Il grande tetto où picoraient des focs


Da: Paolo Carile e Marc Cheymol (a cura di), Vingt ans en Italiques / Vent’anni di Italiques, Aracne Editrice, Roma, 2017.


 

“Il grande tetto où picoraient des focs”
(Montale)

1.
Le proprie fotografie, diceva Roland Barthes, sono tutt’altro che un segno narcisista; operano una dissociazione della coscienza d’identità, un’alterazione di noi stessi. Turbamento che si approfondisce quando, nell’archivio di Italiques, confrontiamo le nostre immagini ad un’imprevista distanza di tempo. Nella ricorrenza ventennale dei nostri dialoghi ho provato la sorpresa di accostare le mie foto del 2000 a quelle del 2012, prima di arrestare prudentemente la ricerca. O quantum mutatus ab illo! E quale sentimento di compresenza eterogenea tra me e tutti coloro che i programmi di Italiques mi hanno permesso d’incontrare.
Nella lunga sequenza punteggiata di conversazioni bilingui e di traduzioni ho cercato allora un testo di riferimento che ne fosse, se non la musica di fondo, almeno un pedale “ornato” per accompagnare l’affetto suscitato dalla tacita trasformazione di somiglianze invano discordi.
Mi ha aiutato nella ricerca il riferimento o l’allusione alle parole complici di Yves Hersant, con cui ho organizzato un memorabile Colloquio a Cerisy su Italo Calvino. Attribuisco al suo sapere sulle diverse “Italies” che la realtà è un originale non ancora tradotto e che l’intraducibile non è ineffabile, ma attende con impazienza d’essere detto.

2.
Il mio testo di riferimento inizia con un verso bilingue: “Il grande tetto où picoraient des focs” (L’educazione intellettuale), di Eugenio Montale. Una quarantina di versi divisi in 5 strofe che aprono, con le loro rare rime, i Quaderni di quattro anni del 1977. Il poeta italiano si confronta con “l’immagine idillica del mare” de Le Cimitière Marin di Paul Valéry (Charmes, 1922). Il poema di Montale rammenta o sogna il mitismo di un tempo in cui passavano, accanto all’acqua marina, focose locomotive chiamate Bellerofonte o Orione – e “tutte le forme erano liquescenti/per sovrappiù di giovinezza e il vento/ più violento era ancora una carezza”. Ma Cronos trascorre, crudele e impersonale e tutto muta: “(…) Il mare stesso/ s’era fatto peggiore”. “Oggi la linea dell’orizzonte è scura/ e la proda ribolle come una pentola”. “Ne vedo ora crudeli assalti al molo, non s’infiocca/ più di vele, non è il tetto di nulla,/neppure di se stesso”. Il mare di Montale è pulsante e la verità fa acqua da tutte le parti.

La poesia dice quel che ha da dire dicendolo e dicendo oltre e altro di quel che dice. Dovrei cominciare allora per ricostruire il Frattempo dei tempi enunciati: tra la violenza dolce della favolosa giovinezza e il nulla odierno della stessa poesia, si sono spiegate le esperienze e gli esperimenti di Un ragazzo col ciuffo, il quale apre la seconda e la quarta strofa e divide esattamente la lunghezza della quarta. Sono dilemmi metafisici e paradossi trascendenti, contrasti tra prassi e logo, le metafore filosofiche dei Garanti: Eraclito (il mare incessante) e Nietzsche (il bacio al cavallo). Un “luminoso buio” che ospita l’insorgere de “le Chimere, le larve di un premondo,/le voci dei veggenti e degli insani/ i volti dei sapienti, quelli che ebbero un nome/ e che l’hanno perduto, i Santi e il princeps dei folli”. Le oscurità, come le luci, sono quelle di Montale, ma è certo che un’educazione intellettuale per essere veramente profonda deve disfare quella che si è ricevuta, spostarne il buio e il lume. “Puoi credere al buio quando la luce mente” (Il fuoco e il buio).

L’EDUCAZIONE INTELLETTUALE

Il grande tetto où picoraient des focs
è un’immagine idillica del mare.
Oggi la linea dell’orizzonte è scura
e la proda ribolle come una pentola.
Quando di qui passarono le grandi locomotive
Bellerofonte, Orione i loro nomi,
tutte le forme erano liquescenti
per sovrappiù di giovinezza e il vento
più violento era ancora una carezza.

Un ragazzo col ciuffo si chiedeva
se l’uomo fosse un caso o un’intenzione,
se un lapsus o un trionfo…, ma di chi?
Se il caso si presenta in un possibile
non è intenzione se non in un cervello.
E quale testa universale può
fare a meno di noi? C’era un dilemma
da decidere (non per gli innocenti).

Dicevano i Garanti che il vecchio logos
fosse tutt’uno coi muscoli dei fuochisti,
con le grandi zaffate del carbone,
con l’urlo dei motori, col tic tac
quasi dattilografico dell’Oltranza.
E il ragazzo col ciuffo non sapeva
se buttarsi nel mare a grandi bracciate
come se fosse vero che non ci si bagna
due volte nella stessa acqua.

Il ragazzo col ciuffo non era poi
un infante se accanto a lui sorgevano
le Chimere, le larve di un premondo,
le voci dei veggenti e degli insani,
i volti dei sapienti, quelli ch’ebbero un nome
e che l’hanno perduto, i Santi e il princeps
dei folli, quello che ha baciato il muso
di un cavallo da stanga e fu da allora l’ospite
di un luminoso buio.

E passò molto tempo.
Tutto era poi mutato. Il mare stesso
s’era fatto peggiore. Ne vedo ora
crudeli assalti al molo, non s’infiocca
più di vele, non è il tetto di nulla,
neppure di se stesso.

3.

“(…) Il linguaggio, /sia il nulla o non lo sia,/ha le sue astuzie”
(La lingua di Dio)

Ora sarebbe il momento di cominciare. Alla presenza porosa della semiotica, tracciare le forme dell’espressione e quelle dei contenuti: l’organizzazione fonetica, prosodica, lessicale, semantica; la dispositio retorica, la consecutio narrativa e quant’altro. Poi comparare il memento mori del testo montaliano con quello – tutt’altro che idillico – di Valéry, per il quale il fond era una forma confusa. Un mare senza vele, che può essere un “supervuoto” “duro come un sasso”, a fronte di un’idra dalla carne blù? E ancora?
Prima tuttavia dovrei tracciare la semiotica connotativa di Montale, il suo atteggiamento verso il segno linguistico, musicale e visivo. In primis, la Parola.
Meglio d’ogni altro il poeta sa che “Non ho avuto purtroppo che la parola,/Qualche cosa che approssima ma non tocca;” (Domande senza risposta), ma che “Una traccia invisibile non è per questo/ meno segnata” (Per un fiore reciso). Anche la Natura “parla a vanvera” (Dopo la Pioggia) ed è “linguaggio del delirio” asserire che “il mondo ha la struttura del linguaggio / e il linguaggio la forma della mente” (La forma del mondo). Poiché “il nulla e il tutto/ sono due veli dell’Impronunciabile”, “si brancola nel buio delle parole” (il tuffatore).
E più precisamente (Le parole, Satura II)

Le parole
Preferiscono il sonno
della bottiglia al ludibrio
di essere lette, vendute,
imbalsamate, ibernate;
(…)
La parole,
dopo un’eterna attesa
rinunziano alla speranza
d’essere pronunziate
una volta per tutte
e poi morire
con chi le ha possedute.

4.

“L’altro segno a chi tocca (…)”
(A questo punto)

Per una critica non soltanto epitetica, mi manca, per ora, quella che Gadda chiamava “la tediosa bisava, l’Ispirazione”. M’è di sollievo, se non di consolazione, un commento al Cimitière de Valéry. “Aux yeux de ces amateurs d’inquiétude et de perfection, un ouvrage n’est jamais achevé – mot qui pour eux n’a aucun sens – mais abandonné” (Thibaudet).
“Tutte le immagine portano scritto più in là” (Montale). Un progetto interrotto, come testimoniano la letteratura e la scienza, può essere ripreso. Con la speranza, generalmente fondata, che sia vocazione o valedizione della critica d’essere scavalcata dall’opera. (“Beffe di scoliasti” direbbe Montale).

Nel prosieguo degli incontri di Italiques?!

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