Elementi a seguire l’Abbecedario di CB


Da: Christian Boltanski, Danilo Eccher, Paolo Fabbri e Daniel Soutif, Christian Boltanski, Charta, Milano, 1997.


 

Glossaire, j’y serre mes gloses
M. Leiris

Dopo aver consultato l’Abbecedario di CB, una scelta ci è imposta. Rinunciare alle forme della parafrasi e del commento, dell’indagine e del giudizio.
Anche l’Abbecedario è un’opera di CB con le sue regole rigorose e la sua etichetta semiseria. E uno spazio concettuale, la scatola dei biscotti come il libro, il quadro, il museo, la stazione. Uno specchio da cui l’autore si è “ritratto” dopo averci posto domande la cui risposta è cogente quanto impossibile. E una bottiglia in mare, che contiene una piccola architettura di pensieri, che in CB vengono sempre prima del gesto. (Un amico filosofo mi diceva che ogni concetto è come una nave in bottiglia.) Infatti nonostante la forma aperta e arbitraria, l’Abbecedario crea un ordine che però la traduzione italiana trasformerebbe. Cristiano che in francese è seguito da Sparizione, in italiano precederebbe Familiare; Fotografia che precede Domanda sarebbe seguita da Impossibile; Quadro che è seguito da Domanda sarebbe preceduto da Ossessione; Umano che viene prima di Impossibile anticiperebbe Utopia. Post hoc, ergo propter hoc? La sola replica possibile è rispondere “per le rime”, senza il senso agonistico che l’espressione comporta. L’Abbecedario merita una ripresa, come si dice d’un tessuto o di un film. Ho escluso il mio primo progetto: fare delle frasi boltanskiane del tipo: “Antenati Cristiani Inviano dalla Stazione ai Familiari una Riserva di Vestiti, Quadri, Fotografie e Nuovi Libri in Yiddisch”. Oppure “L’Umano Bene è nella Resistenza all’Ossessione dell’Impossibile Utopia”.
Propongo invece di riprenderne il filo e il segno con degli ELEMENTI o a seguire con delle GLOSSE. Si sa che l’ABbeCeDario è formato dalle prime lettere dell’alfabeto, ABCD e che gli ELeMeNti usano le lettere seguenti, LMN.
Prima però una veduta sulle voci dell’Abbecedario. Su 26 vocaboli un solo nome proprio (Kantor); due pronomi (Io e – certamente – X); 5 nomi comuni concreti (Antenati, Libri, Quadri, Stazione, Vestiti) e 6 astratti (Bene, Morte, Ossessione, Resistenza, Sparizione, Utopia, Zen); 5 aggettivi sostantivati (Cristiano, Umano, Familiare; Nuovo; Yiddish); un solo modale (Impossibile).
Tutti al singolare ad eccezione di Antenati, Libri, Riserve, Sketch, Umani; Vestiti. Un solo termine in una lingua straniera (Widerstand, Resistenza in tedesco)!
Ogni voce è scritta in prima persona. Solo “Morte” è interamente in terza.
Ho anche rinunciato al proposito di raggruppare i termini in via semantica. Per somiglianza: Cristiano, Yiddisch, Zen; oppure Sketch, Kantor. O per opposizione: Antenati e Nuovo; oppure Io e X.
D’altra parte, in CB i sinonimi sono chiari (vestito/fotografie/corpo morto; il teatro e il circo) quanto gli antonimi (Stazione contro Museo per quanto riguarda il pubblico; Umano, luogo della prossimità, contro Post-umano, tempo del caso).
È limpido infine che l’Abbecedario, questa Riserva di senso, lascia emergere proprio nella sinonimia generalizzata (tutto è reversibile, carnefici e vittime, bene e male, vecchio e nuovo) un barlume d’Utopia della prossimità e di una inattesa Resistenza.
Ma per il gioco linguistico della glossa è necessaria qualche regola.
Eccole.
Mi limiterò quindi: (i) a qualche osservazione, o associazione libera, segnalata da Nota Bene (n.b.); (ii) a qualche voce di dizionario italiano e francese; (iii) a citazioni da autori in sintonia con CB, – che, come si dice in francese, possono prendre langue, intendersela con lui; (iv) a rinvìi che formino una piccola rete, per pescare la bottiglia in mare. È la virtù virtuale dei vocabolari. I lemmi sono termini di un percorso di senso ed insieme entrate in una nuova costellazione di significazioni.
In ogni caso è un modo per produrre degli effetti e non interpretazioni. O se si preferisce, interpretazioni ma nel senso teatrale o musicale del termine: cioè esecuzioni e non fusioni ermeneutiche di orizzonti.
E così eccomi diventato il ventriloquo rovesciato dell’Abbecedario di CB, artista che si vuole nello stesso tempo primo (l’eletto) e ultimo degli uomini (il Giullare). Dotato del potere imperfetto di nominare per riconoscere l’unicità della persona nella sparizione – generale e fatale – delle nostre piccole storie.
Divino Briccone?


Antenati È molto importante per un artista provenire da qualche luogo, avere una storia, un “villaggio”, ma questa storia dovrebbe tendere all’universale. Nel mio caso, il fatto che io sia nato proprio alla fine della guerra, che da bambino non abbia sentito parlare praticamente d’altro che della Shoah, che tutti gli amici dei miei genitori fossero dei sopravvissuti, mi ha sicuramente formato. Io non ho vissuto direttamente quelle vicende, ma ne ho subito le conseguenze, come il timore dell’esterno, l’idea del pericolo, il dover nascondere le cose, l’essere allo stesso tempo fieri di qualcosa pur avvertendone consapevolmente il pericolo…
Sono nato anche nel periodo del minimalismo e quest’arte mi ha senza dubbio influenzato. Se un artista ha dei padri, i miei sarebbero Warhol e Beuys – che non conoscevo quando ho cominciato a lavorare – mi sono riconosciuto in loro successivamente.
Si hanno per forza degli antenati, non esistono generazioni spontanee, si è all’interno di una linea, di una storia dell’arte, di una storia del mondo, non c’è frattura.

Antenati
n.b.
Beuys; Collages cubisti e dadaisti, Giacometti, Minimalismo, Kantor, Rauschenberg Karl Valentin, Warhol.
v. Familier (Familiare)
v. Nouveau (Nuovo)
v. Humains (Umani)

Bene Tutti noi abbiamo una vaga idea del Bene, ma questa idea può cambiare. Come una sorta di parentesi nella propria vita, si può commettere il male assoluto essendo invece molto ordinari: in tutti noi vi è la possibilità di uccidere il nostro vicino, di lasciarlo morire o di accettare le disuguaglianze più grandi, ma d’altra parte il Bene genera una successione di piaceri contraddittori quali la buona coscienza, il rimorso, la punizione… Forse la possibilità di scelta è disturbante.

Bene
n.b.
Etichetta è una piccola etica. V. ad es. tutte le regole matematiche d’etichetta che formano la maniera di CB (1600 immagini d’esseri umani; 6000 pallottole di terra; 30 esemplari di una lettera copiata a mano, con una parola cancellata allo stesso punto ecc.)

Cristiano Sono stato allevato nella religione cristiana. Schematizzando si può dire che la religione ebrea non è fatta che per gli ebrei, loro non hanno mai tentato di convertire altri popoli e quindi non hanno commesso i massacri dei cristiani in nome della religione. Ma ciò che ha apportato la religione cristiana è il lato universale, il suo Dio è venuto per tutti…
L’arte che mi interessa di più è un’arte cristiana – certo non necessariamente fatta per i cristiani. Nan Goldin, per esempio, ha uno sguardo cristiano sugli altri, ogni individuo che lei mostra è umano e quindi amabile, meraviglioso e unico.
Io non sono affatto religioso, non sono credente, mi dispiace. Mi interesso alla religione.

Cristiano
n.b.
Religione non significa un collegamento obbligatorio (tra i fedeli e dio) ma un raccogliere, un ricondurre a se stessi e un riconoscere. Fa parte di un campo di verbi come intelligere, diligere (col suo contrario neg-ligere). Bisognerebbe ripristinare il termine religente – come intelligente e diligente – accanto a quello religioso, religione
“…la parola si riconnette a relegere ‘raccogliere, riprendere per una nuova scelta’ ecc. (…); falsa storicamente l’interpretazione da rilegare ‘collegare'”.
(E. Benveniste, Vocabolario delle istituzioni indo-europee)
v. Yiddisch v. Zen

Scomparsa È sicuro che tutto deve scomparire. Tutti i tentativi di lottare contro la morte, contro la scomparsa, sono vani.
Quando qualcuno muore, è quella che io ho chiamato la piccola memoria che sparisce veramente. Tutto quello che sapeva, le sue storie, i suoi libri preferiti, i suoi ricordi… Tutto ciò che ci forma e che ci costruisce sparisce totalmente quando si muore.
La grande storia è nei libri, ma la piccola storia è molto fragile. All’inizio del mio lavoro, il primo tentativo che ho fatto è stato quello di custodire la mia vita dentro scatole di biscotti, di preservare tutto dentro l’equivalente di un forziere. Naturalmente sapevo già che era impossibile e totalmente ridicolo. All’inizio della mia vita, ho parlato della mia infanzia e ho raccontato talmente tante cose false che non ne posso più. Io ho un nonno rimbambito, un padre cattivo… ho fabbricato un’infanzia che è il denominatore comune per ciascuno di noi. Più lavoro e più tendo a scomparire. Ciò che è veramente sparito è il bambino che ero.

Sparizione
n.b.
Antonimo dell’apparire, sinonimo di fading (lo sparire). Il fading dell’altro, quanto accade, m’angoscia, perché mi sembra senza causa e senza termine. Come un triste miraggio, l’altro si allontana, si rimanda all’infinito e io mi sposso nell’attesa. (Al tempo in cui questo indumento era più di moda una ditta americana vantava il blu slavato dei suoi jeans: it fades, fades and fades. L’essere amato, non cessa di svanire, di sparire: sentimento di follia, più puro che non quello d’una follia violenta.).”
(R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, “Fading”)
v. Je (Io/X)
v. Vêtements (Vestiti)

Missive Ho spedito molte missive. Era un periodo in cui molti artisti lo facevano. Ciò che mi interessava e mi interessa tuttora è di fare un lavoro che sia al limite dell’arte e della vita, poiché credo che la vita sia più commovente dell’arte. Naturalmente io non sono che un artista e non faccio che arte, ma l’emozione viene spesso solo per qualche secondo, ci si chiede: “Cos’è ?”. Se si sa subito che si tratta di arte non si è commossi, lo si è intellettualmente ma non si piange. C’è una bella differenza tra vedere un’opera in un museo e ricevere all’improvviso una mattina una lettera in cui ti viene posta una specie di domanda e ti chiedi cosa sia e come reagire. Si è più vulnerabili perché non si è preparati a riceverla. Io ho spedito i miei capelli, ho spedito la malattia (che era una piccola carta sporca sulla quale era battuta a macchina la parola malattia), ho inviato la fotografia di una ragazzina lacerata in mille pezzi, ogni volta è una domanda. Ogni persona che riceve una missiva pensa sempre che sia per lui soltanto.
Una delle mie ultime missive è stata una lettera manoscritta in cui domandavo aiuto. Era la lettera di qualcuno che non sta affatto bene, un po’ paranoico; avevo inviato trenta esemplari tutti uguali, ricopiati a mano, con le stesse parole scritte negli stessi punti, ciascuno l’ha ricevuta come fosse un originale. La bellezza di una missiva è che è come una bottiglia nel mare, può toccare a chiunque. Nell’arco di un anno e mezzo ho inviato dieci o dodici missive, ma l’ho potuto fare fintanto che non ero molto conosciuto: quando vi si è potuta riconoscere una forma artistica, ho smesso di farlo. Erano spesso legate a piccoli avvenimenti.

Invii
“Lettere smarrite… lettere morte… non vi fanno pensare a uomini morti? (…) Perché ogni anno se ne bruciano a caterve. Talvolta dalle pieghe del foglio, il pallido impiegato estrae un anello, e il dito cui era destinato forse già imputridisce in una tomba; un biglietto di banca inviato con tutta urgenza e colui che ne avrebbe ricevuto giovamento e non mangia più, non soffre più la fame; un perdono tra quelli che morirono tra i rimorsi; una speranza per quelli che morirono disperati; buone notizie per quelli che si spensero annientati dalle sventure. Messaggere di vita, queste lettere volano verso la morte.
O Bartleby, O umanità!”
(H. Melville, Bartleby lo scrivano)
v. Gare (Stazione)
v. Abbecedario

Familiare Io lavoro con il senso comune, con l’idea del familiare. Non si può trasmettere altro che cose familiari, mai cose personali. Non si possono descrivere altro che le cose che gli altri conoscono già, nulla che non sia familiare, comune. Ogni oggetto artistico è all’interno di ciò che è familiare, riconoscibile, già conosciuto. Potremmo forse avere un’idea di qualcosa che non lo sia? Durante l’infanzia si accumula un gran numero di immagini e per tutta la vita si procede a riconoscere quelle. Oggetti o sentimenti che siano, non si scopre mai niente, non si scopre mai più niente. Non si fa altro che riconoscere e, attraverso la propria cultura, ricomprendere.

Familiare
n.b.
domus, la casa familiare è etimologicamente il “da me” che si oppone al di fuori, all’esotico; è allora sinonimo di endotico. “Interrogare l’abituale (…). Come parlare delle cose comuni, come perseguirle, come stanarle, strapparle alla ganga in cui restano invischiate, come dar loro un senso, una lingua? Che parlino infine di quel che è, di quel che siamo.
(…) Fate l’inventario delle vostre tasche (…). Interrogate i vostri cucchiaini. ”
(G. Perec, L’infra-ordinario)
v. Photographie (Fotografia)

Stazione La stazione è un luogo appassionante: tutti i giorni migliaia di persone si incrociano, ognuna ripete lo stesso gesto, ciascuna ha nella testa uno scopo ben preciso. Si incrociano generalmente senza vedersi. Due anni fa ho lavorato alla stazione di Colonia, con i viaggiatori. Venivano distribuiti loro manifestini che riproducevano volti di bambini scomparsi e ricercati dalla Croce Rossa dopo la guerra. Ce n’erano migliaia, recanti sul retro questa iscrizione: “Se riconoscete questo bambino…” A differenza del museo, dove i visitatori avrebbero riconosciuto un’azione artistica, questi si domandavano improvvisamente, nella stazione, quello che era accaduto in Germania quarantacinque anni prima.
Nel 1995, nella Grand Central Station di New York sono stati messi in mostra su degli scaffali tutti gli oggetti ritrovati nella stazione nel corso di un anno. I viaggiatori si sono riconosciuti in questi oggetti usuali, appartenenti a tutti (ombrelli, chiavi), ma questi oggetti non appartenevano veramente più a nessuno e la gente lo comprendeva.

Stazione
v. Familier (Familiare)
v. Envois (lnvii)

Umani Nel mio lavoro ho sempre voluto che ci fosse molta gente: ci sono migliaia di svizzeri morti, migliaia di persone, migliaia di oggetti d’inventario, lunghissimi elenchi… Ciò che tento di mostrare è allo stesso tempo il numero e l’unicità di ogni individuo. È molto importante per me, siamo tutti apparentemente simili e tuttavia differenti, tutti unici, quindi in questo senso tutti salvi. Nel 1994, ho realizzato Menschlich. E un’opera che raggruppa 1600 immagini di esseri umani, è soprattutto un lavoro sulla perdita d’identità. In questa massa di gente, come riconoscere qualcuno? Non si sa più chi era chi… Non si può più dire niente su nessuno, si sono perdute tutte le informazioni su di loro, ciò che ne rimane sono queste foto, che mescolano stranamente la loro presenza e la loro assenza.
Tutta la differenza è eliminata, le loro piccole storie sono perdute. Non hanno più nomi. Le opere con gli elenchi di nomi sono equivalenti, ? resta il nome di qualcuno ? ne rimane l’immagine… Nominare le persone mi sembra molto importante, dare un nome è già riconoscere l’unicità della persona.

Umani
“L’uomo dorme e sogna, nell’oblio. I rintocchi del vespro
lo svegliano. Nei regni d’Inghilterra il suono delle campane ormai è una delle consuetudini della sera, ma quell’uomo, da bambino, ha veduto il volto di Wooden, l’orrore divino e l’esultanza, il goffo idolo di legno stracarico di monete romane e di vesti grevi,
il sacrificio di cavalli, di cani, di prigionieri. Prima dell’alba morirà e con lui moriranno e non ritorneranno, le ultime immagini dirette dei riti pagani; il mondo sarà un poco più povero quando quel sassone sarà morto.”
(J.L Borges, Il testimone)
v. Mort (Morte)
v. Disparition (Sparizione)

Impossibile Il lavoro artistico è sempre all’interno dell’impossibile. È tentare di impedire la morte pur sapendo che è una lotta già persa in partenza. Quando facevo le palle di terra, cercavo di raggiungere la perfezione, ed era impossibile. Anche facendo 6000 palle di terra non ve n’è una sola perfettamente tonda, è una cosa in tutti i modi destinata al fallimento e il lavoro che io faccio ha questa volontà di includere l’idea dell’insuccesso. Ma ciò si trova in molti artisti, in Giacometti, per esempio, che, quando cercava di fare il ritratto di qualcuno, sbagliava ogni volta e ricominciava: era anche questo un modo di impedire la scomparsa.
Nel mio primo testo, nel 1969, affermo che la morte è una cosa vergognosa e bisogna che ognuno di noi si metta da subito a conservare tutto, a stipare tutto, a etichettare tutto per poter infine non morire mai, ben certo consapevole di quanto tutto ciò fosse ridicolo.
La perfezione è impossibile. Molto spesso nel lavoro artistico vi è il desiderio di raggiungere una sorta di assoluto, di fermare il tempo o di rappresentare la vita con il fallimento, come nel Ritratto Ovale di Edgar Allan Poe, non si può fermare la vita. Anche se faccio un inventario di tutti gli oggetti di qualcuno, la persona non c’è più.

Impossibile
“L’intollerabile non è più un’enorme ingiustizia, ma lo stato permanente di una banalità quotidiana. (…) Il veggente vede meglio d’ogni altro che non può reagire, cioè pensare. Qual è allora la via sottile d’uscita? Non credere a un altro mondo ma al legame tra l’uomo e il mondo, all’amore o alla vita, crederci come all’impossibile, all’impensabile, che però non può essere se non pensato: ‘del possibile, altrimenti soffoco’. L’impotenza a pensare (…) appartiene al pensiero (…Dobbiamo servirci di questa impotenza per credere alla vita, e trovare l’identità del pensiero e della vita.).”
(G. Deleuze, L’image-temps)
v. Widerstand/Resistenza

Io Il ruolo e lo scopo dell’artista è di scomparire. L’IO non esiste più. Non è che un’immagine collettiva, il riflesso del desiderio degli altri. Colui che ha fatto quest’immagine in cui gli altri si riconoscono non esiste più. L’artista è come qualcuno che in un testo sottolinei una parola e indichi così una realtà che ciascuno ha in sé. Questa realtà è universale o culturale? Vi sono delle forme universali che sono al di fuori della cultura. Esistono argomenti collettivi come la morte, la ricerca di Dio o la nascita, ma a causa di certi particolari alcune cose non sono riconoscibili da altre culture.

Io
n.b.
La doppia debraiata L’Io e il Tu sono pronomi legati da una relazione di Soggettività reversibile; insieme, come pronomi personali, s’oppongono all’Egli, al Si e a ogni altra forma “impersonale”. Questi moti interpronominali sono detti shifters, oppure embrayeurs. In CB c’è una doppia debraiata, prima impersonale, poi soggettiva. Nella prima abbandona la soggettività per fare il quadro. Ma avverte che nell’opera più impersonale, c’è sempre una traccia della soggettività, per quanto schivata, sfalsata, scherzata, (per es. la traccia che lascia chi cancella le proprie tracce).
È la volta allora di una seconda debraiata, che affida al Tu l’onore e l’onere dell’impossibile risposta, e non raggiungibile perfezione.
v. X
v. Réserves (Riserve/riserbo)
v. Disparition (Sparizione)

Kantor È uno degli artisti che mi ha influenzato maggiormente. L’ho conosciuto un poco. In confronto con altri uomini di teatro importanti, aveva una grande povertà di mezzi, una sorta di teatro ambulante. Tutto il suo lavoro è basato sulla memoria – che è anche la mia – dell’Europa centrale ed è legato alla guerra. È anche la mia storia, la mia mitologia, che mescola tragicità e derisione, sofferenza, musica popolare, clownerie e orrore, in un universo espressionista.

Kantor
v. Saynètes/Sketches
v. Tableau (Quadro)

Libri Ho fatto molti libri. Il libro è un’arte del tempo, include la suspense della pagina successiva. E anche una bottiglia nel mare, non si sa mai chi l’avrà, chi lo leggerà, si passa di mano in mano, può finire all’altro capo del mondo… È un oggetto fuori di sé, ancor più di una mostra. Io sono piuttosto chiuso all’idea della scrittura, quindi faccio libri di immagini, di successioni di immagini o di elenchi di nomi, che è quasi la stessa cosa. I libri sono per me tanto importanti quanto la mostra e sono spesso lavori paralleli ad essa. Il libro è un luogo, come il museo e io adatto il mio intervento a questo o quello spazio. L’impaginazione, la scelta della carta, la copertina, tutto ciò fa parte del libro.
Il mio primo lavoro del 1969, che è il punto di partenza di tutto ciò che faccio oggi – Recherche et représentation de tout ce qui reste de mon enfance – era un libro. In esso è contenuto tutto ciò che ho fatto in seguito.
Il libro mi ha sempre accompagnato, è una costante, talvolta vi sono libri che non corrispondono ad alcuna opera. I cataloghi non riproducono che opere, il libro è un’entità in quanto tale.

Libri
“Libri piuttosto impossibili da mettere in ordine.
(…)
2.5. Come i bibliotecari borgesiani di Babele che cercano il libro che dia loro la chiave di tutti gli altri, oscilliano tra l’illusione del compimento e la vertigine dell’inafferrabile. In nome del compimento vogliamo credere che esista un solo ordine e che questo ci permetterà l’accesso immediato al sapere; in nome dell’inafferrabile, vogliamo pensare che l’ordine e il disordine sono entrambi parole che segnano il caso. Può darsi che siano entrambi degli inganni, trompe l’oeil destinati a dissimilare l’usura dei libri e dei sistemi.”
(G. Perec, Penser/classer)
v. Yiddisch

Morte La morte è una cosa molto strana. Siamo esseri unici, con piccole storie, conoscenze, una memoria e da un istante all’altro diventiamo un oggetto ignobile, disgustoso. Questo passaggio è molto strano. Se non si è credenti, se si pensa che non c’è niente dopo la morte, la domanda è ancora più grande. Oggi la morte è considerata come una cosa vergognosa, che si nasconde; si muore in ospedale, da soli… Come la malattia, è qualcosa che rifiutiamo completamente.
Nelle società tradizionali, il rapporto con la morte era molto migliore, la sepoltura era una grande festa, la morte era parte della vita. Oggi si è arrabbiati contro la morte, a tal punto che la si nega.

Morte
“che fu quel punto acerbo che di vita ebbe nome?”
(G. Leopardi, Dialogo di F. Ruisch e delle sue mummie)
v. Zen

Nuovo Non vi è niente di nuovo nell’arte, l’idea del progresso è totalmente stupida. La scienza è cumulativa, ma l’arte non lo è assolutamente. L’arte non è migliore oggi di 10 anni fa, è forse più nuova? Io non credo che ciò significhi molto. Si ripetono sempre le stesse cose, le diciamo in maniera differente, ma i sentimenti o ciò che si ha da dire sono sempre più o meno simili. Vi è piuttosto uno svolgimento. Nella nostra società cristiana occidentale vi è, nella lotta contro la scomparsa, la trasmissione attraverso l’oggetto. Si conservano oggetti nei musei, si conservano reliquie. In altre società, che mi interessano di più, vi è la trasmissione attraverso il sapere.

Nuovo
n.b.
Non c’è nulla di assolutamente nuovo. E l’infanzia il luogo delle immagini accumulate; si passa tutta la vita, con la cultura della vita adulta, a riconoscerle. Infanzia
“A più riprese annotando, questi ricordi che riemergevano in masse compatte, mi sono sorpreso con la penna in aria, immerso per lunghi minuti in un’atmosfera trasognata, rilassata ed ostinata. Mi pareva possibile, chiudendo gli occhi, di ritrovarmi in quei corsi, quei corridoi sudici, quelle sale con le finestre munite di grate. Rivivevo esercizi alla sbarra, le distribuzioni dei premi nei refettori, decorati per la circostanza con tre banderuole di carta sgualcita, i ‘movimenti di gruppo’ alla festa ginnica del dipartimento di Seine et Oise; rivedevo la sala di disegno con i suoi calchi in gesso e l’alto piedestallo a vite su cui il maestro disponeva, per iniziarci alla natura morta, una sveglia, un fiasco e due mele, la classe di geografia dov’erano appese grandi carte intelate che rappresentavano la Francia agricola, l’Europa fisica e l’Africa nera, il dormitorio con una specie di box in cui dormiva il sorvegliante di turno, la sala per studio con in fondo i nostri scaffali personali chiusi da lucchetti a combinazione ed era come se fossi immerso di nuovo nel cuore di quelle ore grigie e fetide, quella vita da piccola prigione che andava avanti di settimana in settimana, di dettato in dettato, d’interrogazione scritta in interrogazione scritta, dall’ora dello studio alla lezione di solfeggiio, da delta uguale a B due meno quattro, a C a… ”
(G. Perec, 53 jours)
v. Obsession (Ossessione)

Ossessione Il lavoro artistico è sempre legato a un’ossessione, in tutti i casi a un punto di partenza, un avvenimento che si racconta in tutti i modi possibili. Per me è quasi sempre legato all’infanzia. Questo avvenimento sarà raccontato in maniera ossessiva per tutta la vita. Io credo che gli artisti siano fatti per realizzare ben poche cose, o per fare quasi sempre la stessa cosa. E sbagliato pensare che un artista possa parlare di molte cose differenti, cambiare costantemente forma, io mi vieto di cambiare. Io so che il lavoro artistico è limitato, e consiste nel parlare di qualcosa che ci tocca realmente. L’artista è un ossessivo, che fa fatica a modificare se stesso – la sua esperienza, che racconterà per tutta la vita, è allo stesso tempo personale e comune a tutti.

Ossessione
“La ‘soluzione ossessiva’ (…) attraverso la partecipazione di appartenenza che lo caratterizza, il soggetto effettua uno spostamento del dilemma che lo occupa in un ambito diverso da quello che chiamiamo reale, in un mondo cioè di equivalenze e di corrispondenze simbolico-magiche, aperto appunto dall’onnipotenza (…). Il prezzo dell’operazione è però una radicale spersonalizzazione del dilemma e del soggetto stesso del dilemma, in direzione di una paradossale socializzazione in un mondo magico.”
(E. Facchinelli, La Freccia ferma, “Tre tentativi di annullare il tempo”)
v. Je (Io)/X
v. Nouveau (Nuovo)

Fotografia Io utilizzo la fotografia ma non faccio mai fotografie. Non sono un fotografo. Il rapporto tra la fotografia e le arti plastiche del Novecento è caratterizzato da diverse tendenze: la prima è riconducibile a uno come Man Ray, insieme vero fotografo e pittore, pur essendo questi due ambiti completamente distinti. L’altra tendenza va dal collage cubista ? dadaista a Rauschenberg, e ha in sé il marchio del reale. Ma che si tratti di un’immagine ? di un giornale, è la stessa cosa. E il marchio del reale che è incollato sulla tela, e io appartengo a questa linea. Ciò che mi interessa nella fotografia è questo rapporto con la realtà, c’è sempre l’idea – senza dubbio perché la foto è fatta da una macchina – che se abbiamo la foto di un uomo, questo deve essere veramente esistito. In linea di principio la fotografia dice la verità e trasmette la realtà, anche se non è del tutto vera. D’altra parte, la fotografia è un oggetto legato a un soggetto e alla sua assenza. Per questo motivo la fotografia evoca spesso la morte, perché vediamo un oggetto che ricorda un soggetto assente. Io compio sempre il paragone tra un vestito usato, un corpo morto e la fotografia di qualcuno. In tutti e tre i casi si tratta di un oggetto che rinvia a un soggetto e alla sua assenza. Non c’è carne. Si può calpestare una foto, la si può strappare, è un oggetto che si può torturare senza drammi. E come su un vestito già portato, c’è l’odore della persona, la sua mancanza. C’è sempre l’idea della persona assente in una foto. Nel mio lavoro, che io utilizzi un vestito o una foto, non vedo la differenza, una cosa non è prioritaria sull’altra. La cosa più importante è l’effetto di realtà.

Fotografia
“Il gusto della foto spontanea naturale colta dal vivo uccide la spontaneità, allontana il presente. La realtà fotografata assume subito un carattere nostalgico, di gioia fuggita sull’ala del tempo, un carattere commemorativo, anche se è una foto dell’altro ieri. E la vita che vivete per fotografarla è già in partenza commemorazione di se stessa.
(…) Forse la vera fotografia totale – pensò – è un mucchio di frammenti d’immagini private, sullo sfondo sgualcito delle stragi e delle incoronazioni.”
(I. Calvino, Gli amori difficili, “L’avventura di un fotografo”)
v. Familier (Familiare)

Questione/Domanda Nel mio lavoro vorrei commuovere e porre delle domande. In linea di principio ogni opera che realizzo è una domanda, alla quale non ho risposta, talvolta è una domanda che conduce a un’altra domanda. Il ruolo dell’artista come lo concepisco io è quello di interrogare, non con un testo ma attraverso le immagini, che pongono la domanda a coloro che le guardano. Ogni opera è perciò aperta perché non conosco la risposta. Io penso inoltre che ogni risposta sia cattiva. E qualcosa che si ritrova nella tradizione chassidica e in quella zen. Le storie non sono altro che domande, mai risposte. Io mi colloco in questa tradizione, ma senza affermare. In un lavoro come Détective, chi è il criminale, chi è la vittima, e cosa significa questo? Sans Soucis è la stessa cosa, gli album di fotografie sono tutto ciò che resta di una vita. Ogni volta c’è un legame con questioni di carattere esistenziale…

Questione/Domanda
n. b.
Tutte le domande sono risposte a problemi (e questi, etimologicamente, sono “propositi”). Le risposte alle domande sono risposte elevate a potenza. Ter questo forse sono (quasi) impossibili? Con preghiera di risposta.
“In latino quaero ‘cercare, domandare’ (da cui quaestor, questus) parola senza etimologia, intrattiene con praecor, *prex, ‘pregare, preghiera’ una relazione strettissima che va precisata…”
(E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indo-europee)
v. Familier (Familiare)
v. Impossible (Impossibile)

Riserve Molte opere si intitolano Réserves. Sono lavori molto diversi: Les Suisses Morts, Détective…
Questo titolo viene dall’accumulo, dall’idea di conservare, di avere una riserva. Credo che ciò sia legato al concetto del cadavere nell’armadio, alla cosa che è nascosta e che si possiede, ma anche a tutto ciò che si conserva. La riserva è il posto dove si conservano le cose, è il frigorifero, la cassapanca… è la scatola dove si mettono tutti i propri ricordi e i segreti. Forse questo titolo è un po’ un dire e non dire, il senso del ritiro…

Riserve
v. riserbo: “L’essere molto riservato nell’esprimere il proprio stato d’animo, le proprie intenzioni e valutazioni; più forte quindi che riservatezza,” riserva: “Nella stampa dei tessuti, sostanze usate allo scopo di impedire al tessuto di assorbire in alcune zone le materie coloranti, in modo che le zone stesse risultino chiare sullo sfondo tinto.”
(Dizionario Enciclopedico italiano; l’ultima evidenziazione è mia)
v. Envois (Invii)
v. Je (Io)/X

Scenette Nel 1974 ho realizzato la serie delle Saynètes Comiques (Scenette Comiche). Fino a quel momento avevo parlato molto della mia infanzia, passavo per essere un artista “proustiano” e molto serio. Così, poiché avevo conosciuto il lavoro di Karl Valentin, ho immaginato di essere una specie di comico. Avevo realizzato una piccola serata a inviti in cui mi proponevo di raccontare i miei ricordi di gioventù, come qualcuno che va di città in città a narrare la propria storia. Ho dunque immaginato un certo numero di piccole storie comiche, di scenette, in cui io interpretavo dei personaggi cliché della memoria collettiva: il padre, la madre, il piccolo cristiano, il nonno… Ho fatto due spettacoli, uno a Dusseldorf, l’altro a La Rochelle e poi ho fatto il museo di questo clown, come fosse morto in una gloria modesta. Possedevo alcune fotografie delle scenette che avevo reinterpretato davanti alla macchina fotografica, quasi come film muti. C’era ogni sorta di documenti: i manifesti dipinti che lo rappresentano, le copertine dei suoi dischi, tutto ciò che riguardava la sua vita…
Questo dimostra che la vita è sempre molto più bizzarra di quanto si possa credere. C’era il mio interesse per il teatro, per il circo, con una sorta di ghigno derisorio… Era veramente una frattura nel mio lavoro, eppure si trattava sempre della stessa cosa, i miei ricordi di gioventù, ma in un altro modo. Credo di avere lo stesso humour anche oggi, nero e derisorio.

Sketches
n.b.
Tra teatro della memoria e gabinetto delle meraviglie, la norma è l’umor nero.
saynètes, ni, – saïnette 1764, sainete, diminutivo di sain ‘grasso’ (cf. farsa) connesso a scena. 1. (storia lett.) Piccola commedia buffa di teatro spagnolo (che si recitava nell’intervallo). 2. Scenetta comica d’un solo atto, con pochi personaggi, v. sketch, es. Le saynète di Cekov.”
(Dictionnaire de la langue française, Petit Robert)
v. Kantor v. Yiddish v. Zen

Quadri Le mie opere sono dei quadri, i mezzi non hanno molta importanza. Mi definisco pittore poiché non vi è altra parola per descrivere ciò che faccio. Il film e il romanzo sono un’arte del tempo, la pittura un’arte dello spazio. Io ho fatto molta pittura. I miei primissimi quadri di quando ero bambino erano composti da centinaia di personaggi, erano estremamente narrativi, del resto io sono sempre stato un pittore figurativo.
Ho scelto molto presto un’altra maniera di raccontare storie.
La pittura e il disegno mi sembrano troppo legate all’inconscio, a qualcosa che va oltre la ragione. Questo mi fa paura, forse direi troppe cose su me stesso…

Quadro
Pittura narrativa e figurativa, pittura di (piccole) storie: istoriata
“istoriare (ant; storiare) v. tr. der. da istoria, variante antica o letteraria di storia nel senso di raffigurazione di un fatto . Adornare una superficie con la raffigurazione (in pittura, scultura) di immagini relative a fatti storici o sacri o leggendari.”
(Vocabolario della lingua italiana, Istituto dell’Enciclopedia italiana)

Utopia Il concetto di avanguardia nel corso del Novecento è stata solitamente abbinata all’idea di utopia, soprattutto di utopia politica. Forse oggi l’arte è legata a utopie di tipo religioso, a differenza di qualche anno fa, quando prevalevano idee sociali e politiche di trasformazione radicale del mondo – Bauhaus, dadaismo. Dalla fine del comunismo, dalla morte dell’utopia, il concetto di avanguardia universale è scomparso. Continuo a pensare che ci sia un rapporto tra l’arte minimalista statunitense e la lotta degli intellettuali americani contro la guerra del Vietnam. Il comunismo è stato l’ultima utopia cristiana e alla fine del comunismo gli artisti si sono trovati di fronte a un problema reale: come credere a una forma universale di arte se non si crede più a una forma universale di rivoluzione? Il Novecento si ferma qui, siamo in un altro mondo. Mi sembra che un artista possa reagire in due modi differenti: negare ogni morale e ogni dio, rifiutarsi di scegliere tra bene e male, travolto dal fluire del caso che supera entrambi i concetti (è molto evidente nel cinema: Tarantino, Lynch…). È un mondo che ha sorpassato l’idea della disgrazia, è un mondo post-umano. Dall’altro lato – come appare chiaro nella politica, da cui sono scomparsi i grandi partiti rivoluzionari – c’è un rinnovato umanitarismo. I giovani che in passato sarebbero stati trotskisti o comunisti aderiscono oggi a questo nuovo modello. Io credo che sia un fenomeno generale. Non ci sono più ideologie e il modello istituzionale non funziona, allo stesso modo in cui ha fallito il modello rivoluzionario: l’unica possibilità resta allora questa sorta di umanitarismo, un’utopia molto ridotta. Oggi non si pensa più di raggiungere un mondo migliore e in arte c’è l’utopia della prossimità: non si può più cambiare il mondo, non si possono più avere forme universali, ma si può parlare al proprio vicino, offrirgli un dolcetto… Un lavoro come Dispersion riflette proprio questo. Io partecipo di questa nuova sensibilità, ma non ne sono totalmente soddisfatto. Oggi si assume una forma differente a seconda dell’avvenimento o del luogo in cui ci si trova.
C’è qualcosa che, in un dato momento, può mettere in moto lo spirito o il sentimento della gente.

Utopia Utopie
“Tutte le utopie sono deprimenti perché non lasciano posto al caso, alla differenza, ai ‘diversi’. Tutto è stato messo in ordine e l’ordine regna. Dietro ad ogni utopia, c’è sempre un grande disegno tassonomico: un posto per ogni cosa.”
(G. Perec, Penser/classer)
v. Livres (Libri)

Vestiti II primo lavoro con dei vestiti è stato Les Habits de François C. del 1972. Dal 1988 ho lavorato molto con gli abiti.
Il vestito usato parla di qualcuno che era lì ma non c’è più. L’odore, le pieghe sono rimasti, ma non la persona. Le “pièces en vêtements” sono più difficili; penso per esempio a Canada, in cui si tratta dell’olocausto. Cerco sempre di utilizzare abiti del nostro tempo, perché li si riconosca immediatamente come cose di oggi.
In Giappone ho fatto una pièce con vestiti in relazione con il mito Zen del Lago dei Morti: una sorta di rito di passaggio tra il momento del distacco terreno e quello in cui si diventa un’anima, lo potremmo definire come il tempo dell’erranza. Il vestito come immagine dell’assenza costituisce una delle letture principali di queste opere.
Dispersion, soprattutto nell’esecuzione che ne ho fatto a Harlem, era in stretta connessione con l’idea di resurrezione. Era una nuova storia. Quegli abiti usati, abbandonati, venivano riportati a nuova vita.

Vestiti (usati)
n.b.
Il vestito non è solo involucro (indumento), ma vestigio d’una singolarità. Il dandy dormiva vestito perché nell’abito restasse la sua piega. Per questo il vestito può essere l’operatore d’una piccola storia di fading o di resurrezione.
v. Photographies (Fotografie)
v. Mort (Morte)
v. Lettres (Lettere)
v. Disparition (Sparizione)

Widerstand In tedesco questa parola vuol dire “resistenza”. Era il titolo di una mostra e di un’opera che ho fatto a Monaco, alla Haus der Kunst, il museo costruito da Hitler per consacrare l’arte tedesca.
Avevo trovato un libro su un gruppo di oppositori tedeschi al regime nazista, la Rothekapel, con una serie di foto prese dalla Gestapo in cui compare ogni genere di volti: giovani, vecchi, intellettuali, artisti, operai, militari… Perché quel gruppo di persone ha resistito? Non era certo facile nella Germania nazista. Cosa avevano di diverso dagli altri? Io ho ripreso solamente i loro sguardi ingranditi in manifesti, che ho incollato su tutto l’esterno del museo. È una pièce ottimista, vittime e criminali non sono sempre interscambiabili, esiste gente che si oppone.

Widerstand (Resistenza)
n.b.
Antonimo dei monumenti pubblici, solecismi di bronzo. “…Un minuscolo portacenere rotondo, in ceramica bianca il cui ornato a dominante verde, rappresenta il Monumento ai Martiri di Beyrut, per quel che lascia intendere il disegno in mezzo ad una piazza cinta da monumenti moderni, con cedri e palme, su uno zoccolo di pietra le cui tre facce visibili sono decorate da corone di fiori rossi, si ergono tre figure di bronzo; un uomo, agonizzante, caduto sul fianco, che tenta di rialzarsi tendendo la mano e sopra di lui, erta su di un blocco di pietra di forma indefinita, una donna, avvolta in una veste con una manica che fa finta di fluttuare, e tende un braccio alla cui estremità brandisce una fiaccola (o un mazzo di fiori) e che con l’altro braccio tiene per la spalla un fanciullo vestito pare d’un semplice panno intorno alle anche…”
(G. Perec, Still life/Steal leaf)

X Quest’idea della perdita di identità è molto presente in me. Se si decide di essere un artista è per annullarsi, per scomparire. Senza dubbio la paura della morte fa sì che si sparisca. Un artista è qualcuno che rappresenta gli altri, che diventa gli altri, ma che non ha più un volto e non è nient’altro che l’immagine degli altri. E nessuno.
Effettivamente, la foto di un bambino che corre su una spiaggia verrà riconosciuta da ciascuno come propria. Essa evocherà in lui qualcosa di personale, di intimo, che sarà diverso per ciascuno. Ognuno vede un’opera in modo differente.
L’artista, essendo lo specchio degli altri, tende a diventare universale, già morto e immortale.

X
v. Je (Io)
v. Disparition (Sparizione)

Yiddish Io credo che i miei antenati parlassero tedesco e che la loro fosse, tramite la lingua, una cultura tedesca. Se ho un luogo, questo è in qualche punto tra il Mar Bianco e il Mar Nero, quella terra di nessuno che è l’Europa centrale, di lingua Yiddish. Mi sento legato a questa terra senza frontiere, che ne oltrepassa molte.

Yiddish
n.b.
L’Yiddish è una lingua-territorio. “Fu chiesto a Rabbi Levi Isacco ‘Perché in tutti i trattati del Talmud babilonese manca la prima pagina e ognuno comincia con la seconda?’ Egli rispose: ‘Per quanto un uomo abbia studiato, deve sempre ricordarsi che non è ancora arrivato alla prima pagina’.”
(I racconti dei Chassidim, a cura di M. Buber)

Zen Una storia chassidica racconta che il grande rabbino era sul punto di morire, circondato da numerosi altri rabbini. Il più giovane di loro dice: “Vorrei farvi un’ultima domanda: maestro, cos’è la vita?”. Il grande rabbino risponde: “La vita è una fontana”. Tutti gli altri annuiscono, salvo il più giovane che dice: “Che? La vita è una fontana?”. E il maestro dice: “Che, la vita non è una fontana?”…
Si ritrova una storia simile nella tradizione Zen. So ben poco di questa filosofia, ma credo che abbia molti punti in comune con la cultura chassidica, in quanto entrambe sono tradizioni di indagine attraverso la domanda.

Zen
“Il mio io di un tempo non-esistente in natura; non c’è luogo dove andare quando si è morti, assolutamente nulla?”
(Poesia «doka», di Ikkyu)
v. Je (Io)/X
v. Mort (Morte)
v. Question (Questione/Domanda)

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