La voce viva di I. Fònagy


Da: Voix/voies excentriques: la langue française face à l’altérité, Repères-DORIF, n. 2, novembre 2012.


Ringrazio di avermi invitato e offerto l’opportunità, o il dono, di ripensare insieme il pensiero originale di I. Fónagy sull’insieme stratificato e complesso che è l’espressione del linguaggio, inteso come sistema e processo semiotico.
Quando comunichiamo telefonicamente, per far partecipare un terzo inerlocutore mettiamo il “viva voce”. Credo che valga la pena, anzi il piacere di mettere in viva voce la parola di I. Fónagy – che ha scritto un libro con questo titolo – La vive voix – una parola curata in tutti i sensi del termine da Laura Santone. Naturalmente e beninteso, il punto di vista parziale di un semiologo può esemplificare soltanto alcuni tratti d’una lunga ricerca svolta da un’articolata personalità – segnalata poc’anzi da Enrica Galazzi. Ora, siccome nello sviluppo della disciplina semiolinguistica conta la continuità, ma anche il modo con cui essa interferisce con altre e provoca rotture, fraintendimenti, controversie, snodi, ritorni, ecc, provo a marcarne alcuni,tra i più singolari.
La prima questione rilevante è perché mai nella linguistica contemporanea la disciplina di cui Fónagy era lo specialista, la fonetica, viva in tono minore rispetto a quello di cui godeva a partire dagli anni ’20. In quel periodo infatti studiosi come Trubetzkoy, Sapir, fino a Jakobson e Buhler – hanno assegnato al fonema, nelle scienze del linguaggio, un ruolo comparabile alla scoperta dell’atomo in quelle naturali. Ci sono scienze naturali e innaturali, le scienze umane e disumane: ebbene in quegli anni si impose la distinzione tra la dimensione etic -la fonetica come disciplina del suono e quella emic della fonologia che isolava e gerarchizzava i tratti distintivi, limitati nel numero di tutte le lingue umane. Il fonema è “cosa mentale” per gli strutturalisti e il modo di segmentarlo e descriverlo, dal punto di vista paradigmatico e sintagmatico ha fecondato molte discipline, anche non linguistiche. L. Hiemslev, lo studioso danese, erede di Saussure, ha ipotizzato di applicare al piano del contenuto delle semiotiche, cioè alla loro semantica, il criterio dei tratti fonologici con cui si studiava così efficacemente la forma dell’espressione. Data la presupposizione reciproca tra Signifiante e Significato era possibile individuale i tratti pertinenti del senso – le figure o i “semi” – così come si potevano isolare i “femi”, i tratti pertinenti della forma espressiva. Con un inventario relativamente ridotto di queste categorie semantiche sarebbe stato quindi possibile descrivere il piano del contenuto di tutte le lingue. Un progetto che ha poi mostrato i suoi limiti, ma è certo che la strategia dei tratti fonologici, articolati in categorie distintive e non necessariamente binarie – Saussure parlava solo di différences! – ha svolto un ruolo decisivo nello sviluppo di altre discipline dell’uomo. Il fenema è stato un piccolo modello di funzionamento per le scienze della significazione (v. l’antropologia di Lévi-Strauss, per es., nell’analisi delle pratiche culinarie).
Sappiamo le ragioni dell’avvenuto cambiamento: il ripensamento radicale del segno saussuriano, arbitrario rispetto al referente ma motivato nell’articolazione tra i suoi piani (Benveniste) e caratterizzato dalla correlazione tra i piani l’espressione e quelli contenuto. Nel pensiero linguistico e fin dalla fine dgli anni ’50, la critica allo strutturalismo di Bloomfield – diverso peraltro da quello praticato in Europa in generale e da Fónagy in particolare – ha condotto al centro del paradigma la grammatica, con le sue implicazioni logiche e cognitive. Il primo Chomsky dichiarava infatti che il significante e il significato sono solo componenti “interpretative” e che toccava alla grammatica – modellata sugli automi di Markov – a sostenere il peso della forma e dell’intelligibilità linguistica. I linguisti di osservanza generativa sono tornati poi sui loro passi e la semantica, almeno nell’accezione cognitivista, ha ripreso la sua pregnanza; tuttavia quella crisi di paradigma ha distolto l’attenzione dal piano fonologico. Una spia di questo state of the art è l’assottigliarsi della presenza di Jakobson, che Fónagy cita così sovente; mentre pareva che non si potesse parlare di linguistica se non sotto il suo segno, oggi il suo nome viene letto come in filigrana. Insomma Fónagy abita un paradigma teorico che ha subito un arresto o meglio una virtualizzazione, a seguito di un riorientamento degli studi dove all’astrazione logico-sintattica supplisce una pragmatica tuttofare. Oppure, ed la ricerca corso a cui mi sento vicino, una analisi discorsiva che ripensa l’organizzazione degli enunciati e i dispositivi della enunciazione linguistica e semiotica. È un primo punto.
Il secondo punto è l’atteggiamento deliberatamente semiotico del fonologo Fónagy. Per semiotica non intendo affatto la prisca semiologia di Barthes, la translinguistica. Per Fónagy è cruciale che il linguaggio naturale, si fondi sulla teoria saussuriana del segno: basti ricordare la sua tesi della doppia codifica. Per semioticahe Fónagy intendeva i sistemi di contenuti manifestati in sostanze espressive differenti: conosceva quindi la musica, aveva una cultura per l’immagine, una vera competenza per la poesia etc. etc.La sua linguistica riposava sul fondo semiotico che mancava a Chomsky, per il cui professore, il filosofo Nelson Goodman, egli non capiva il linguaggio perché cieco agli altri sistemi di segni. Fónagy inoltre era convinto assertore della nozione di arbitrarietà saussuriana e la conoscenza dell’ungherese – lingua dai caratteri profondamente diversi da quelle indoeuropeo – gli permetteva, attraverso confronti e riscontri insoliti, di sostenere che il linguaggio è arbitrario rispetto al mondo a cui si riferisce, ma non rispetto ai valori di senso che costruisce. D’altra parte, nello spessore di questa arbitrarietà del segno è possibile operare degli effetti mimetici di realtà. Oltre ai segni naturali e convenzionali, ce ne sono di arbitrari e motivati. Fónagy ha messo a punto con sottigliezza i mezzi per ottenere col suono gli effetti di senso che motivavano l’arbitrario e si iscrivono sotto la rubrica d‘iconismo linguistico: di qui il ruolo che la poesia e la musica occupano nella sua opera.
Un “a parte”: lo scherzo dello studente francese noto negli anni dei miei studi: se la lingua rispecchia il mondo, come mai nuit ha un suono così brillante e jour così cupo? La risposta: nuit è puntuale, jour è durativo. Jour connota la durata faticosa del lavoro e degli impegni e Nuit, il momento di riposo che passa sempre troppo presto. La motivazione esemplifica una dimensione inattesa: l’aspettualizzazione della sonorità!
Decisiva per l’intelligenza di quella generazione – Jakobson, in primo luogo: The Sound Shape of Language è un testo di riferimento per Fónagy – è l’idea che compito della poesia è “rémunérer les défauts des langues”, porre riparo a quanto nelle lingue c’è di arbitrario nella relazione del significante al significato. Spetta al poeta rimotivare il segno, dargli un senso di necessità attraverso tutte le componenti testuali. L’onomatopea – che mima la sonorità del mondo con le risorse ridotte dei suoni di una lingua – o la paranomasi, sono soltanto alcune delle figure disponibili: Fónagy, come gli altri grandi semiolonguisti, da Lotman a Benveniste, dimostra che la passione per la poesia è costitutiva per esplorare i costrutti della motivazione tra il senso e il suono. Un rapporto rubricato come Iconismo linguistico.
Si fa gran parlare oggi dell’iconic turn in reazione e relazione al linguistic turn: un’operazione certamente opportuna per rinnovare le teorie obsolete e i metodi stantii della storia dell’arte. Così facendo però accettiamo implicitamente l’opposizione tra immagine e linguaggio naturale in quanto diversi e intraducibili. Proprio l’opposto di quanto postula la semiotica e del modo in cui esplora Fónagy la profondità delle lingua. Ricordo di averlo invitato all’Istituto Culturale Italiano a Parigi, nel 1993, ad una giornata di studio a lui dedicata, a partire da un suo testo apparso in Faits de langue, dove faceva il punto sull’aspetto evolutivo del dibattito millenario tra Cratilo e Ermogene, ripreso poi da G. Genette e recentemente da J. C. Coquet. Physis e Logos non corrispondono a immagine e lingua, che sono entrambe traduzioni semiotiche d’una esperienza fenomenica della physis.
Un altro momento di ascolto della “viva voce” di Fónagy, riguarda la relazione tra oralità e scrittura. Nel corso delle celebrazioni recenti del 150esimo anniversario del’lUnità italiana, anche sotto la penna di un linguista avvertito come T. De Mauro, rileviamo un equivoco che Fónagy ci aiuta a dissipare. L’identificazione della lingua (nazionale!) con la lingua scritta. Si dimentica così che quando arrivano alla scuola di stato i bambini già parlano; le regole del linguaggio sono acquisite – assimilate e accomodate. Si insegnerà loro a parlar “meglio” seguendo alcune norme connotative, ma l’italiano l’hanno già appreso imparato dalla “viva voce”. Le geremiadi linguistiche sull’imbarbarimento – che io chiamo “congiuntivite” – sono giustificate solo se giudicate dallo standard dello scritto. Sappiamo bene che l’oralità sta alla scrittura come il cinema alla pittura: il verbale è più dinamico e processivo, più povero nella varietà lessicale e più articolato sintatticamente. Fónagy ne ha teorizzato inoltre il double encoding: sull’impianto del registro orale interviene la componente passionale attraverso differenziazioni estensive e quantitative, qualitative e intensive. Come si parla arrabbiati, tranquilli, gelosi, avari: ecco le basi pulsionali a partire dalle quali l’istanza emotiva irrompe attraverso il suono, perturbanto la qualità della voce e i dispositivi della intonazione. Lo scritto dispone di scarse risorse grafiche per rendere questa complessità; ecco perché la caratterologia vocale è più importante della grafologia, o, se volete, è una una grafologia sonora molto più complessa. Qui si articola la ricerca di Fónagy ed a partire da una dimensione pulsionale sostenuta dalla teoria psicoanalitica. Un solo esempio, da una lettura recente: “je ne suis plus celle qui a perdu mon père”. Matita blu: ecco come si scrive correttamente: “je ne suis plus celle qui a perdu son père”. Certamente, mio ravveduto Monsieur Jourdain, ma il passionale ricodifica e sovradetermina l’organizzazione fonologica – dalla esse allla emme – e il senso della sintassi, dei possessivi. Non capiremmo gran che, diceva Fónagy, con la sola panoplia dei fonemi cognitivi, se non capiremo che per realizzare i suoni verbali entra in gioco qualità della voce, la sua grana, il corpo proprio, quello della fenomenologia (Merleau-Ponty).
Lasciamoci toccare in un punto l’ultimo punto e torniamo alla poesia.
Jacques Roubaud, oulipien, ha ricevuto il “Grand prix national de la poésie” nel 1990 e il “Grand prix de littérature Paul-Morand” dell’Académie française nel 2008. In un libro, Poésie, etc.: ménage, Stock, Paris, 1995 spiega jakobsonianamente l’intransitività della poesia “che dice quel che dice dicendo qualcosa”. Ma se la prende con certi “buffoni teorici” del poetico come Julia Kristeva, la quale deve molto a Fónagy ed in particolare la distinzione e correlazione tra semiotico e simbolico. Nella Rivoluzione del linguaggio poetico, rielaborazione della sua tesi di stato, la giovane e brillante studiosa ha colto l’idea originale di Fónagy sulla mimica buccale. Sul piano somantico e simbolico, bocca e lingua riprodurrebbero metonimicamente l’intero schema corporeo: le labiali rappresenterebbero le pulsioni dell’oralità, le restrizioni occlusive della laringe le pulsioni d’ordine anale, le esplosive – /p/, /b/, /t/ – hanno carattere distruttivo. E infine le sibilanti e le chuintantes incarnerebbero la pulsione uretrale. Kristeva ha applicato il modello alla lettera del Coup de Dés, mallarméano, arrivando fino al computo delle chuintantes per rilevare le pulsioni uretrali nella composizione del grande poeta. Per la verità Fónagy quando parlava di pulsione uretrale, si limitava ad una prodente indicazione: a supporto dell’ipotesi delle chuintantes adduceva che per far fare pipì ai bambini, si fa pss, pss: tutto lì! Roubaud non aveva tutti i torti, ma l’ipotesi della mimica buccale non è falsificata da una applicazione meccanica e fuori luogo. Fónagy ha studiato finemente i moti della lingua negli atti di parola: come si si alza, si abbassa, si ammassa, vibra, etc,; al di là della metafora banale, pensare la produttività somatica della voce insieme alla dimensione erotica è una ipotesi audace che toccherà ad altri falsificare.
Nella banalità assordanti sulla comunicazione e il linguaggio che formano la pop-filosofia della comunicazione, le proposizioni di Fónagy continuano a presentarsi con forza controfattuale e controteorica. È il lascito originale di uno studioso scomparso nel 2005 e iscritto in una grande tradizione di ricerca che si è trovato spesso nel corso della sua attività fuori dallo spazio “normale” del paradigma. Alcune di queste ipotesi esistono oggi allo stato virtuale rispetto al vigente paradigma cognitivo: tocca a noi, che abbiamo conosciuto Fónagy e la sua intransigente ricerca, attualizzarle, nella prospettiva di realizzazioni a venire.
Ci sono (almeno) due maniere infatti di rappresentarsi la morte. Quello esistenziale, per cui la vita individuale prende un senso a ritroso, a partire dalla sua fine: “morto io, morti tutti”. Per l’altro, la scomparsa è l’arresto dolente certo, ma forse provvisorio di un processo e di un progetto. Se c’è un progetto e, l’iniziativa, che l’incoativo del fare, Fónagy è ancora con noi. Lo testimonia il nostro incontro.
Vi ringrazio ancora: stavolta per l’ascolto.


Bibliografia

Paolo Fabbri,
– “Il modello enunciativo”, in AA.VV., Le immagini della critica. Conversazioni di teoria letteraria, a cura di U. M. Olivieri, Bollati-Borighieri ed., Torino, 2003;
– “Funzione poetica e traduzione semiotica”, in Letteratura: possibili, vent’anni dopo, a cura di F. Luotto e M. Scognamiglio, Ed. Goliardiche, Roma, 2003;
– “Du signe au discours: histoire de la linguistique”, in Psychiatrie française (Le Langage), XXXIV, mars 2004, Paris;
– “Tra Physis e Logos”, introduzione a J.-C. Coquet, Le istanze enuncianti. Fenomenologia e Semiotica, a cura di Paolo Fabbri, Bruno Mondadori Editore, Milano, 2008;
– “Introduzione” a É. Benveniste, Essere di parola. Semantica, soggettività, cultura, a cura di P. Fabbri, Bruno Mondadori Editore, Milano, 2009.
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