È un’Artista?” le opere e le altre attività in scena replicano tongue in cheek: “artista dunque ero, artista quando sono”. Fuori da ogni residua ontologia e ontalgia, anche da quella negativa di J. Baudrillard per cui “L’art moderne est nul”.
Dunque che fare? Come distinguere i risultati artistici dagli effettacci speciali, i Gedankenexperimenten percettivi, affettivi e concettuali dai padiglioni beauty farm, dai centri benessere o malessere. (L’arte era promessa di felicità ora di trattamenti etici ed emotivi). Non bastano le attestazioni degli ottimati, curatori ed esperti in vivo contrasto tra loro e che si trattano reciprocamente da Pessimati (sic!)
Il visitatore, massaggiato alla partecipazione attiva, richiederebbe segni o per lo meno sintomi dell’Artistico. L’acquisto facoltativo di un greve catalogo, – da portare dopo la lunga visita- scritto quando le opere non sono state ancora realizzate e installate e votato alla coffee table, non risponde alla domanda. Anche il titolo generale della Mostra, uso invalso dagli anni 70 – quando la Biennale ha smesso di pubblicare una sua rivista analitica – non è proprio illuminante.
L’intitolato ILLUMinazioni è apparso e piaciuto alla curatrice Bice Curiger, alle prese con le vetrate di una chiesa, come all’abate Suger di Saint Demis di panofskiana memoria. L’abatone imprenditore però sapeva la differenza tra la “luce” soprannaturale e il “lume” profano: il lume, complice dell’ombra, era l’effetto della luce metafisica attraverso il diafano mondano. Per Suger, come per sanTommaso, l’ottica era una branca della teologia.
Bice Curiger non va tanto per il sottile: la luce è “uno strumento intellettuale – che è importante cogliere in ogni oggetto d’arte – con possibilità di percezioni intuitive” (v. Alfabiennale, n. 10. Giugno 2011). (Della parola Illuminismo – che in francese è lumière e in italiano lume – la fa ridere il “falso suffisso”!?) Per acclarare questo strumento – come provocazione agli artisti invitati ed edificazione del visitatore – la curatrice ha portato alla luce un manierista”trasgressivo” come l’ultimo Tintoretto, per la sua luminosità “razionale e febbrile”, anche se in ultima istanza “non razionale ma estatica”. Per Bice Curinger infatti “l’Ultima Cena, è l’immagine di un social gathering pieno di significati”.
Restano da capire le qualità estatiche che esemplifica l’installazione ricostruita di Gianni Colombo, Spazio Elastico, perché Pipilotti Rist abbia trasformato in video tre opere della scuola del Canaletto e soprattutto la qualità luministica del ventre della balena nel Padiglione Geppetto di Loris Gréaud. Chi visiterà vedrà.
N.B.: A lume di naso: andrebbe indagata la sindrome Paese dei Balocchi che coglie gli artisti francesi invitati alla Biennale veneziana. Nella 52° edizione, 2005, vinse il Leone d’Oro della miglior partecipazione nazionale Annette Messager con “Casino”: un variante di Pinocchio, come lato oscuro dell’uomo… Le Biennali però sono eventi effimeri e godono di diritto di amnesia: le edizioni sono distanti anni luce. Quanto a Gréaud, la taglia dell’opera, il cui interno piccolo borghese permette di installare visitatori dagli stessi gusti, non tollera confronti col mostro spiaggiato di Fellini nella Dolce Vita e la grande Mouna del veneziano Casanova, nel cui cupo ventre una lanterna magica proiettava disegni di Topor.

2. Inter(s)viste
Al visitatore l’ardua sentenza. Ai semiologi la constatazione dell’equivoco sul prefisso meta– che non è più un piano critico di consistenza, analitico e riflessivo, ma un sagra interattiva di linguaggi. In questa accezione la 54° Biennale è proprio meta-. Come ovviare allora alla difficoltà strutturale del genere Arte Contemporanea nel rendersi reperibile proprio in quanto irriconoscibile e in interpretabile? La provocazione deve eccedere le forme riconosciute sul piano espressivo e dei contenuti e la trasgressione deve essere situata – medium, cornice, luogo, tempo e partecipanti. In assenza di letture qualitative in grado di ricostruirne i codici di infrazione, ecco la scappatoia discorsiva: l’Intervista. In assenza di metalinguaggio correttamente inteso, meglio chiedere all’artista un significato fuori dalla portata del pubblico. Ammesso che risponda, bisogna fidarsi: della pertinenza delle domande e soprattutto del senso della risposta: che l’artista contemporaneo replichi a tono (Pistoletto) e non scherzi la domanda (Boetti); che sia davvero lui a rispondere (Cattelan); che non ridica la solita storia; che sia in grado di formulare un’intenzione implicita se non inconscia; che non abbia interesse ad aggirarla, ecc. Non è sempre il caso. Alle questioni rivolte da Bice Curiger agli artisti incaricati dei parapadiglioni, Roman Ondak, per es. ha così riposto: BC.: “Quante nazioni ci sono dentro di lei?” RO.:”Una”; BC.:”Dove si sente a casa?” RO.: “Sulla terra”. Lucido o illuminante?
Le scienze dell’uomo, avvertite della fallibilità della memoria e dei troppo umani interessi, hanno elaborato strategie post-behavioriste di controllo per rendere le interviste accurate e verificabili. Per evitare le sviste ne somministrano di pianificate, filtrate, direttive, cognitive, isolate o in questionario. ecc.- e sconsigliano in genere le domande col “perché?”.
In mancanza provvisoria delle scansioni cerebrali promesse dalla neuroestetica, la critica d’arte contemporanea coltiva invece ed estensivamente il genere Inter(s)vista. Praticata da critici embedded, coinvolti nella promozione degli autori, la domanda prediletta è quella “da ascensore”, aggirabile, revocabile e reinterpretabile, per poter rispondere di nuovo e porre nuove domande. Le risposte beninteso sono lungi dall’essere insignificanti, se integrate nell’analisi delle opere, alle quali appartengono come testo da approfondire, non come contesto esplicativo. Il rischio però è che il concorso bandito per il miglior saggio sulla biennale del 2011 sia proprio un’Intersvista.
N.B.: Poiché la carta moneta cattiva scaccia per legge quella buona, il format virale dell’inter(s)vista ha infiltrato gran parte di Alfabiennale. Intersvistato Obrist, l’intersvistatore per antonomasia. ABO è intersvistante attivo e intersvistato passivo, in attesa di intersvistare riflessivamente se stesso sul tema delle intersviste. Per la regola di genere, ABO avanza ipotesi ritrattabili: che il pubblico spettacolarizzato dell’arte contemporanea “retroceda a quello che era prima, popolo“. Verso la stazione, come da inno? Altre interviste come quella di M. Ferraris a A. Danto, a partire dall’esemplum fictum del bassotto di V. Adami, sguinzagliano concetti estetici modernisti nella forma di Et in ArCania Ego.

3. Impiccioni
La Biennale del 150°, ILLUMInazioni è stata frequentata da impiccioni. Come Sgarbi, un Lucignolo che si vorrebbe Lucifero, specializzato nel salto nel buio e il neo-ministro della cultura Galan. Visitatore qualificato e leghista veneto, ha molto apprezzato il concittadino Cattelan e la trovata degli ubiqui piccioni imbalsamati; in una tipica intersvista, ha distinto, con semiotica competenza, il volatile referenziale – che lo disgusta – e il simulacro che è “un’idea brillante”.
Questi impiccioni non bastano però a mettere in cattiva luce una Biennale che ha i suoi barlumi, lampi, brilli, luccichii, barbagli, fulgori, scintillii, splendori e via lucendo. Nell’insieme però se n’esce rabbuiati. Aveva ragione Leonardo: la curator della luce si è scordata di quello che Tintoretto sapeva bene: “l’ombra è di maggior potenza che il lume” (Trattato della Pittura, p. V, § 537).

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