Sul capo: figure, scambi, maniere


Da: AA.VV., Cosa ti sei messo in testa?, Catalogo della mostra, a cura di M. M. Sigiani, Milano, 1991.


0. Il segno zero

Oggi, che nessuno (o quasi) porta cappelli, il copricapo è un segno zero. Significa per la sua inesistenza, in calco, come un posto vuoto. Ma l’accento è più sul “posto” che sul “vuoto”. Prova ne sia che, quando dobbiamo far onore a qualcuno o a qualcosa, ci tocchiamo un punto preciso e immaginario sopra la testa (un’immaginaria scappellata), e possiamo aggiungere “tanto di cappello”.
Vorrei toccare questo senso “a vuoto” in tre punti: (i) retorica e fisiognomica; (ii) carnevali e saturnali; (iii) etica ed etichetta.

1. L’icona cappello

Non è a caso che Panofski1 prenda come modello o scampolo dell’analisi iconologica proprio l’atto di togliersi il cappello. Dopo aver descritto i vari livelli di significato che caratterizzano la scappellata – primario o naturale; secondario o convenzionale; intrinseco o di contenuto – li trasferisce “dalla vita quotidiana ad una opera d’arte” (:33). C’è comunanza di oggetto: il cappello è un pezzo essenziale di quell’arte decorativa che è il savoir-faire e vivre (il dandy, riflesso nella cornice del suo specchio in cravatta e cappello non aveva certo bisogno di dipingere) e di metodo: del copricapo si dà una iconografia e una iconologia (in ogni caso una semantica).
Se è così, a questo indumento (o capo) non dovremmo pensar da solo, ma in rapporto agli altri elementi presenti e assenti, paradigmaticamente e sintagmaticamente a cui si accosta o s’oppone (capelli – la parrucca, supremo oggetto barocco2, e codini3 -, colletti, cravatte e cosi via), o fa da supporto (gioielli e pennacchi, fiocchi, nastri, galloni, gradi).
Ad altri l’onore e l’onere. Ci atterremo qui alla sua riconoscibile funzione retorica e passionale.

Il cappello per la sua morfologia (la varietà delle calotte, la esauriente combinatoria della piegatura delle falde, ecc.), il modo di applicazione (l’agio del cappello floscio gettato all’indietro, la disinvoltura di quello sulle ventitrè, la determinazione se calcato fino agli occhi…) e il colore è un deformatore della forma e del senso del capo. Gli sono applicabili tutte le figure retoriche di spostamento in particolare l’enfasi e litote (si ricordi il cappello frigio e il cilindro simultaneamente à la page della rivoluzione francese). Ora questi tropi sono i significanti di cui il volto e la silhouette del corpo sono il significato. Il cappello è un dispositivo fisiognomico: ci sono ritratti che non riusciamo ad immaginare senza questo onore della fronte (così come la barba è “onor del mento”). Il cappello è una protesi (staccabile e manipolabile – dove posarlo?) del corpo nel suo luogo più significante (la parte superiore, la fronte, della parte superiore, la testa) – inquadratura del viso visto e dello sguardo che vede. Se c’è una Weltanschauung allora c’è una visiera (o una celata) del mondo e dei soggetti. Essa caratterizza i lineamenti del corpo sociale e i connotati di carattere. Ci sono, è noto, tanti possibili copricapi quanti status e ruoli sociali, specie se la comunità è seperata delle altre e la gerarchia interna particolarmente accusata (le istituzioni totali per quel che ne resta: esercito, scuola, fabbrica, ecc.). Per quanto riguarda la lettura delle fattezze lo ha compreso insuperabilmente Balzac; si pensi alla decrizione iniziale del cugino Pons che, nel 1844, persiste ad indossare i vestiti delle antiche mode imperiali, tra gli incroyables del Direttorio e le redingotes dell’Impero (horresco referens: uno spencer color nocciola su di un abito verdastro con bottoni di metallo bianco!)4. Pons è così espressivamente fuori moda sopratutto per “un orribile cappello di seta a 14 franchi, sui cui bordi interni delle orecchie alte e larghe imprimevano tracce biancastre, invano combattute dalla spazzola. Il tessuto di seta mal applicato, come sempre, sul cartone della forma, era spiegazzato in più punti e pareva attinto da lebbra, a dispetto della mano che lo lisciava ogni mattina”. Se, in apertura di romanzo, dell’uomo si sa poco, la sola storia geroglifica del suo cappello, a condizione, diceva Balzac, di saperlo decifrare, potrà dirci allegoricamente ogni cosa.
Per questa capacità di testualizzare l’identità e di comunicare parabolicamente, il (buffo) cappello è sovente il supporto semiotico dell’eccentricità. Nel suo capitolo sugli eremiti ornamentali – con cui i signori inglesi decoravano, a contratto, le grotte dei loro giardini -, E. Sitwell5 cita un eremita dilettante (siamo nel 1863), che “aveva per i simboli un interesse incurabile e spingeva tal gusto al punto di possedere venti cappelli e venti costumi, ognuno dei quali doveva costituire una strana divisa […] Le forme dei cappelli avrebbero dovuto riflettere, esprimere, simbolizzare non solo i loro nomi ma le verità eterne contenute nei loro nomi o motti”. C’era, per esempio, un costume “strane persone” con “un cappello quasi bianco la cui forma non aveva un interesse particolare perché l’attenzione andava concentrata non su il motto ma sui quattro motti che vi erano fissati, cinti di un nastro nero”. Il primo era “ben nutrito”, il secondo “ben pagato”, il terzo “ben vestito” e l’utimo “tutti al lavoro”.
Le possibilità di stravaganza erano tali che ci si poteva dedicare a guarire qualcuno dalle affezioni del cappello. È quanto scrive ad esempio il poeta parigino Edouard Garnier che incontrò nel 1842 l’editore Hoetzel: “esibiva un porto di cravatte e un cappello di forma inusitata; quanta pena ci siamo data per guarirlo da quel cappello!”

Per questa qualità di blasone sociale e di marca psicologica, referente e delatore di senso, il cappello può diventare nelle locuzioni comuni dell’idioma, affetto del corpo che somatizza la diversità delle passioni, gli affetti dell’animo (attaccare il cappello, rassegnazione; prender cappello o mangiarselo, nell’ira; ecc.).
E, per l’ovvia connessione tra le passione e i valori, ogni copricapo è un valsente: non solo un tropo ma una figura privilegiata per esprimere quel che vale il valore di un soggetto, quindi della stima o della disistima di sé, degli altri e della relazione con loro.
Di qui il posto eminente che occupa nella panoplia delle insegne del potere. Se l’imperatore cristiano (da Ottone I fino all’Austria del 1918) portava sul capo una mitra “berretto appuntito e poi a due punte” cinta da una corona dalla forma presunta delle mura di Gerusalemme6, anche l’Inca del popolo azteco era latore di compricapi insigni: “il simbolo della dignità imperiale era il llautu, treccia di differenti colori, che cingeva cinque o sei volte la testa e fermato sulla fronte da una frangia di lana, la maskapaicha, ogni elemento della quale passava per un tubicino d’oro. Al di sopra s’ergeva una bacchetta sormontata da una sorta di fiocco e da tre piume d’un uccello raro”7.

Per le stesse ragioni, e passioni, il cappello, segno di qualità e di diversità dei portamenti e comportamenti, entra nell’attrezzatura scenica dei riti di passaggio: promozioni e degradazioni come matrimoni, cambiamenti di ceti e stati, supplizi ed elevazioni di grado.
Se allo studente del medioevo o al cardinale viene imposto il cappello (ricordo i cappelli che pendono dal soffitto della cattedrale di Toledo per localizzare i corpi dei prelati, “tornati alla polvere” nell’anonimo carnaio sotto il pavimento), al debitore insolvente veniva imposta la berretta verde mentre eseguiva, nudo, la cerimonia dell’acculattata (batteva il deretano sulle pietre della piazza cittadina, pronunciando: “cedo i beni”). Mentre l’ilota di Sparta era tenuto a coprire il cranio raso – in opposizione alle chiome dei guerrieri – con un casco di pelle di cane (la kuné)8, il liberto romano portava un cappello frigio promesso ad un bell’avvenire. E all’eretico portato al rogo veniva imposto un cappello conico non diverso da quello ad orecchie d’asino che punivano, fino all’altro ieri, lo zucconone nascosto dietro la lavagna.
(Difficile allora sottovalutare la reazione del piccolo Sigmund Freud che, in un affollato marciapiede di Vienna, vede il padre raccogliere senza reagire il cilindro che un passante gli ha gettato via dal capo. Che il cappello sia metonimia della testa, per ciò che vale, sa bene chi ha impiegato la ghigliottina!)

2. Il copricapo di Saturno

Torniamo a Panofski: per l’iconologo il cappello è un formante di personalità. Toglierselo sarebbe gesto filosofico, cioè un sintomo culturale (valore-simbolo per Cassirer): “oltre a costituire un evento naturale che si compie nello spazio e nel tempo, oltre ad indicare naturalmente modi e sentimenti, oltre ad essere veicolo di un saluto convenzionale, […] può rivelare […] tutto quello che concorre a formare la ‘personalità’ […] si distingue per un suo modo individuale di vedere le cose e di reagire al mondo, cioè da qualche cosa che se fosse formulato in termini razionali si chiamerebbe una filosofia”.
E prosegue: “Potremmo anche costruire mentalmente un ritratto della persona sulla base di questo solo gesto […] Tuttavia tutte le qualità che questo ritratto rivelerebbe in forma esplicita, implicitamente sono inerenti ad ogni singola azione e per contro ogni singola azione può essere interpretata alla luce di queste qualità” (:32_3).
Sarebbe questo per Panofski il significato, intrinseco ed essenziale, situato al di sopra della sfera della volizione, dell’intenzionalità del volere9.
Val forse la pena di ricordare, allusivamente, che il cappello, se può significare può anche nascondere: tra i rari cappelli dell’iconografia di Cesare Ripa solo la “Spia”, con la sua veste costellata di lingue e d’occhi, porta la falda abbassata fino a nascondere lo sguardo; con tanto di cappello, tanto d’occhi!

Questa pregnanza del significato ha fatto sì che togliersi il cappello sia stato, in occasioni determinate, un atto di dissenso, un modo di cambiare “ritratto”: ricordo il gruppo dei sinsombreristas, con Dali e Buñuel, che nella Madrid degli anni ’20, marciò, a testa scoperta, fino alla Puerta del Sol. Ritrattare, collettivamente il cappello era, allora, infrangere la convenzione, affermazione performativa della modernità.
Mentre all’amico si cava il cappello, al nemico, potendo, lo si toglie. Questa relazione al valore e al carattere binario e gerarchizzato dei valori spiega come, in più occasioni, non siano state le camicie (rosse, azzurre, nere, descamisados, ecc.) ad opporre gli uomini nel conflitto, ma i colori e la forma dei loro cappelli (nell’Inghilterra puritana, nella Svezia dell’800). All’avversario ci si propone anche di dare un cappello.

D’altra parte quando si vuol prendere un cappello capita spesso di prendere quello altrui. E non solo per pura distrazione o cupidigia travestita da lapsus freudiano. I cappelli hanno i loro saturnali, partecipano ad un processo di doni, di permute e di baratti di indumenti che non hanno attratto abbastanza l’attenzione degli studiosi, storici e etnografi, del costume e della moda. Durante i riti carnevaleschi uomini e donne, adulti e giovani, ricchi e poveri scambiavano e scambiano vesti e i copricapi. Se Carlyle in Sartus Resartus opponeva il cappello delle favole, che faceva viaggiare nello spazio, l’ipotesi di un cappello che annichilisse il tempo10, esistono da sempre copricapi che praticano l’alchimia dell’identità. Con diversi fini: dallo scambio che Van Gennep11 chiamava di “imprecazione condizionale” – per respingere il malocchio all’occasione degli incontri – alla forma di saluto e cerimonia d’integrazione con lo straniero (sono state le prostitute azteche ad adottare il sombrero spagnolo nel futuro abito messicano). E con imprevedibili esiti: ognuno ha davanti agli occhi gli indiani (nord- e sud-) americani con cilindri e bombette e dignitosi signori yankee col capo irto di penne alle feste mascherate (cambiarsi cappello – e nascondere gli occhi – è sufficiente a mascherarsi!). È un cappello da carnevale che portano i clown e i travestiti, o i prosaici impostori (ricordiamo il cappello alla moschettiera che Giuseppe Balsamo portava alla trionfale accoglienza che la città di Straburgo fece al conte di Cagliostro); un oggetto privilegiato per suscitare il riso, come nel rablesiano mito esquimese, raccolto da R. Savard12, in cui il cappello femminile è portato da uomini e usato per antifrasi nelle parti basse del corpo come metafora fecale e sessuale.
C’è un uso ironico del cappello che non è solo nella gag della vanità umiliata (infiniti sono gli scherzi di che si siede sul cappello o lo tratta come recipiente di cucina), ma nella circolazione delle pretese d’identità. Col cappello sono le teste ad essere scambiate. Come la tuba del prestigitatore, il copricapo può farsi cornucopia delle variazioni immaginarie sull’identità.

3. Piccola etica del cappello

Portare il cappello non è solo un evento segnico ed espressivo ma propriamente performativo. Toglierlo – o cavarlo, pubblicamente (curiosamente, un atto maschile!) – è maniera espressiva di civiltà e di rispetto (“riconoscimento di un valore”, dicono i vocabolari, “liberamente scelto e accompagnato dalla decisione di portarsi (fare e non fare) in conformità”); ma anche, nel contatto intersoggettivo, un modo di protezione di sé e degli altri. Qui il cappello, come gli utensili di cucina, la toilette ed altre modalità della cultura materiale sono – l’ha visto chiaramente Frazer – isolanti e mediatori; contro le possibili impurità a cui ci espone l’intrattenerci con gli altri (stringere la mano, offrirsi allo sguardo) e l’interferenza col mondo (con il cibo, ad esempio) vanno predisposte delle tattiche di copertura. L’interazione in effetti è insieme una risorsa e una vilnerabilità ed ogni esporsi è il radicale di una responsabilità. Ci vuole tatto e stile (forma e ritmo) nei giochi di linguaggio e di società.
Ora sembra che esista tra le culture dette “primitive” e quelle dette “avanzate” un’inversione singolare nel galateo del cappello. Le prime, secondo Lévi-Strauss, presentano una “filosofia indigena d’impressionante unanimità”. Il cappello vi si porta per proteggere gli altri e la stessa natura dalla propria impurità, dai rischi in cui questi incorrono nell’aver a che fare con una interiorità pericolosamente “carica”. Nelle Le maniere a tavola13, i Tlingit d’Alaska, ad esempio, giustificherebbero l’uso del cappello femminile a larghe falde durante il periodo mestruale per impedire alle donne di rivolgere gli occhi al cielo, provocando negativi fenomeni celesti; la tribù dei Carrier farebbe lo stesso con cappucci e visiere di piume. Il copricapo è quindi un piccolo “mitogramma” che oltre ad isolare e a trasformare le energie, detta i criteri di misura e di giusta durata (quanto e quanto fissamente è legittimo guardare? Falde – e ventagli – sono un modo di regolare i moti vulnerabili e aggressivi dello sguardo?).
È chiaro che questa “maniera” inverte punto per punto i nostri modi (di fare e d’essere). Per noi il cappello – come i guanti e le vesti, le posate e gli oggetti da toilette – difende invece la nostra purezza dall’impurità altrui. Per noi, società dell’allergia, l’enfer c’est les autres mentre per il “selvaggio”, l’inferno è in lui stesso. È da questo che il suo cappello vuol preservare noi.

È più d’un esotismo etnografico, è un richiamo antropologico che a partire dall’etichetta viene all’etica. Il vero tatto è quello che salvaguarda il diritto dell’altro e la discrezione andrebbe esercitata anche davanti al proprio io? L’io discreto (Gratian) dovrebbe abbassare la falda del suo cappello davanti a se stesso?
Cosa può accadere allora quando le culture “primitive” e quelle che pretendiamo civili scambiano i loro copricapi? Con una inversione ironica, noi accettiamo dagli altri i cappelli che ci offrono per proteggerli, ma solo per salvaguardare noi stessi. Invece offriamo i nostri col timore di esporci a quella impurità alla quale essi sono persuasi d’esporsi.
Dal labile incanto delle maniere, i civili giochi di parvenza della cortesia – così priva di scopo e piena si senso -, ci giunge forse, attutita dalla metafora “selvaggia”, una domanda sulla morale d’ogni incontro tra gli uomini e le cose. La considerazione dell’altro non può non venire prima di noi stessi. Dobbiamo essere l’altro di noi stessi per meritarci la nostra stessa stima e cortesia14?
L’umanità, nella grammatica dell’interazione15, non consisterebbe nel tirare il cappello ai valori umili della natura, degli animali e degli uomini e nel calcarlo davanti ai pari e ai superiori?
Questioni superflue in una società che si pretende senza differenze (opportunità eguali) e senza cappelli?

Lascerò la parola, penultima, a Panofski. In apertura del testo che comprende il saggio già citato, lo storico dell’arte ricorda l’incontro tra Kant e il suo medico, poco prima della morte del filosofo. “Benché vecchio, malato e quasi cieco [Kant] si alzò e rimase in piedi, tremando per la debolezza e mormorando parole incomprensibili. Alla fine il fidato amico comprese che egli non si sarebbe seduto finché anche lui non si fosse accomodato. Lo fece ed allora Kant si lasciò accompagnare alla poltrona e ripreso fiato osservò: ‘Il senso dell’umanità non mi è ancora venuto meno’. I due uomini erano commossi fino alle lacrime” (:5).
Sono quasi certo che il medico di Kant avesse – sul capo? in mano? – un cappello.


Note

  1. Panofski E., Il significato nelle arti visive, cap. “Iconografia e Iconologia. Introduzione allo studio dell’arte del Rinascimento”, Einaudi, Torino, 1962. torna al rimando a questa nota
  2. Huizinga J., Homo Ludens, Einaudi, Torino, 1973. torna al rimando a questa nota
  3. Sui codini come metafora artistica vedi Gombrich E., A cavallo di un manico di scopa, cap. “Della percezione fisiognomica”, Einaudi, Torino, 1971. torna al rimando a questa nota
  4. Balzac, Le cousin Pons. torna al rimando a questa nota
  5. Sitwell E., English Eccentrics, cap. 2 “Vegliardi ed eremiti Ornamentali”, Londra, 1933. torna al rimando a questa nota
  6. Schramm P. E., Herrschaftszeichen und Staatsymbolik, 3 voll., Stuttgard, 1954-57. torna al rimando a questa nota
  7. Metraux G., Gli Incas, Einaudi, Torino. torna al rimando a questa nota
  8. Vernant J. P., L’individu, la mort, l’amour, cap. “L’identié du jeune Spartiate”, Gallimard, Paris, 1989. torna al rimando a questa nota
  9. “Lo si può definire come un principio unificante che sta dietro e spiega tanto l’evento visibile che il suo significato intelligibile e determina persino la formula in cui l’evento visibile si configura” (:33). torna al rimando a questa nota
  10. Carlyle T., Sartor Resartus. Filosofia degli abiti, cap. “Sovrannaturalismo naturale”, Novecento, Palermo, 1985. torna al rimando a questa nota
  11. Van Gennep A., I riti di Passaggio, Boringhieri, Torino, 1981. torna al rimando a questa nota
  12. Savard R., Le rire precolombien, L’Exagone, Montréal, 1977. torna al rimando a questa nota
  13. Lévi-Strauss C., Origine delle maniera a Tavola, cap. “Le regole del saper vivere”, Saggiatore, Milano. torna al rimando a questa nota
  14. Simmel G., Forme e giochi di società, cap. “La socievolezza”, Feltrinelli, Milano, 1983. torna al rimando a questa nota
  15. Goffman E., Il comportamento in pubblico, Einaudi, Torino. torna al rimando a questa nota
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