I flussi e l’etichetta


Da: AA.VV., Città mobilità cultura. Cantiere di lavoro 1, Ed. Compositori, Bologna, 2008.


Lo scopo più importante di questi nostri incontri risiede nella possibilità di tradurre le diverse analisi dei rapporti tra “città”, “mobilità” e “cultura” in una riflessione sui problemi dell’incontro e della convivenza.
Il fatto di avere posto tali problemi in maniera molto generale, rispondente alle estrazioni e impostazioni disciplinari dei diversi partecipanti al nostro Cantiere di Lavoro, se presenta non poche difficoltà di traduzione tra i livelli concettuali e operativi chiamati in causa, comporta anche alcuni significativi vantaggi, dal momento che si possono scoprire incroci e connessioni sorprendenti, ai quali non si era pensato prima.

La cultura come sistema regolato di forme

Gli antropologi sanno che del concetto di cultura si possono dare tante definizioni: Alfred Kroeber e Clyde Kluckhohn, due illustri antropologi degli anni Cinquanta, hanno scritto che, negli studi antropologici, di definizioni della cultura ne circolavano allora circa 140. In tutte, però, si può ritrovare la convinzione che la cultura sia costituita, in qualche modo, da un insieme di processi.
Nel caso dei semiologi, ci si rifà ai concetti linguistici di morfologia e sintassi. In morfologia si ritrovano dei sistemi di forme, poi si ritrova una sintassi, cioè una concatenazione regolata di forme. L’idea è, quindi, che la cultura possieda una morfologia, anche se non visibile; che, sotto i cosiddetti flussi, operino delle morfologie e che queste morfologie in movimento siano descrivibili come sintassi, cioè come la condizione di ciò che si può dire e di ciò che non si può dire, di ciò che si può fare e di ciò che non si può fare.
Evidentemente, il pensiero di una dimensione morfologica e di una dimensione sintattica della cultura presuppone non tanto morfologie fisiche, ma questioni di significazione. Ecco come può avvenire l’incontro con la prospettiva teorica della semiotica: noi riteniamo che le morfologie e le sintassi abbiano specifici significati. La sintassi si basa su concetti, dinamici e statici, soggiacenti alla nozione di verbo e a quella di sostantivo. È possibile incontrarsi sulla base di una semiotica a vocazione teorica, che fornisce le linee di una possibile traducibilità dei nostri concetti; altrimenti, ciascuno rischierebbe di parlare “accanto” all’altro e non “con” l’altro, e questo costituirebbe un pessimo e paradossale esempio di convivenza anche da parte di chi condivide gli stessi obiettivi conoscitivi.

Contro la cultura delle infrastrutture

Mi sembra di poter dire che ad accomunarci sia una impostazione contraria alla cultura delle infrastrutture, cultura che purtroppo affligge i peggiori ingegneri e architetti. È una considerazione molto forte, se si pensa in termini di significazione e cognizione, di attori più o meno occasionali e della organizzazione emergente nel gioco imprevedibile delle loro interazioni.
Ne deriva l’esigenza di “diseconomizzare” sia il contesto sia il discorso: in altri termini, non si può non partire dalla convinzione che senza dubbio esistono dei condizionamenti economici, dei condizionamenti infrastrutturali, ma questi non devono vincolare la nostra prospettiva culturale, non devono comprimerla in una cultura della infrastruttura e in una cultura dell’economia.
Da questo punto di vista, è meglio affidarsi a una coordinazione miope tra gli attori, che sono miopi in quanto la loro visione non è totale, ma è locale. È meglio scoprire e, per quanto possibile, assecondare delle coordinazioni miopi, piuttosto che costruire infrastrutture: è l’assunto da cui partire.
Certo, la città ha sempre contato profondamente ed è stata il luogo delle grandi costruzioni utopiche del Novecento. Ma oggi si registra, al contempo, il riconoscimento della fine della città e una forte domanda di città. Va detto che non si tratta della stessa città, quando si parla di “fine” e di “domanda”. Con specifico riferimento alla problematica della mobilità, vorrei insistere sulla differenza di questi due concetti: se diciamo che c’è una fine della città – nel senso tradizionale della parola città – stiamo prendendo di mira il fenomeno di urbanizzazione generalizzata, che si contrappone all’idea di una città circoscritta, delimitata, identitaria. L’esempio perfetto è quello di Urbino, in cui ho vissuto per molti anni.
L’urbanizzazione generalizzata ha fatto perdere gran parte delle caratteristiche tradizionali delle città, con conseguenze imprevedibili e straordinarie: per esempio, la delimitazione politica – per cui si vota nel posto in cui si vive – contrasta con l’altissima mobilità attuale: dove si dovrebbe votare, dove si lavora o dove si dorme? Pensiamo a Venezia: la maggior parte di quelli che lavorano a Venezia votano a Mestre, ma in realtà votano molto più lontano, non si sa dove. Perché chi lavora otto ore al giorno in un posto, vivendone tutti i problemi, deve poi votare nella città dormitorio?

Urbanità e convivialità

Se da un lato appare dominante il concetto di urbanizzazione, dall’altro la parallela e forte domanda di città è dovuta all’idea di “urbanità”: alla fine della città attraverso l’urbanizzazione si contrappone la domanda di città attraverso forme di urbanità. Urbanità non significa che ciascuno può pensare e fare ciò che vuole, purché rispetti ciò che pensano e fanno gli altri; significa volgere l’attenzione ai comportamenti di coinvolgimento reciproco, perché nell’ambito degli attori miopi possa emergere un crescente e costruttivo rispetto per gli altri.
Come mi comporto nei confronti dell’altro? Per semplificare, si potrebbe parlare di “distacco” e “attacco”: distacco e attacco di fronte alle situazioni, così come si presentano. Per esempio, credo che l’ingorgo sia un luogo sociologicamente di straordinario interesse: non a caso c’è sempre qualcuno che si dà da fare per risolverlo. La fenomenologia dell’ingorgo è appassionante nello studio della mobilità e anche in quello della urbanità, cioè della responsabilità nei confronti delle situazioni. Troppi sociologi ripetono che viviamo in un mondo fluido, ma si sbagliano, perché dire che il mondo è fluido non ripara niente; porre i problemi nella forma dei fluidi, che posseggono una dinamica troppo complessa, non fa che allontanarne la possibilità di comprensione e di soluzione.
Il problema della forte domanda di urbanità ha a che fare, evidentemente, con un’idea di “convivialità”, che è l’opposto di un’idea di interazione tra individui delocalizzati. Non dobbiamo accettare che a guidare la mobilità e la convivenza all’interno della città sia l’interazione, per emergenza fisico-cognitiva, di individui delocalizzati, che rispondono solo alla logica della responsabilità individuale. Bisogna assumersi le proprie responsabilità rispetto alle situazioni nel loro insieme, che possono venire identificate in un “cronotopo”, al quale si aggiunge la competenza degli attori. Un cronotopo, infatti, è costituito da specifiche condizioni di spazio e di tempo, integrate dalle condizioni degli attori.
Per approfondire il problema, sarà opportuno precisare che, quando parlo di urbanità, di configurazioni che tengono conto delle situazioni, mi riferisco a fenomeni di urbanità non normativa. Vorrei, infatti, differenziare le norme dalle regole: le norme sono quelle esposte dall’esterno, anche quando incorporate, mentre le regole sono l’effetto dell’omaggio alla situazione, come avviene per esempio, nel caso della circolazione stradale, quando si cede il passo alle donne e ai bambini, e via dicendo. Chiamerei, quindi,”forme di urbanità” le regole interne alle forme di vita e definirei “forme di vita” le unità di articolazione della cultura.

Il problema del traffico, in una prospettiva identitaria ed esperienziale

Per riassumere, penso alla cultura come a un’articolazione di forme di vita e penso alle forme di vita come a un insieme di regole di forma e regole di processo, quindi anche di mobilità, all’interno di una comunità da definire. In questa prospettiva terminologica e concettuale, possiamo adesso parlare del traffico.
Il traffico è uno dei fenomeni di maggiore importanza per verificare le regole di urbanità. Controlla anche alcuni problemi relativi, per esempio, ai rapporti tra pubblico e privato, che costituiscono aspetti fondamentali nelle forme di urbanità: omaggio alla circostanza privata, omaggio alla circostanza pubblica e così via.
Abbiamo detto che non avrebbe senso parlare della città in termini prevalentemente infrastrutturali, altrimenti ingegneri e architetti, o gli ingegneri dell’organizzazione, avrebbero già risolto il problema. Parliamo, invece, dell’abitare come identità antropologica e stratificazione fenomenologica di esperienze; e pensiamo all’urbanità come incessante organizzazione e riorganizzazione dell’identità antropologica e della stratificazione fenomenologica delle esperienze. Appaiono, quindi, di fondamentale importanza i luoghi dove si incontrano “gli altri” e dove si incontra “l’altro”, gli altri come noi e l’altro come alterità. Oggi si parla molto di cyber- socialità, ma in realtà ci troviamo immersi in un mare tempestoso di edilizia anonima e anomica, dalla quale non si può evadere né mediante fughe in avanti né mediante fughe di fianco. Perciò parlare di socialità mi pare vano, mentre parlare di urbanità come regole di forme di vita emergenti mi sembra più pertinente e propositivo.
Che tipo di territorio vogliamo? Soltanto la conoscenza delle forme di urbanità ci consente di lavorare sulla loro riarticolazione. In effetti, spesso l’intervento degli esperti e dei consulenti al capezzale del traffico ha esiti deludenti, quando non controproducenti. Finiamo magari per scoprire che l’auto-organizzazione aveva già risolto la difficoltà, a volte anche procedendo a tentoni.
A questo proposito, ritengo tuttavia che non si possa trascurare l’esigenza di organizzare la prossimità, definita come parte della interazione. Porre la questione in termini di stili di vita presenta un vantaggio perché, accanto al moralismo inevitabile, introduce inesorabilmente un altro fattore di condizionamento e di orientamento, di cui noi tutti facciamo prova nelle situazioni relazionali. La situazione, infatti, crea una serie di obbligazioni emergenti: obbligazioni non normative, ma regolative, davanti alle quali i diversi comportamenti, egoistici o di partecipazione, si traducono immediatamente in un riconoscimento di carattere etico: «sei dei nostri; non sei dei nostri».

Dai vincoli morali alle sollecitazioni etiche

Ho l’impressione che le soluzioni morali, o moralistiche, somiglino molto alle prediche, in cui il bene viene sempre definito contro il male, ma alla fine la vita ricomincia esattamente identica. Senza dubbio è vero che molte soluzioni tecniche contengono anche soluzioni a problemi di morale: per esempio, i dossi stradali nei centri abitati sostituiscono egregiamente il problema semiotico di un segnale che inviti a “rallentare” e che forse pochi leggerebbero; tra l’altro, i dossi non richiedono una specifica formazione, perché il rischio alternativo di distruggere l’automobile è facilmente comprensibile a tutti. In questo caso, l’intervento di organizzazione della prossimità può essere di carattere infrastrutturale, ma solo dopo che si è riflettuto attentamente sulla emergenza situazionale di regole e di implicazioni.
Dobbiamo pensare di più le situazioni: per esempio, quando c’è un ingorgo, che tipo di responsabilità rispetto alla situazione si crea? Credo che valga la pena di definirla reintroducendo, in un qualche modo, il concetto di cultura come insieme di stili di vita. Si rivaluterà, così, la problematica di una estetizzazione dei comportamenti, mediante la quale può forse venire riattualizzato anche il lavoro sulla morale.
L’aumento della informazione – si pensi a quante informazioni si possono oggi recepire sulle autostrade – non è una garanzia di comportamenti cognitivamente corretti. Anni fa gli Equipe 84 cantavano: «Adesso vai, adesso vai, ragazzo vai, le cose giuste tu le sai…», ma non è detto che chi sa le cose giuste, poi vada nel posto giusto. Sono convinto che, sul problema della sicurezza come su molti altri problemi della contemporaneità, sia necessario ripensare le cose – situazioni, problemi, relazioni, aspettative e via dicendo – perché non vengano infeudate dalle parole.
Una di queste cose consiste nella solita, quasi inevitabile opposizione tra pubblico e privato, alla quale sono collegate altre cose come, per esempio, quella che chiamo scherzosamente “claustropolis”, vale a dire i problemi della sicurezza nelle città. Le città in questo momento stanno scommettendo sulla propria sopravvivenza, e sulla sopravvivenza dei loro sindaci, sul problema “claustropolitano”, cioè sul problema della realizzazione, della affidabilità e della praticabilità dei sistemi di sicurezza. Sappiamo che l’incremento dei sistemi di sicurezza provoca comportamenti di sfida, per esempio quelli di chi dice: «Ma dai, lascia perdere, non posso stare legato alla cintura di sicurezza sei o sette ore». Questi comportamenti di sfida, in una società sempre più perentoriamente assicurata e capziosamente rassicurata, risultano probabilmente assai determinanti nell’ambito degli stili di vita degli attori cognitivi.

Attori mobili e attori auto-mobili

Dobbiamo ripensare, dunque, i processi d’interazione in città e dobbiamo ripensarli dal punto di vista sia degli attori mobili sia degli attori auto-mobili. Dal momento che le variabili tecnologiche provocano la emergenza di soggetti diversi, ritengo che anche il soggetto auto-mobile vada trattato come un soggetto specifico, dotato di una competenza specifica, da non confondere con l’attore generico: una persona, salita sulle due o sulle quattro ruote, non è più la stessa persona.
In funzione di che cosa è possibile pensare i suoi comportamenti in maniera diversa? La risposta del pensiero semiotico è chiamare in causa una teoria delle modalità: in funzione dei suoi saperi, della sua capacità comunicativa (non si riesce a comunicare bene quando si è in automobile con altri), della sua capacità ricettiva, dei suoi poteri, cioè di quello che può fare e di quello che non può fare (per esempio, non si può risalire l’autostrada in senso inverso, mentre di solito si possono risalire le strade, così come non si possono risalire le scale mobili al contrario), dei suoi doveri, cioè degli obblighi immediati. Quindi sapere, potere, dovere, volere, che possono essere più o meno vincolati.
Per capire e interpretare correttamente le competenze differenziali, bisogna rendersi conto di quello che il soggetto in questione sa, può, deve, vuole fare. Queste quattro modalità cognitive e comportamentali ci aiuterebbero molto a differenziare i due attori: l’attore mobile e l’attore auto-mobile, che potremmo anche chiamare “pedomobile”, se la parola non fosse un po’ imbarazzante.
Le grandi questioni culturali di cui stiamo ragionando – grandi perché al tempo stesso ci interessano e ci coinvolgono – sono collegate alle emozioni e alle loro complesse dinamiche. Al di là delle analisi logistiche e funzionali, dobbiamo introdurre nel nostro discorso le dimensioni emotive della sensibilità e della passione.

I paradossi della fretta

Un esempio eloquente, perché è stato oggetto di riflessione da parte degli economisti più intelligenti, è quello della fretta. A.Q. Hirschman ha scritto un celeberrimo articolo sulla fretta: fretta di consumo, fretta di produzione, fretta anche di consumo culturale, che invece richiederebbe attenzione e riflessione. In effetti, quello dei musei è un problema, appassionante, di fretta di consumo temporaneo.
La moglie americana di un mio carissimo collega sociologo era venuta in Europa negli anni Sessanta. Un giorno l’ho vista uscire con le scarpe da tennis – una scelta inconsueta, perché allora soltanto chi giocava a tennis portava scarpe da tennis – e le ho chiesto, sconcertato: “Dove vai?”. Mi ha risposto: “Vado a visitare il Louvre”. “Perché ti sei messa le scarpe da tennis?”. “Perché voglio vederlo tutto”. E ha passato nove ore al Louvre. Ho pensato che così non si sarebbe ricordata nulla, o forse solo la Gioconda.
La fretta del consumo, anche culturale, costituisce un problema fondamentale e richiederebbe davvero la realizzazione di infrastrutture apposite per frenarla – una sorta di dossi all’interno dei musei, che regolassero il flusso dei visitatori – mentre tutto sembra invece predisposto per accelerarla. In un tempo reale, mediato e ubiquo, il problema della fretta e del suo contenimento appare estremamente complesso e interessante. La signora, per esempio, vuole andare in città, ma perché lo fa in fretta?
Jean-Marie Floch, un amico semiologo, purtroppo prematuramente scomparso, aveva messo a punto una tipologia della vita in metropolitana, individuando quattro tipi di personaggi e i relativi comportamenti: c’è quello che va a spasso, ma c’è anche quello che attraversa la stazione come un lampo, che non si guarda attorno ed esce il prima possibile, per cui qualunque tipo di segnale non serve a niente, in quanto non legge i segnali.
Ecco un problema fondamentale: la fretta è un modo per sottrarsi alle situazioni, ma anche per sottrarsi agli altri; un modo per vivere senza convivere.

La ridefinizione dell’intimo

Ultimo punto: l’opposizione tra pubblico e privato non serve più. Non è facile affrontare operativamente e col giusto tatto la tendenza a crearsi zone private o quasi private nelle grandi città, dove le persone si ritrovano e si comportano come se stessero soltanto tra loro, con una radicale esclusione del pubblico, del fatto che ci sono anche altri, diversi da loro.
Come si può reagire a questi processi ossimorici di una inclusione esclusiva? Per esempio, in occasione del Festival della Scienza alcune famiglie genovesi hanno preso l’abitudine di ospitare gli scienziati e gli intellettuali partecipanti. Perché vederli solo nella consueta distanza spettacolare? Perché non conoscerli da vicino? Forse che non sono persone come le altre? È ovvio, ma, in molte altre città, inveterate abitudini mentali impediscono di invitare a casa chi non si conosce.
L’obiettivo comune e costante deve essere quello di aumentare la porosità della urbanità, attraverso interventi di organizzazione della prossimità, anche se il vero problema non è connesso al rapporto tra il pubblico e il privato; il vero problema consiste nella ridefinizione dell’intimo.
Dobbiamo, quindi, fare a meno delle interpretazioni basate sulla contrapposizione tra pubblico e privato, che sono concetti ideologici di cui si è probabilmente abusato, o al massimo sono concetti giuridici, che servono soltanto in contesti formalizzati o formalizzabili. Se vogliamo davvero entrare in una vitale e feconda fenomenologia della città, dobbiamo pensare in termini di intimità, concetto non si esaurisce, neppure scherzosamente, nelle cosiddette parti intime.
Avremo modo di tornare in altre occasioni sulla tirannia dell’intimità. Per ora, basterà considerare come nella cultura attuale, dove è cruciale il problema dell’ospitalità e dell’incontro con l’altro, la ridefinizione dei contesti e dei regimi della intimità occupi il centro della scena. Per esempio, una delle grandi battaglie combattute negli anni Novanta è stata quella di persuadere la gente ad andare al lavoro in automobile, con tre o quattro persone che percorrono la stessa strada; è una battaglia, a mio avviso, ancora persa, ma irrinunciabile e decisiva. Perché lo stare seduti insieme, con persone che non si conoscono, appare normale dentro un autobus, mentre dovrebbe diventare una situazione drammatica in automobile?
Tanti sono i modi di organizzare la prossimità nell’ambito della mobilità tecnologicamente assistita: un modo è quello di aumentare i pedaggi, un altro quello di convincere le aziende a sostenerne i costi, un altro ancora quello di stabilire un pedaggio per l’ingresso in città. A monte, resta tuttavia il problema della ridefinizione delle problematiche connesse all’intimo.
Come si ridefinisce l’intimo? Oggi siamo allo stesso tempo preoccupatissimi di due cose, apparentemente contrastanti. Da una parte cresce la pervasività e la prepotenza dell’oscenità, dal momento che i nostri sistemi comunicativi pretendono di vedere l’intimo; non il privato, ma proprio l’intimo. Dall’altra, noi vogliamo vedere l’intimo dell’altro, ma non vogliamo che gli altri vedano il nostro!
Per concludere, ritengo che la questione dell’intimità, sia nelle situazioni della mobilità sia in quelle della comunicazione, sia da rivedere radicalmente, ripensandone in modo congiunto le pratiche e le maniere. E quando parlo delle maniere, non alludo al bon ton, ma intendo semplicemente le regole degli stili di vita, da riorganizzare e finalizzare in funzione della nuova prossimità imposta dalla nostra civiltà. Contemporanea, forse proprio perché sembra appartenerci sempre meno.


Flows and etiquette

Traffic, like any process, occurs over time and punctuates it. In its evolving morphology, the collective agent composed of vehicular units – man/automobile – is dependent on collective rules – centred codes – and minor non-centred and local decisions. The latter are tied to the shared feelings of the players involved, the pregnancy of their temporal passions – waiting, haste – and, above all, “precepts” of etiquette that are quite different from those of pedestrian traffic. Things that can or must be done or not done, things that can and must be permitted or not permitted, constitute the jurisdiction of man/automobile players. This collective fund of individual decisions – a culture of interdependent choices – triggers collective effects of rhythm, like the slowdown that is caused by rubbernecking: the emergency of the general metrics of flows.
Traffic-regulating devices in the form of human operators – real traffic wardens or robot flagmen – and non-human ones, such as signals, speed bumps and so on, thus become significant operators in transforming the collective actions and passions, tactics and strategies whose interaction generates the lifestyles of a community.
Traffic etiquette represents a small code of ethics.

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