Difesa della grammatica?!


Da: Alberto Asor Rosa et al., Lingue, Stampa alternativa, Roma, 1998, pp. 76-95.


Nella mia relazione vorrei affrontare alcuni problemi di buone maniere a partire dall’insinuazione, che dichiaro fin dall’inizio, che la grammatica sia parte sostantiva della questione delle buone maniere. Ho cercato di riflettere sulla questione generale della grammatica anche se molto spesso – mentre i filosofi hanno il privilegio di porre questioni fondamentali del tipo: “Perché la grammatica?” – chi lavora all’interno di un paradigma può rinunciare, a volte vantaggiosamente, a volte perdendoci qualcosa, a porsi la questione in termini astratti.
La domanda filosofica è quel tipo di domanda che non si dovrebbe porre o che la gente pone scusandosi di averla posta – non l’ho detto io, l’ha detto Valéry – e alla quale però, una volta posta, non si può non rispondere. Ho tentato allora — frugando un po’ nel campo figurativo – di domandarmi che immagine mi faceva venire in mente la grammatica. Da qualche parte sono cosi saltate fuori – per associazione pura, scorrendo le informazioni iconografiche stoccate da qualche parte in qualche vecchio ricordo – le immagini della definizione retorica della grammatica rappresentata nelle iconografie tradizionali. Si tratta di una signora — e questo è già interessante – piuttosto grande, tiene nella mano destra e nella mano sinistra due bambini piccoli e frignanti, il che potrebbe essere facilmente giustificabile, ha sparsi lungo il proprio vestito, e questo forse è pili bizzarro, una quantità straordinaria di forbici: una signora con bambini che piangono con tante forbici dipinte sul vestito. Questa immagine riassume una grandissima parte degli atteggiamenti verso la grammaticalità avvertendoci che la grammatica dice la verità nella lingua, dice coerentemente e pertinentemente come è la lingua, quale è la forma della lingua.
In fondo anch’io lavoro in una direzione di questo genere e non vorrei nascondermi dietro le distinzioni linguistiche tradizionali, per questo ho provato a pensare al fondamento della questione. È chiaro che siccome quasi tutte le domande – dicono i linguisti – sono già delle risposte date a dei problemi, e quindi le risposte alle domande sono risposte che si danno altre risposte, mi è immediatamente venuto in mente che porre la questione rinviava di nuovo à delle domande tipo: come è fatta questa grammatica? Come sarà costruita? Come si è costruita storicamente?

Allora, prima questione: perché la grammatica avrebbe privilegio sulla verità della lingua? E, se è possibile, come costituirla? Non voglio sfuggire al problema ricorrendo alla distinzione tra regole normative e regole costitutive. Faccio un esempio, quello del football: giocarlo in un certo modo, per esempio giocarlo con un catenaccio pesante piuttosto che con la palla è cosa che, anche se non si fa, è una decisione che influisce sulla normatività del gioco. Il fatto che quando la palla ha attraversato la linea di porta è gol, questa è una regola costitutiva del football, mentre giocarlo in un modo o nell’altro, con la palla o il catenaccio, questa è una regola semplicemente normativa. Il trucco oggi sta nel dire che è possibile studiare le grammatiche come regole costitutive, cioè regole senza le quali non si gioca al gioco della lingua. Immaginate di giocare a poker e che qualcuno improvvisamente decida, per esempio, non di parlare mentre si gioca, che non si fa – regola normativa – ma di fare le scale con dei buchi, o di dire che i tris sono fatti con due figure – regola costitutiva. Per un certo periodo ci siamo nascosti dietro questa ipòtesi dicendo: esistono regole costitutive, se sono di una grammatica descrittiva, costitutiva, ed esistono regole che invece insegnano, ad esempio “non si cominciano le frasi con il gerundio”, che non sono costitutive, ma normative. Per un po’ questo ha rasserenato tutti, abbiamo detto: “Va beh, noi studiamo il costitutivo. Ài professori di scuola media il lavoro sul normativo”. Ipocrisia straordinaria, sulla quale vorrei attirare l’attenzione. Tutte le volte che siamo andati a guardare con una certa sottigliezza dove risiedeva questa distinzione tra normativo e costitutivo, tutte le volte che si è tentato di materializzare dentro a degli esempi questa distinzione, non ci siamo riusciti: in qualche misura nella lingua la normatività è iscritta. Questa è una prima ipotesi, un po’ pesante.
L’altra questione — forse la più seria da porre – non è tanto che la lingua è in qualche modo necessariamente normativa, ma che tipo di atteggiamento dobbiamo avere verso i parlari. Il grande problema è infatti: che cosa è la lingua? Noi diciamo spesso che la grammatica è un modo di trattare il linguaggio e ce la caviamo cosi, ma che cosa è il linguaggio? Voi direte: “Oddio, il professore tipico sta prendendo la classica rincorsa per cui risaliremo da che cosa è la lingua, che cosa è il linguaggio, a chi siamo, dove siamo, dove andiamo a finire, ecc. e non torneremo mai ai nostri oggetti!”. Prometto di no, poiché questo quesito è costitutivo del mio problema.
Dicevamo dei parlari: la gente parla, dice delle cose, comunica, tra l’altro, a metà con le parole, coi gesti, col corpo, con le intonazioni, coi vestiti, con l’odore e cosi via. Noi ritagliamo degli eventi che sarebbero specificamente linguistici e questa è già una astrazione molto forte; ci sono ad esempio delle difficoltà straordinarie a distinguere le dimensioni della intonazione che sono intonazionali e non linguistiche da altre dimensioni intonazionali, che servono poniamo per dividere le frasi, e sono invece costitutive della morfologia linguistica. Esistono forme di intonazione che non hanno parte nella morfologia e altre che sono linguistiche in senso forte. Tracciare il confine non è tuttavia semplice, si tratta di una decisione, siamo noi che abbiamo deciso che alcune parti della lingua sono grammaticali mentre altre non lo sono. All’interno dei parlari infiniti che ci circondano – rumori, borbottii, affermazioni, – abbiamo deciso che alcune cose sono lingue. Quando la domanda è: “Quali lingue?”, la risposta imbarazzante è: “Quante lingue?”. Già, perché c’è una domanda da fare e alla quale occorrerebbe rispondere: “Quante lingue ci sono nel globo?”, dicono: “Quattro, cinquemila”. Interessante.

Proviamo a chiederci quante sono le lingue romanze e scopriremo che ci sono polemiche e discussioni accese tra gli studiosi. Si va da un numero di quattro – italiano, francese, portoghese, spagnolo – fino all’ipotesi che siano ben trentasei, dipende dai tipi di parametri, dagli elementi di cui teniamo conto.
Dunque la decisione di quante sono le lingue è una decisione presa teoricamente, costruita in base a dei parametri. Non esistono lingue, esistono dei parlari sui quali i parametri hanno esercitato la loro capacità costruttiva, dopo di che è stato compiuto un ulteriore passo, straordinario, consistito nell’affermare: “Sotto tutte queste lingue c’è la facoltà del linguaggio”, che però non si sa se coincida con i parlari – cioè tutto quell’insieme di discorsi, rumori, borborigmi di cui vi dicevo – o se sia qualche cosa di diverso. Sapete che rispetto al linguaggio è molto difficile stabilire quando siamo fuori, quando siamo dentro; è un po’ come le città moderne, le città americane per esempio, c’è scritto City limits, ma in realtà non si capisce bene quando stai dentro o quando sei già uscito. Confesso che sono affascinato dai filosofi che dicono: “Il linguaggio è la casa dell’essere” perché non sanno che cosa è l’essere ma vorrebbero metterlo almeno in qualche casa. Io che non so neanche come è fatta questa casa, quando ci si entra e quando se ne esce, resto affascinato.

Allora, il problema è il linguaggio, il linguaggio è questi infiniti parlari. Abbiamo detto che sui parlari si opera una decisione e che ci sono delle lingue con dei parametri. Volete un esempio famoso? Due esempi: primo, la distinzione tra semantica e grammatica; secondo, la distinzione tra vocali e consonanti. Voi ritenete che esse siano realtà fisiche, ascoltabili, ebbene, tutti i grandi costruttori di grammatiche sanno che non c’è nessun parametro grammaticale che non sia già semantico. La distinzione tra il maschile e il femminile si fonda su un parametro grammatico o semantico? E senso oppure morfologia? Il plurale e il singolare: grammatico o semantico? Dipende. A certi livelli alcuni elementi come il maschile e il femminile – che sembrano comunque semanticamente abbastanza pesanti, soggetti a discussioni interessanti – sono solo pura forma. Alcuni sostengono e credo con ragione che l’opposizione maschile/femminile in italiano non è pertinente come tale. Le femministe tuttavia credono il contrario e hanno ragione probabilmente, ma un linguista ha il dovere di ricordare che la sparizione del neutro nel passaggio dalla lingua latina alla lingua italiana ha fatto si che tutte le forme neutre, o quasi tutte, siano state investite del maschile. Questo non vuol dire che la gente non ha ragione di riconoscere che il maschio è maschio, anche laddove in realtà è un neutro travestito.
Ma ritorno al mio problema: la distinzione tra consonanti e vocali. È evidente, no? Si, e le liquide? Eh, le liquide sono vocali consonantiche e sono consonanti vocaliche. Ci sono alcuni elementi a cui non sappiamo cosa attribuire, abbiamo solo parametri che decidono che queste sono consonanti e le altre sono vocali. E le parole? Qual è il criterio di delimitazione delle parole? Se ne è discusso molto. Ci sono dei parametri: prendete “pomodoro” – che è una parola seria – e poi dite “non si declina” e aggiungete “pomodori” si dice, “pomidoro” non si dice, ma, attenzione, alcuni lo dicono. Nella lingua si formano delle aggregazioni che a un certo punto ci consigliano di dire che sono declinabili oppure al contrario indeclinabili, abbiamo dei criteri e dei parametri. Vi faccio un esempio: è difficile che voi diciate la “di duro ferro via”, o “di duri ferri via”. Ci sono cioè – e si individuano con un test molto banale di declinabi-lità – alcuni elementi della lingua che una volta aggregati diventano, come dicono gli americani o gli inglesi, degli “idioms”, degli idiomi, che diventano cioè, per cosi dire, concreti e non più attraversabili dal gioco della declinazione e della coniugazione. Insomma, le parole non ci sono, si fanno. C’è un farsi delle parole. Pensate ad esempio alla complessità delle distinzioni tra forme verbali, nominali, ecc. In breve: ci sono dei parametri di costruzione di quello che noi consideriamo che sia lingua.

Il problema serio – e ci tornerò – è allora soltanto questo tipo di linguaggio, questo tipo di tecnica descrittiva che può dire la verità sulla lingua? Chi insegna può in qualche modo dire che la grammatica è il solo modo di costruire questo oggetto dei parlari, di dargli delle regole per tentare di spiegare all’altro che qui è la verità del dire? La mia risposta è chiarissima e serve, secondo me, per sfumare le mie affermazioni successive sulla necessità della grammatica, ed è: no. Non c’è nessun privilegio della descrizione linguistica formalizzata o meno sulla verità del linguaggio: la poesia, i sogni, le chiacchiere hanno sulla verità della lingua lo stesso diritto. Non voglio fare lunghi discorsi di epistemologia perché so che essa è cosi alla moda che forse merita di passare di moda, dirò semplicemente che una delle cose che distingue la moderna scienza grammaticale, che è assai modesta, è quella di dire che la grammatica ha delle caratteristiche scientifiche solo perché guarda un oggetto che si è costruito e che il grammatico è qualcuno che fa uso di un certo numero di strumenti che sono sottoposti a due regole: la scrittura – cioè la necessità di regole di scrittura ripetibili e uniformi, poiché non c’è vera analisi grammaticale se non c’è in qualche modo scrittura formale e la adeguatezza e la verità del modello. Le scienze moderne, mi pare, richiedono da Galileo in poi queste due regole, minime (so che c’è ben di pili, ma non voglio ora affrontare la questione): scrivibilità formale, cioè la scrittura – oggi la grammatica è una forma di scrittura – e la forma di adeguatezza e di validità che rende conto di dati, dati non visti, non osservati. Per il resto la grammatica non ha altra signoria sul linguaggio, e il linguaggio può dire, per altre vie, cose piti serie e pili profonde di quanto non si possa immaginare.

Detto questo, chi come me sceglie la via di dire la verità sulla lingua, o crea — come mi sembra più interessante dire – effetti di verità sulla lingua, deve fare una ipotesi strettissima che io vi enuncio in modo brutale al fine di permettere una discussione pili chiara. La grammatica si fonda sull’idea che non si può dire tutto, che ci sono delle cose che non si possono dire, al contrario non abbiamo possibilità di alcuna analisi grammaticale se ipotizziamo che il linguaggio serva a dire tutto quanto. Una volta che abbiamo detto che il linguaggio è non tutto, cioè che la grammatica è un modo di riflettere la realtà che non è tutto dicibile, subito dopo dobbiamo aggiungere che — e questa regola sono disposto a discuterla perché è deontologica, ma è anche etica e forse ontologica – la grammatica deve dire tutto sul fatto che non si può dire tutto. Ecco, sono molto soddisfatto di essere arrivato a questo slogan, che in realtà — a parte che potrebbe far vendere dei cioccolatini e delle automobili in mano ad una persona pili abile di me – è un buon modo di porre le basi per la discussione.
Primo: non si può dire tutto, se tutto si può dire non c’è grammatica possibile. Secondo: una volta impegnati nella via della descrizione grammaticale dobbiamo dire chiaramente e regolarmente tutto su quel tutto che non si può dire. Dico bene?!
Mi richiamo a un vecchio dibattito e dò subito un paio di esempi, perché so che è sconfortante sentire dei ragionamenti di teoria grammaticale senza potersi un po’ accapigliare sugli esempi, però attenzione perché discuterò anche di questa questione degli esempi. Il primo esempio riguarda un dibattito antico che credo utile ricordare nonostante molti, irritandomi, sostengano che tutto sommato si può costruire il presente dimenticando completamente il passato, mentre bisogna piuttosto ricostruire il passato dimenticandosi che in passato hanno fatto gli stessi sbagli che noi facciamo oggi. Tra i latini ci fu un grande dibattito tra gli anomalisti e gli analogisti. Riassumo rapidamente le loro posizioni. Analogisti: la lingua è un sistema di parlari su cui noi possiamo costruire degli effetti di analogia; lavoratore, tutore, tutti i finali in “ore” hanno un sapore di agente; dentista, semantista – non semantore – eccetera. Creiamo dei paradigmi, creiamo delle analogie, e su questa base individuiamo delle regolarità, supponiamo, cioè, che tutta la lingua sia pervasa di regolarità. Ecco perché dobbiamo dire tutto su quello che non si può dire. La nostra posizione — la posizione del grammatico – è necessariamente all’inizio una posizione analogistica, nel senso latino; riteniamo che sia possibile formare delle classi, dire che ci sono classi che si comportano nello stesso modo, cioè che ci sono dei nomi, cose che sembrano verbi ma che prendono l’articolo e allora si comportano distribuzionalmente, in un certo modo. La grammatica crea delle classi per analogia e sostiene che l’analogia è, in qualche misura, un modo per organizzare una coerenza dei discernibili che si possono discernere nell’unità e che si possono trovare delle coerenze organizzagli.
Voi direte: “Sta dicendo delle banalità”. Tutti sanno che fino da Aristotile si è sempre pensato che esistevano delle parti del discorso, delle unità, delle sillabe, dei fonemi; come si sarebbe potuta pensare la scrittura se non alfabetica, se cioè non avessimo preliminarmente e implicitamente operata una distinzione fonetica: chi ha inventato la scrittura – fonetica, intendiamoci – ha in qualche modo preventivamente scomposto la lingua in suoni. Dunque, si è sempre saputo che le sillabe, le parole, le parti del discorso esistono, i discernibili ci sono, perché Fabbri viene a raccontarci che esistono i discernibili? Perché esiste un’altra possibilità. C’è la possibilità dall’anomalista.
L’anomalista fa una ipotesi molto interessante – che mi interessa anche per altre ragioni – che è questa: non ci sono regole nella lingua. I parlari sono eventi unici, niente è riproducibile, non si parlerà mai come si è parlato prima. Il che non è falso se pensiamo all’aspetto combinatorio della parola: con quaranta carte e le poche regole della briscola, non giocherete mai la stessa partita. È quindi legittimo sostenere: “Non c’è mai una combinazione uguale a quell’altra”. Ma se le cose stanno cosi, come è possibile ricostruire dalla combinatoria le combinazioni? Come è possibile a partire dagli infiniti errori dei professori di matematica, degli studenti di matematica, risalire alle regole della matematica? Gli anomalisti non hanno torto, dicono – giustamente, forse – che la parola “pediatra” e la parola “dottore per bambini” non sono la stessa cosa: non le usano le stesse persone, non le usano nello stesso contesto, e cosi via. Ci sono fondamentalmente due posizioni: una è quella analogistica della grammatica, che permette le classi, la formazione dei discernibili, le commutazioni; l’altra è quella degli anomalisti, che affermano: “Noi siamo per la libertà!”.
Gli analogisti, poiché ritengono possibile stabilire delle classi, sono considerati dei tipi oppressivi che cercano di farvi credere che gli insiemi di classi da loro formati sono giusti, mentre invece non è vero.
Vorrei prendere la difesa degli analogisti – anche perché io sono fra gli analogisti – e portare una ferma accusa agli anomalisti, che pretendono di essere, per cosi dire, libertari, mentre sotto spesso i più passivi nei confronti dall’autorità.
Cominciamo dalla difesa dell’analogista. Guardate che l’analogia non è sempre vera; le costruzioni grammaticali – il fatto che noi, per esempio, mettiamo insieme delle forme e le organizziamo una rispetto all’altra – non sono affatto esatte e molto spesso la grammatica passa il tempo ad evolvere e a cambiare le proprie ipotesi.

Quando Montale – mi scuso dell’esempio forse un po’ scontato—scrive: “Scordato strumento cuore”, in qualche modo ha capito che “scordato” vuol dire “scordare” e anche “senza corde”, ma anche che dentro la parola “scordato” c’è “cors cordis” o “cuor dei cuori” — considero l’esempio kitsch, l’adopero per questo, gli esempi della grammatica lo sono spesso -, in qualche modo fa cioè un’operazione da analogista, crea una sorta di paradigma di classi: la poesia lo fa e anche l’etimologia lo ha sempre fatto. Solo che la pretesa – e questo secondo me è più interessante – non è di dire la verità della lingua, ma di dire qualcosa di più: il futuro della lingua. Come sanno benissimo la maggior parte degli storici della lingua, la lingua evolve non per il rigoroso riconoscimento dei propri funzionamenti scientifici ma al contrario in virtù dei cosiddetti sentimenti di etimologia popolare della gente. Volete un esempio che mi ha fatto morire dal ridere negli Stati Uniti? Un giorno ho aperto una specie di giornalaccio, giusto per passare il tempo, dove c’era scritto: “Mangiate vegiaroni”. Vegiaroni? Che cosa sono? E c’era un cuoco italiano, con in testa una grossa cosa tricolore per essere sicuri che fosse facilmente riconoscibile, che offriva un piatto di maccheroni, di pasta con la verdura. Mac-caroni, togliete il mac, che come noto è Mac Pherson, Mac X o Y, e ottenete Vegiaroni. E già – ho detto io – e perché non Fisharoni? La pasta con le sarde. Ho pensato: “Strano, curioso, creativo”. L’ho detto a un mio amico che ha osservato: “Ma è normale, pensa a jobaolic“. “Eh, ma cosa è jobaolic?”. Facile. Prendete alcoolic, togliete “ale” e mettete job= lavoro, aggiungete aolic, avrete jobaolic – ubriaco di lavoro.
Sono molto ammirato davanti a questa capacità degli americani di affrontare il ridicolo in fatto di lingua. Comunque sia, questo gioco analogista è creativo, e l’analogismo nella lingua non procede soltanto come un fenomeno scientifico, al contrario, funziona come un fenomeno creativo capace di fare progredire la lingua. Allora si rende necessaria la difesa dei creatori di classi, ma creatori di classi sono allo stesso tempo i grammatici e i poeti. Forse non tutti saranno d’accordo, speriamo almeno.
Veniamo ora ai cosiddetti libertari della grammatica, gli anomalisti. L’idea degli anomalisti è molto semplice: tutto può essere detto. D’accordo, è vero. Oggi — tenterò di spiegare il perché – c’è una ondata anomalistica in grammatica.
L’idea che tutto può essere detto è un buon principio per mettere in crisi le grammatiche normative, e va quindi praticato spietatamente, aspettandosi però delle risposte corrette. Occorre, una volta stabilito che non è cosi’, non è cioè dandosi le regole che noi vogliamo che si saprà come funziona la lingua, tentare di dimostrare come funziona. Accetto tutte le sfide del tipo: “Cosi può essere detto”, perché mi sembra una buona regola per far funzionare la conoscenza, però voglio che dopo cerchiamo di vedere il perché la tale o talaltra cosa può essere detta.
Vi dò due o tre esempi, se non vi dispiace. Un classico esempio dei libri di linguistica: “Il cane si sparpagliò sul pavimento”, “Uhm, non mi piace ‘sparpagliò’ per i cani”, eccetera, eccetera. Ho scelto questo esempio perché ho un amico che essendo stato in Cina dove mangiano il cane e dove – come sapete molto bene — tagliano e cucinano dentro la cucina e portano fuori il cibo già tagliato, mi ha fatto osservare che è sufficiente fare inciampare il cuoco cinese e immediatamente il cane si sparpaglia sul pavimento. Il problema che il cane è insecabile in italiano è un problema molto serio, tuttavia se voi ammettete che il cane sia in altre pratiche secabile, ecco che potrà sparpagliarsi. Non vi offenderà affatto la frase “Il vitello si sparpagliò sul pavimento”, vi dispiacerà magari, tuttavia se accettate l’ipotesi che si possa comprare un carissimo vitello – costa una fortuna —, che ci si possano fare delle polpette e che esse poi improvvisamente possano cadere sul pavimento, ecco che “il vitello mi si è sparpagliato sul pavimento” è un’espressione che va benissimo. Cioè, in poche parole, gran parte di quelli che noi consideriamo fenomeni agrammaticali o asemantici e asterischiamo astutamente, vanno sottoposti a critica; per questo l’anomalista ci è sempre molto utile, dovremmo avere – un po’ come qualcuno diceva che bisognerebbe sempre avere la morte per consigliera – l’anomalista come consigliere, cioè qualcuno che è la morte delle regole grammaticali, che però dobbiamo continuare a stabilire.
Ho interrogato alcuni amici anomalisti e gli ho chiesto: “Senti – torniamo al mio problema del secabile e dell’insecabile – la parola ‘uno’ secondo te è determinata o indeterminata?”, “Oh, indeterminata.”, “E ‘il’ come è?”, “Determinato.”, “E ‘Qualcuno’, ‘qualcosa’? Sono determinati o indeterminati?”, “Ma dai Paolo, insomma, è chiaro.”, “Va bene. Ma come mai si può dire: ‘E arrivato con qualcosa?’ o, di un certo numero di persone: ‘Ci deve essere qualcuno’? Come mai potete dire: ‘Ah, quello si che è qualcuno’? Ah, quella si che è qualcosa’? Come mai gli stessi elementi indeterminati possono essere usati come elementi determinati? Questo mi interessa”.
Altra questione – altro esempio, anch’esso abbastanza banale – provate a fare il morfologo, quello che sarebbe il vero grammatico, prendete il verbo “credere” – verbo assai imbarazzante, sapete che “credere” vuol dire “avere un’opinione” e “credo” vuol dire “ci credo” -“Io credo che…”, cosa vuol dire? Vuol dire che in qualche modo voi avete una opinione, positiva o negativa, certa o incerta, circa la verità di una proposizione oppure che siete fermamente convinti della sua verità? “Credo che il tipo sia fuori dalla porta”, non siete sicuri però c’è un fatto, che il tipo è fuori dalla porta. Declinate: io credo, tu credi, egli crede, noi crediamo, voi credete, essi credono. Ora sentite questa: “Loro credono che ci sia qualcuno fuori dalla porta”, pensateci bene, questo significa che loro lo credono ma non è mica vero! Quando passate, per pura declinazione grammaticale, al presente, il più semplice dei tempi, dall’io al termine finale vi accorgete, non senza imbarazzo, che mentre “io credo” vuol dire – mi scuso di accumulare questa specie di gabinetto delle meraviglie della grammatica, ma è per fare un esempio e si potrebbero moltiplicare a centinaia -che credo a qualcosa che è certamente successa anche se io sono dubbioso, mentre invece “loro credono” significa che si sbagliano e io so che si sbagliano.
Un altro esempio quando si dice: “Luigi sa che…” o “Luigi sa se…”. Questo esempio è tratto dai vecchi dibattiti grammaticali che provocano interventi con penne blu e rosse, ferocissimi, sette meno meno meno meno, sei più, sei e mezzo, eccetera. Concedetemi di dire di sfuggita che questa questione del voto è interessante perché ci sottopone il problema della gradazione della grammatica, se fosse vero che tutto è grammaticale o non grammaticale i voti sarebbero semplici, zero o dieci, siccome invece la grammatica non è cosi e procede per distinzioni tra accettabile o inaccettabile, proprio o improprio, allora passiamo dalla categorizzazione al gradiente, per questo i pili, pili, pili e i meno, meno, meno non sono cosi stupidi. “Luigi sa che…”, “Luigi sa se…”, queste opposizioni sono fortissime, tuttavia questa stessa opposizione tra il “se” e il “che” sparisce quando la persona che parla è “io”: “Io so che verrò”, “Io so se verrò”. In questo caso le connotazioni diventano molto più imbarazzanti, mentre la terza persona non crea problemi; perché? Per la semplice ragione che chi dice: “Luigi sa che…” o “Luigi sa se…” è lui che sta parlando del fatto del suo sapere quanto al sapere di Luigi, per cui avete: “lo so che Luigi sa che…”, cioè Luigi lo sa e io so che lui lo sa, mentre quando dico: “Io so che Luigi sa se vuole andare o non vuole andare”, allora lui lo sa, ma io non lo so. Vorrei che poneste attenzione su questo fatto perché è carino, nice come dicono gli americani. Cosa è carino? E carino il fatto che la distinzione tra il “che” e il “se” – che è fondamentalmente morfologica – nel caso dell’io sparisce, perché c’è coincidenza fra il sapere di chi parla e il sapere dell’attore che parla e quindi: le differenze morfologiche a certe condizioni sono neutralizzate.
Si è dunque dovuti passare dall’idea che esistevano delle frasi, che erano niente altro che delle somme di parole, all’idea che le frasi hanno una struttura. In seguito si è formulata la tesi che le frasi hanno degli enunciatori e che gli enunciatori si marcano nella lingua; di qui l’interesse per i pronomi, che coinvolge molti pensatori, da Martin Buber fino alla teoria del dialogo di Bachtin. L’attenzione ai fenomeni pronominali oggi è dovuta al fatto che il pronome rappresenta quella zona della lingua che porta iscritta il soggetto che parla. Il soggetto è rappresentato nella lingua morfologicamente; il pronome è la forma del soggetto parlante. Non solo, ma ci si accorge che è molto difficile dare dei giudizi sulle frasi se non ci sono delle ipotesi essenziali su a chi quella frase in qualche modo risponde. Esempio: per lungo tempo dopo Aristotele ci si è affaticati sulla frase “Quello non è un bicchiere”. Qual è il valore di verità della frase: “Quello è un non bicchiere”? La risposta è: “La frase ‘Quello è un non bicchiere’ non ha senso, salvo che per il fatto essenziale che risponde a qualcuno che ha detto ‘Guarda, quello è un bicchiere'”. La maggior parte delle frasi che noi isoliamo costituiscono in realtà o anticipazioni di risposte che si vogliono, o risposte precedenti. Molto spesso delle cosiddette asserzioni non sono affatto asserzioni sul mondo, ma risposte implicite a domande che vengono fatte, o a domande che potevano essere fatte, o addirittura sollecitazioni di risposte future.
Questa è la prima scoperta, banale: la lingua è inserita in una dialo-gicità fondamentale, marcata molto spesso morfologicamente dalla struttura dei pronomi.
Seconda scoperta: la maggior parte degli usi reali della lingua è indiretta. La lingua non dice mai quello che dovrebbe dire, nella maggior parte dei casi noi non dichiariamo banalmente il mondo, ma utilizziamo delle strategie che sono in realtà indirette. Questo è un fenomeno di assoluto interesse, che tende un po’ a mettere in ombra la grammatica, ma che in realtà prelude, a mio avviso, a una grammatica più complessa, che tento di delinearvi molto rapidamente. Siamo dentro a una sala, per esempio, fa caldo e diciamo: “Vorremmo che qualcuno aprisse la finestra”. Non diciamo mai “Apri la finestra!”, perché la vita è complicata, le relazioni fra le persone sono complesse, la gente è suscettibile, l’altro ha la sua dignità. La frase dunque è: “Che caldo che fa”, che non è falso, anzi. Io cito sempre un esempio personale: vivevo ad Urbino con una amica e la nostra vita era tutta fondata su frasi constatative all’indicativo di questo genere: “Ieri ho portato fuori l’immondizia”, che significa: “Oggi la porti tu”.
Ora, la questione interessante è l’avere scoperto che noi diciamo la verità sulla lingua in forma diretta soltanto in casi di assoluta e totale necessità, cioè, o quando ci diamo delle costruzioni logiche o in casi nei quali proprio non se ne può fare assolutamente a meno. È una scoperta, a mio avviso estremamente produttiva, della linguistica moderna.
La maggior parte della lingua è indiretta. Perché è indiretta? Si afferma che la lingua serve per dichiarare il mondo, ma non è vero: la lingua serve per dichiarare il mondo una volta che siano stati regolati i problemi con gli altri. Il mondo riprende i suoi diritti soltanto a condizione che la relazione con l’altro sia stata risolta, allora il mondo riaffiora nella sua desolata e spesso grama banalità: “Porta fuori l’immondizia”. Voi sapete che c’è l’intonazione; “Porta…” chi l’ha detto che è un imperativo? “Porta…” è un suggerimento, un auspicio, una sollecitazione, un invito; in altre parole si è passati dalla morfologia dei modi a una tipologia degli atti. Allora si è scoperto che con l’indicativo si danno gli ordini, per esempio “Oggi ho portato fuori, io, l’immondizia” significa “Oggi la porti fuori tu!”, è un ordine, non è un indicativo.
Le interrogative sono una cosa terribile, l’interrogativa “Sei d’accordo?” spesso vuole dire: “Se non sei d’accordo ti scanno”. Allora, insisto, l’idea è quella di passare da una lingua concepita morfologicamente in termini di modi – anche se è vero che noi ne facciamo uso – ad una tipologia di azioni verso gli altri; a questo punto entrano in gioco – lo avevo pronosticato – le buone maniere.

Sto facendo un corso a Parigi – dico a Parigi perché è un paese di scortesia estrema, non per vanità – dove sostengo che le buone maniere sono costitutive. Quando dico le buone maniere non sto parlando di balletti.
Bergson – che è uno studioso a mio avviso meno stimato di quanto meriterebbe – sosteneva che ci son tre modi di buone maniere: il primo sono le gesticolazioni, che si eseguono perché si devono eseguire in determinate circostanze, il secondo è la dimensione estetica, lo stile, il terzo, nel quale entra in gioco qualcosa di pili delle buone maniere, di pili profondo e serio, è il rispetto dell’altro, o meglio, il rispetto di se stessi nella relazione con l’altro. Non vorrei aver l’aria di moralizzare, quindi abbasso subito il tono. Quando io dico all’altro: “Fa caldo qui”, gli sto dando la libertà di scegliere, di non prendere questa mia affermazione come un ordine.
In circostanze come questa – o come quella di prima, quella dell’immondizia – sto però dando anche a me un’astuta, diciamo, copertura. Se l’altro cioè mi dice: “Guarda che io so benissimo che tu sei un manipolatore e mi vuoi far portar fuori l’immondizia, ma io l’immondizia non la porto fuori”, io posso sempre rispondere: “Io non ho detto che devi portar fuori l’immondizia! Ho detto soltanto in questo momento che io ho portato fuori ieri l’immondizia”. In altre parole, l’interazione linguistica serve non solo ad avere tatto verso l’altro, ma anche ad avere tatto verso se stessi.
A questo punto voi direte: “Mi scusi ma lei dove vuol trascinare la grammatica?”. Io sono assediato da sociologi e psicologi — gente per cui ho simpatia secondaria – che tutte le volte che c’è una mancanza, una difficoltà grammaticale precipitano immediatamente la struttura semantica dentro la sociologia: lotta di classe, differenze politico-economiche, e cosi via. Ebbene, io credo che tra le grandi regole sociali, molto spesso mal conosciute, e le regole morfologiche della lingua ci sia qualcosa in mezzo, ovvero le regole che sono regolate e quindi descrivibili, ripetibili, discernibili, totalizzabili, e nello stesso tempo, a loro modo, sono legate al comportamento sociale. Credo che siano quelle che chiamo, scherzando, le maniere, cioè che ci sia nella nostra cultura un apparato, una strategia, una logica di civiltà – da non perdere fra l’altro, come non vanno perse le regole grammaticali – che, in qualche modo, è intermedia fra la struttura della forma grammaticale e, d’altra parte, la struttura sociale. La regole di questa struttura sono variabili, come variabile è la grammatica. Se a questo punto ci chiedessimo perché la grammatica è i n qualche modo sempre normativa, potremmo rispondere che insegnare la grammatica è insegnare il rispetto dell’altro e di se stesso, che cioè la grammatica regola la capacità di relazione e di espressione formale del desiderio.
Sono stato sempre molto impressionato negli Stati Uniti dal fatto che la maggior parte delle cosiddette violenze – compiute sulle donne ma anche compiute sugli uomini, sui giovani, eccetera – era dovuta a un cattivissimo modo della relazione di maniera. Molto spesso era il fatto di non sapere come avvicinare gli altri, di esporsi magari un po’ troppo non sapendo poi come tornare indietro (di non avere cioè i mezzi linguistici, né le maniere per fare la corte e per ritirarsi quando si viene respinti), a scatenare la violenza. Credo che la violenza sessuale – che molti esprimono in maniera a mio avviso erronea con una espressione di Dio sa quali oscuri bisogni o pulsioni, o frutto delle ubriacature più solenni, di sport di gruppo, etc. – sia, in realtà, molto spesso il risultato di una perdita radicale di capacità grammaticale delle maniere: “Non so come arrivare. Non so come tornare indietro. Una voira avanti sono troppo scoperto, cado sulla faccia e la perdo”.
In altre parole, sono convinto che la grammatica sia penetrata di maniere e per questo sia normativa. L’anomalista vero è il moralista del dettaglio, della quisquilia, dell’infinitesimale. Il purista – per cui ho una assoluta antipatia teorica – è in realtà convinto che siccome tutto si può dire, in realtà poi su rutto, su ciascuna cosa, trova da ridire.
La grammatica è un aspetto normativo: saperlo è molto utile, rifiutarlo è possibile. Considero gli anomalisti come la morte che il guerriero si tiene vicina, perché quando si combatte su un fronte è meglio sapere che è li, e che ogni atto va calibrato. Nel nostro caso ogni giudizio va calibrato in funzione dell’anomalia possibile. Vorrei però discutere la pretesa alla libertà: il fatto che tutto si possa dire. L’anomalista è persuaso che siccome tutto è dicibile non ci sia nessun problema: lui non dà norme, lui è il filologo che sostiene che nessuna parola è equivalente all’altra. In realtà tutte le volte che gli parlate viene fuori con delle stranissime frasi: “Però non si dice veramente cosi: approccio? Uhm, approccio, non mi piace”. Gli anomalisti sono in realtà dei puristi, la forma dell’anomalia è un purismo sistematico. La letteratura dei grammatici puristi non è costituita solo dai grossi tomi scritti in linguaggio matematico, ma anche dagli scritti degli anomalisti, dai loro elzeviri sui giornali, dal loro arricciare il naso sulla forma antica. Scrive, lavora nella nostra società, scrive lettere ai direttori; sarebbe divertente avendone il tempo raccogliere una vasta massa di grammatici della Domenica.
L’anomalista, il purista, è convinto che la verità sta depositata non nel funzionamento della lingua, che a noi piace tentare di scoprire, no, egli preferisce presentarvi un sapere ereditario fatto di vocabolari. L’anomalista non è come noi che riteniamo che la lingua abbia un tesoro di regole, di strutture, di funzionamenti produttivi, ecc., egli crede che la lingua sia un tesoretto, un piccolo tesoretto, e tratta i bambini cosi’, come tesoretti, non gente a cui insegnare delle idee o delle procedure, ma dei tesoretti da accarezzare. La lingua gustata: “Ah, si, Annina, che bella parola!”.

Detesto gli anomalisti per ragioni politiche. L’anomalista — su questo chiudo, lo prometto – è qualcuno che in qualche modo ritiene che non è vero che non tutto si può dire, cioè crede che tutto sia dicibile. Fate attenzione: la parola “potere” è una parola molto sottile, rappresenta l’eventualità: “Può essere”, o il permesso: “Può entrare”. L’anomalista col dire che tutto è possibile, che tutto si può fare, gioca il gioco sottile della lingua.
Quando voi dite che qualche cosa non si può dire scivolate molto facilmente dall’eventualità alla modalità del permesso, per questo i grandi dittatori (ricordate le ubbie di Mussolini sulla lingua italiana? ricordate Il marxismo e la linguistica di Stalin?) sono stati attirati dalla frase: “‘Non’ si può dire”. Pronunciarla significa infatti rivendicare il diritto: “Io posso dire che tu non puoi dire”. In questo tranello sono caduti in molti.
Roland Barthes nell’ultima parte della sua vita diceva una quantità di sciocchezze incredibile se si pensa allo straordinario genio che ha avuto per lungo tempo. Ha scritto addirittura che la lingua è fascista. Sosteneva che la lingua è fascista perché ci obbliga a dire certe cose e non ce ne fa dire altre. Senza dubbio è vero, affermare: “Non si può dire” significa che c’è qualcuno che trasforma il verbo, e dall’eventualità lo trasforma in un permesso: “Io solo posso dire se si può dire”. Questo lo sapete, ciascuno di voi come insegnante rischia continuamente di scivolare dalla funzione di eventualità alla funzione di padrone di verità del linguaggio. È una questione seria sulla quale però non voglio insegnarvi niente perché voi avete la stessa pratica che ho io.

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