Con gli occhi di Horus


Da: Eliseo Mattiacci, Danza di stelle e di pianeti, Gli Ori Editore, Prato, 2006.


Premessa

L’atmosfera terrestre è sempre meno trasparente ed è arduo, restando a terra, trovare un punto di mira per “traguardare” gli allineamenti degli astri, una “specola” per sguardi e pensieri speculativi.
Eliseo Mattiacci ha voluto invece predisporre un osservatorio astrale come se ne trovavano un tempo nelle città e come ce ne sono ancora – talora vicini a luoghi di culto – in alcuni luoghi del mondo. Nella sua opera singolare, ispirata ad altri artisti, ma senza debiti di scuola, Eliseo non formula concetti e non svolge argomenti. Spalanca per noi la porta di sogni cosmici ad occhi aperti e ci chiede di alzare agli enigmi del cielo uno sguardo mitologico. La sua creatività opera ai limiti di potenzialità inespresse, così come le sue forme si situano ai bordi di particolari materie.
È parso allora giusto – nel senso della giustezza: chi mira al segno non giochi d’anticipo sul significato! – intraprendere con lui una conversazione a due voci sul senso del suo trittico metallico e degli ideogrammi che lo attaversano.
È uno scambio, fatto di ripetizioni e di riprese, che richiede una premessa che è quasi un postulato. L’opera di Eliseo è radicalmente antiromantica: non si rivolge alla terra e al popolo ma al cielo. In un mondo de-territorializzato e nella prospettiva di un’umanità cibernetica, l’artista si esprime per grandi “cosmogrammi” dilatati da un gesto aperto di libertà. Un progetto anti-monumentale e anti-celebrativo, che contiene una suggestione misteriosa, un simbolismo allusivo. Il segreto dell’opera, tuttavia, non reca tracce d’occultismo ed è dispensato da ogni mistica o metafisica. I cosmo-drammi mitici di Eliseo – come le cosmicomiche di Calvino – si rappresentano in uno spazio di regolazione di propensione delle cose e delle forze del mondo, senza fughe utopiche o religiose verso un altro mondo. Nelle pieghe del nostro ci sono abbastanza enigmi e misteri.Paolo Fabbri (PF)
1

Come nasce un’opera: è un po’ un mistero, forse da una serie di suggestioni, sia interiori che esteriori. Procedendo così, senza sapere dove ti porta l’intuizione, ogni giorno può essere diverso.
Concettualmente la scintilla scocca se giungi ad attivare alcuni (corto-) circuiti. Immergersi in questo operare è cosa bella e fortunata; è così che vengo a contatto con fantasie che diventa possible concretizzare; come un miraggio che hai messo a fuoco e che puoi rendere tangibile.

L’opera ha una sua urgenza di comunicare, eppure deve avere in sé qualcosa di magico e di misterioso. In quello che uno vede, c’è come una parte trattenuta, nascosta nell’interno di se stessa – come lo stesso mistero della vita. L’artista, con la sua propria intuizione, riesce ad immaginare un’idea dell’arte che conduce al cambiamento. C’è chi lo fa con più incisività e più forza d’innovazione. Potrei fare i nomi di alcuni artisti che, per me, sono stati le pietre miliari del secolo appena trascorso: Picasso, Brancusi, De Chirico, Duchamp, Boccioni, Tatlin, Giacometti, Pollock, Fontana, Burri e Beus. Il Novecento ha avviato un nuovo Rinascimento, che ha rivoluzionato sia l’arte che la vita.

Ma l’uomo è sempre attento a capire e a guardare con quel candore innato che lo porta a meravigliarsi: se cala questa attrazione saremmo sommersi dalla peggiore aridità.
Non vorrei quindi che il mio lavoro fosse tecnicistico o fantascientifico, ma neppure semplicemente artigianale. Al contrario voglio realizzare delle opere semplici, e che mi fanno sentire libero e, con questo modo elementare di mostrare, vorrei trasmetterla agli altri questa libertà. Le opere migliori per me sono quelle che vengono più facilmente proprio per questa loro essenzialità, la quale si avvicina allora alla perfezione che vorrei ottenere: quella sintesi e concretezza che in scultura possiamo chiamare forma. Identificabile, ma non statica: una forma in movimento.

2,1

Posso dire che la mia fonte di ispirazione è il cielo, il COSMO, l’immensità dell’infinito. Quello a cui il Rinascimento e filosofia di Leopardi alzano gli occhi.
Nello sguardo cosmico, il pensiero intelligente dell’uomo segue un percorso ampio, come quello del sogno. Il nostro cervello può pensare a cose infinite, dal microcosmo al macrocosmo; con la Fantasia e il Sogno si arriva infatti a sintetizzare e concretizzare un’idea che può diventare un’opera, un’immagine poetica, filosofica, musicale. E anche scientifica, con ironia. La scienza è in continua esplorazione e ricerca, per farci capire qualcosa in più di come gira il mondo e l’universo, ma è quel qualcosa in più, che essa ci offre ad incuriosire l’uomo: quelle intuizioni che si avvicinano alle leggi fisiche e spaziali e ci attraggono alla sola idea di pensarle.

Io mi sento attratto dal cielo con le sue stelle e pianeti e al di là dalle nostre galassie, È una immaginazione che va oltre, come a voler sfidare la fantasia stessa, come in un sogno. Mi piacerebbe lanciare una mia scultura nello spazio, in orbita. Sarebbe davvero un bel sogno sapere che lassù gira una mia forma spaziale.Eliseo Mattiacci (EM)
La scienza e la Magia

la specie più bella di magia teorica è il discorso
(E. Garin, “Lo zodiaco della vita”)

All’occhio nudo oggi, la volta celeste, superficie su cui sono tracciati tutti i miti, sembra disabitata. A rigore, può guardarla solo la scienza, per calcolare la distribuzione delle quasar, le radiazioni fossili, i buchi neri, la relazione quantitativa dell’elio rispetto all’idrogeno o il brillare delle nebulose. Eppure il cielo a cui ci avviciniamo solo con le sonde spaziali, non ha più l’ordine fisso (il firmamento!) e l’armonia che rifletteva, per Kant, l’ordine morale dentro di noi. Il cielo, fatto di eventi e non di corpi, è diventato violento e strano, ha rivelato anomalie e ritrovato mostri.
È certo che la scienza, nelle sue interpretazioni più audaci, sposta e complica i misteri mano a mano che li risolve. Ma continua ad obbedire, più nella teoria che nella prassi, alla regola della grande biforcazione moderna tra il mondo delle cose, sottoposto alla razionalità del sapere e quello degli uomini, carico di ideologia e di pathos. Per questo il cielo ha smesso di guardarci, cone se ci fossimo sottratti noi, e per sempre, alla sua prospettiva.

“Nel castello fece edificare una torre alta venti cubiti, alla cui sommità pose un globo il cui colore cambiava ogni giorno per sette giorni e alla fine della settimana tornava il primo colore. Così la città ogni giorno splendeva di colore diverso” (Garin).
Eliseo non è modernista: non crede alla biforcazione tra uomini e cose e continua a creare cone un filosofo naturale del Rinascimento. Come Campanella, il quale collocava delle statue sulle mura della Città del sole come “media” degli influssi zodiacali. Per Eliseo i corpi celesti e quelli terrestri sono vividamente connessi da forze di simpatia e di repulsione. Ha deciso quindi di far entrare il cielo in una stanza, come De Chirico, o di costruire all’esterno grandi attrattori di forze disseminati di geroglifici.
In un artista contemporaneo qual’è Eliseo, c’è un gusto ermetico – la sua insistenza sul mistero – e un gesto magico: i suoi effetti spaziali sono affetti speciali. Se è così, lo deve appunto al suo modo di sentirsi in un universo connesso e animato da una simpatia onnicomprensiva, dove si costruiscono dispositivi per esprimere forze invisibili ed efficaci. Come l’artista, il mago non è un saggio ma uno sperimentatore e la magia è una variazione continua sul principio di causalità in un mondo fluido e imprevedibile. Oggi tuttavia Il mondo occulto della magia non sembra sopravvissuto alla demitizzazione delle sue figure celesti, che sono diventate operatori mnemotecnici, personaggi da teatro della memoria.
La Danza invece, pur calcolata con cura, non è macchina che realizza una formula matematica, ma un enorme talismano o un amuleto. Una richiesta che sale agli astri per richiedere la trascrizione terrestre di un evento celeste per noi e per gli spiriti delle cose. È un messaggio scritto in segni astrografici: cosmogrammi capaci di condensare energie e di mettere in moto una trama di rapporti cosmologici, ontologici e fisiopsichici. Per Eliseo è il solo mezzo di ritrovare la bellezza e la poeticità del cielo e per captare segnali e pulsazioni non siano solo fossili, ma future; irradiazioni di mondi a venire.(PF)
2,2

Il materiale che scelgo è quello che corrisponde meglio e di più con l’idea di partenza. Spesso, nel mio caso, sono i metalli – selezionati per l’energia che emanano e spesso accoppiati con magneti che sono grandi Calamite. Con la proprietà di energia invisibile di queste ultime si possono infatti creare delle forme d’equilibrio impreviste, come vincere il peso gravitazionale. Questi giochi di forze, con la loro realtà fisica e la capacità di sublimazione, mi fanno pensare agli spazi siderali dove la gravitazione si annulla, dove il tempo e lo spazio entrano in rapporto fluido e impredicibile.

3,1

Quest’opera di Reggio Emilia, per cui ho scelto un prato antistante ad una antica fonderia, vuole essere una estrema sfida, per la dimensione delle sue tre tavole d’acciaio da 10 tonnellate. Tavole che risultano però visivamente alleggerite, perché stanno sollevate da terra, come fossero in punta di piedi. Questa idea di partenza le rende più vicine al cielo, come se possedessero una spinta per partire – ma non partiranno e resteranno a comunicare con noi come un ideale osservatorio astronomico. Quest’opera vorrebbe fa pensare e, senza dare risposte certe, dovrebbe suggerirci altre fantasie.
Per me queste lame di acciaio da 100 quintali l’una sono dei monoliti che comunicano con l’infinito. Le paragonerei alle enormi pagine un antico libro di astronomia che ci espongono – come se fossimo attraversati da radiazioni fossili – una loro visione misteriosa d’un cosmo in continua esplorazione.
(EM)
Il dispositivo induttore

Per Eliseo installare la sue opere è adattarsi ad uno spazio di fondazione che non basta mai. Qui la scelta è stata motivata della memora architettonica di una vecchia fonderia, trasformata in scuola di balletto, dove al peso minerale si è sostituita la leggerezza dei corpi e al lavoro dei metalli il gioco con la gravità. La scelta è caduta sull’ampio spazio circostante per una leggibilità delle lame nella trasparenza celeste dei loro segni, non ostacolata dagli edifici sovrastanti. Quando la luce e le forze cosmiche passano per la cruna dei segni, le lame cambiano di senso: da monoliti monumentali diventano carte, mappe geografiche di costellazioni o tarocchi per interpetare lo zodiaco. È un caso se nelle antiche culture il fabbro era mediatore tra cielo e terra?
Per comprendere meglio bisogna spiegare di più. Questa piccola Stonehenge metallica ci domanda di riflettere sulla forma, sulle sostanze e sulle forze che mette in gioco. Eliseo stesso ci indica la via quando tematizza nelle sue opere il proprio modo di formare. Per lui la pinza del fabbro è anche il compasso del disegno e degli studi di montaggio.

La forma e la sostanza

Il tratto più saliente delle tre lame, che di profilo risultano sorprendentemente sottili, come vasti fogli da disegno, è di essere in perfetto equilibrio e staccate da terra, come per negare il loro peso. Ciò che pesa fa pensare. Pur se tenute da due pinze solidamente fissate, le lame di dieci tonnellate ciascuna suggeriscono una lievità virtuosistica nel mantenersi a raso della terra e dell’erba. E, come ogni virtuososimo, segnalano mostrandola la difficoltà che sembrano superare con tanto agio. Non si alzano infatti dal suolo verso il cielo, come le stele, i colossi e le colonne e non vivono nello stallo delle installazioni. Non appaiono neppure staccate da terra, ma come calate dall’alto, come discese dall’aria e posate a filo dell’erba.
Lasciamoci dunque interrogare dalla sostanza metallica e dalle forze d’equilibrio e di sospensione.
La forma sta ai bordi della sostanze. Lo scultore di queste lame è un materialista intimo e appassionato, che vuol darci una lezione di sostanze, l’educazione minerale che tanto ci manca nell’epoca della dematerializzazione. Vale ancora la pena di ricordare che tra tutti i solidi, i metalli hanno delle proprietà singolari. Sono buoni conduttori di energia – calore ed elettricità – sono duttili e malleabili e possiedono uno straordinario splendore. Si difendono bene dalle rotture, ma conservano le tracce del loro uso e dell’usura.
Oggi la fisica è soppiantata dalla biologia e i metalli, antichi sovrani del mondo fisico, sono stati spodestati dai semi-conduttori, signori dell’elettronica. Questi ultimi, a differenza dei metalli, sono facili da purificare e sbarazzati dall’impurità del reale, si avvicinano alla perfezione matematica per la facilità di calcolo delle loro proprietà e l’invenzione efficace di dispositivi nuovi.
Lo splendore e l’impurità metallica mantengono però il loro fascino nell’attività di Eliseo, il quale tiene a conservarne, contro materiali troppo artificiali, l’effetto di tattilità. I suoi tre monoliti sono gettati in una lega d’acciaio, il corten, molto impiegata in architettura e scultura. Non è questo il luogo per pensare alle diverse fasi di preparazione – fusione, fucinatura, rettifiche, pulimentazione e la stagionatura che stabilizza le proprietà delle lame. Basti dire che il corten è un’amalgama più flessibile dell’acciaio, più tenace del ferro crudo e più resistente al tempo; meno terrestre e per questo più adatto al colloquio tra terra e cielo. Come ho già scritto:

“Mentre l’acciaio persiste nel proprio invariabile grigio, indifferente agli elementi, il corten si copre di una ruggine rossobruna che risponde con la sua ossidazione alla contingenza meteorologica, al variare delle stagioni. […] Non sarà perenne, prenderà tempo e colore, uno strato di materia gli darà una patina esistenziale. Anche il ferro trascolora, la durata lo corrode e l’assottiglia. Il corten, per contro, se perde la sua lucentezza ed esibisce i segni di una consumazione, persiste invece nel suo essere materiale, ostinato e quasi invulnerabile, come l’acciaio. Ma il tempo non scorrerà intorno [alla Danza, di Reggio Emilia] senza lasciare traccia. La ruggine segnalerà la sua entropia colorata, la sua memoria metallica. Una vita lenta e segreta in interazione con gli elementi naturali”.
Le forze e il Magnetismo

La materia è il nostro specchio energetico. Il trattamento dei metalli comporta ancora, nelle opere di grande respiro, l’idea di un disegno e di una volontà incisiva, che mostra e pratica un’azione violenta e collerica sulla materia ribelle. È il tratto idelogico, vulcanico e modernista, della padronanza sulla natura e della sfida al cielo.
Saldare il metallo richiede certamente una partecipazione intensa, muscolare e nervosa e serba la traccia di quel lirismo dinamico del fabbro di cui ha scritto Bachelard ne La terre et la reverie de la volonté. Ma questo è soltanto un mezzo per lo scopo ultimo di Eliseo, che intende costruire un circuito di induzione delle forze celesti. O, per riprendere le parole dell’artista: “dare un colpo di gong per far sentire l’infinito”.
L’equilibrio, che non va confuso con la stabilità, è il primo segno di questo gioco con le forze. Eliseo imprime al peso fisico delle sue grandi installazioni un’apparenza di levitazione e quasi un sollievo. Noi le guardiamo infatti con l’ansiosa, infantile meraviglia che ci ispirano funamboli, acrobati ed equilibristi; sentiamo in loro l’umana necessità di muoversi per restare in equilibrio a differenza delle altre cose solide, che conservano, con indefinita pazienza, la loro posa.
La scultura di Eliseo non vuole rappresentare tanto le forze, ma esprimerle attivamente e accumularle, come una dinamo. Il dispositivo della Danza intende essere un mediatore, nel senso antico di medium: conduttore e captatore di energie non visibili. Un attrattore che, col suo assetto, rende ponderabili le sollecitazioni di forze cosmiche imponderabili; un sintetizzazione per l’armonie e le disarmonie del cosmo.
Tra le forze cosmiche è il Magnetismo che ha più attratto Mattiacci.
Col motivo della calamita, le sue opere hanno spesso tematizzato il fluido conduttore e le correnti di convezione che traversano il campo magnetico con variazioni di asse e di intensità. Dal ‘600, sappiamo infatti che la Terra stessa è una calamita magnetizzata secondo l’asse dei poli, immersa in una cavità geomagnetica fatta di baie e maree, mossa da correnti e tempeste. Pulsazioni e pause che sono gli effetti della intersezione del magnetismo terrestre e di quello che porta il vento del sole. Ebbene, mi sembra che il disincanto del mondo, la crisi di valori, Eliseo li interpreti come una smagnetizzazione, la neutralizzazione delle forze attrattive e repulsive, la perdita d’una bussola. E che lui intenda farsi magnetista e costruire con la Danza un gigantesco magnetoscopio a induzione, per rivelare e riconnettere le forze della vita.(PF)
3,2

Il posizionamento delle tre tavole è quello di un triangolo più o meno isoscele con ai vertici le tre tavole, le quali portano iscritti, o trafitti, dei segni astronomici.
La prima lama è forata in sette punti che formano l’Orsa Maggiore, il Grande Carro. Nella parte centrale in alto c’è un occhio fatto come un geroglifico dell’antico Egitto che vuol significare la perenne curiosità di guardare oltre la nostra Galassia. I fori che corrispondono alle sette stelle dell’Orsa non sono uguali e hanno una doppia svasatura, su ambo le facce della tavola, per vedere dal basso il vuoto nella lama.
La seconda lama presenta, in alto, il traforo di una grande spirale. Dalla forma-spirale infatti sono molto attratto, perché ha un principio che conduce verso l’infinito. Nella parte bassa e all’altezza degli occhi è traforata un'”onda cosmica”, che si dimena come un serpente che si scrolli di dosso la sabbia d’un deserto.
La terza lama, al livello di un terzo della sua verticale presenta, sempre per sottrazione, un astro, con le orbite che gli girano attorno. Queste sono raffigurate come un cerchio e due ellissi che sono in movimento intorno al disco vuoto, centrale.

3,3

Le chiavi di lettura di questa mia opera Danza di astri e di stelle potrebbero aprire a più significati. E il titolo potrebbe anche essere HORUS, per l’attrazione che io provo per la civiltà egiziana che di tutte è la più misteriosa. Nei miel lavori, in più d’una occasione si trovano dei riferimenti egiziani (“Athon il sole” o la “Piramide d’Egitto con pigmento giallo”). Per questo ho voluto iscrivere in alto e centralmente l’Occhio di Horus, Dio-re che rappresenta il sole e la luna e sta al centro della religione dell’antico Egitto. Un Dio in forma di falco che indica la superiorità visiva sugli altri animali della terra, e significa uno sguardo che esplora il cosmo al di là della nostra stessa galassia.(EM)
L’iconologia

Mattiacci è un disegnatore. Nella sua Danza ha riportato nel metallo il segno della mano sulla superficie della carta: fregi e figure per sottrazione che, con le opportune svasature, sono visibili in trasparenza da ambo i lati delle lame. Come gli antichi astrologi che “hanno fatto diverse figure e iscritto nell’etere vasto diversi segni” (Garin) o come una lettura magnetoscopica delle marche su schede perforate.
Qui Eliseo ha tracciato alcuni Cosmogrammi che lasciano esorbitare il cielo. Icone e geroglifici della sua privata mitologia astronomica che intrecciano una rete di rinvii, di somiglianze, di simpatie. Tra l’orbita e l’occhio, il falco e il serpente, la spirale e l’onda, il pianeta e la costellazione c’è una prossimità di convenienza, un’eco di emulazione, una concertazione di analogie. C’è ache un’assonanza tra Horus, orbita e Orsa. La cosmologia di Eliseo è un mondo speculare di relazioni reversibili e polivalenti tra terra e cielo e dei rapporti di attrazione che li mettono in movimento. Le figure che traforano le lame sono firme misteriose nello spazio della simpatia delle cose, a mezza via tra un discorso cifrato ed esoterico e la lingua della natura. I geroglifici di un firmanento esterno, di uno zodiaco monumentale dove alle stelle corrispondono gli animali e che riverberano su quello interno delle nostre simbologie private.

Ecco alcune delle voci della enciclopedia cosmica di Eliseo, i suoi cosmogrammi: Horus, Onda, Orbita, Orsa, Spirale.

Horus

Horus, che significa “Colui che è in buona salute”, è uno degli amuleti più usati dagli antichi Egizi: simbolo di buon augurio che consiste in un occhio sovrapposto al segno d’una testa di falcone. Si tratta dell’occhio del falco Horo che è anche l’occhio del dio del Cielo, il Sole. Nella leggende dell’Antico Regno, Ra si impadronisce dell’occhio solare, che diventa allora l’occhio della luna. Strappato da Seth ad Horo ai tempi delle loro mitiche zuffe è successivamente restituito al suo vincitore e proprietario.
Ad Eliseo l’interesse per l’Egittto viene da una sintonia plastica e visuale, per “la geometria del piano e della linea, il gusto dell’incisione e dell’essenziale” (Riegl). Ma anche per la sua scrittura geroglifica e astrologica: l’occhio cosmico di Horus che vede ogni cosa è la Sfinge diurna e notturna, l’operatore della morte e della rinascita quotidiana della luce.
Lo scultore aveva dapprima progettato un foro obliquo diretto verso l’alto come un cannocchiale, metafora e dispositivo della nostra visione del cielo. Coerente alla sua poetica lo ha sostituito però, con il segno egiziano in cui è l’occhio del cosmo a vederci. Tutto quel che brilla è uno sguardo, le costellazioni sono mondi di sguardi
E le piramidi, coi loro obelischi monoliti, erano orientate al nord verso una stella, detta Coscia di bue, che appartiene all’Orsa Maggiore.

L’Orsa Maggiore

“Fuori il cielo offriva uno spettacolo indimenticabile: le stelle si erano così ben disposte da formare tante figure disegnate col solo contorno, come certe stampe che rappresentano i segni dello zodiaco. Ebdomeros, incantato, si fermò e cominciò ad indicarle alle persone uscite con lui; (…) si vedeva la Grande Orsa, obesa e commovente che trascinava la sua pelliccia sul fondo oscuro dell’etere profondo” Così De Dhirico, uno degli autori che Eliseo predilige, nel suo libro sibillino, Ebdomeros.
Tra gli animali del cielo, le “vaghe” stelle dell’Orsa richiedono molta precisione. Sono riportate con esattezza sulla lama della Danza nella loro disposizione, la più nota agli occhi degli uomini. Eppure le sette stelle dell’emisfero boreale – dette settentrionali perché i greci vi riconoscevano i sette buoi – sono molto diverse tra loro. Solo le sei più luminose hanno un nome (l’alfa si chiama Dubhe; la beta Merak; la gamma Phecda, la ipsilon Alioth, la sigma Mizar e la Eta Bluetnash. Mizar, al centro delle stelle in cui riconosciamo il timone del carro, è vicina a Alcor, meno luminosa con cui forma una stella doppia e ad eccezione di Duhe e di Bluetnash formano un insieme di stelle aperto).
Ma “la virtu non è nell’astro ma nel nome” (E. Garin).

L’Onda

…sempre / presente nelle eterne senescenze / e effervescenze d’ere, nel serpente / d’etere…
(I. Calvino)

All’altezza degli occhi di chi guarda, in una delle tre lame si trova la forma anomala di un’onda solitaria che potrebbe essere la forma diagrammatica d’un serpente. La Spira infatti è la voluta della linea intorno al polo della spirale e comporta l’immaginario ondulatorio e vibrante della elasticità.
Ma l’Onda qui vale soprattutto per il suo fronte di energia e di propagazione verso di noi. È un’Onda d’urto, diagramma di forze di dislocazione e di perturbazione.

L’Orbita

tutto fu / sarà ed è in circolo
(I. Calvino)

L’orbita è etimologicamente un solco, meglio la traccia della incisione lasciata da una ruota – la ruota del Carro? – e un incavo cranico dove si colloca l’occhio (quello di Horus?). Ma qui l’orbita va intesa come la traiettoria che risulta dall’attrazione di un corpo in moto intorno ad altri corpi.
Ellisse o cerchio, nell’accezione di Eliseo è orientata agli speciali effetti delle forze magnetiche e gravitazionali; è il limite d’una zona di influenza cosmica, in equilibrio tra simpatie e repulsioni.

La Spirale

Le Spirali logaritmiche abbondano in natura. Dai bracci dei cicloni tropicali, come gli uragani, dalle ragnatele e le conchiglie dei molluschi, via via fino al volo degli uccelli e degli insetti. I Falchi (come Horus?) si avvicinano alla preda secondo una spirale logaritmica: il loro punto di vista migliore forma un angolo con la direzione di volo, angolo che è l’inclinazione della spirale. Quanto agli insetti, si avvicinano alle fonti di luce seguendo una spirale logaritmica: tengono la luce del sole ad un angolo costante rispetto al loro percorso di volo. E, volando a spirale, ottengono un percorso rettilineo.
L’icona logaritmica di Eliseo si espande e si indirizza risolutamente verso l’alto, verso l’infinito del cielo perché è a Spirale la maggior parte delle Galassie dell’Universo, ciascuna delle quali può contenere fino ad un milione di stelle, e soprattutto la Via Lattea dove si trovano il sistema solare e la Terra. Il disco galattico in cui stiamo e che sarà possibile vedere, nelle chiare notti d’estate, attraverso le lame della Danza, ha quattro principali bracci di spirale che ruotano intorno ad un nucleo centrale, il bulge. Ciascun braccio è una spirale logaritmica con inclinazione di circa 12 gradi. Le Galassie a spirale, che contengono grandi quantità di polveri interstellari e di gas freddo, hanno un alone in cui le stelle tendono ad aggregarsi gravitazionalmente in ammassi globulari, di forma rotondeggiante. E hanno un loro colore: il blù, poiché sono costituite da una popolazione stellare giovane: stelle massicce e molto calde, dalla vita relativamente breve che occupano i bracci della spirale. Il popolo delle più longeve sta nel bulge e sono stelle di piccola massa, fredde e di colore rossastro. Nelle galassie, come in un mulinello, la velocità di rotazione diminuisce all’aumentare della distanza dal centro, cosicché le regioni più esterne del disco perdono terreno rispetto a quelle più interne. Gli astrofisici pensano che sia proprio questo moto di rotazione differenziale a dare origine ai bracci di spirale e a provocare la vita breve di alcune, che esplodono come supernove, o la nascita di nuove stelle.

Conclusione

K. Malevic, negli anni ’20 chiedeva ai fabbri (e a tutti gli altri creatori del mondo delle cose) di vestire il mondo con oggetti nuovi
(Bachelard)

Una vera conversazione intreccia l’armonia della reciprocità e la differenza del contrappunto. E non le mancano le sovrapposizioni di turno e le cadute.
I dispositivi materiali, i cosmogrammi visivi di Eliseo e le mie parole hanno in comune un piglio e un appiglio. Il piglio è la fiducia e la comune passione per un’attività libera che stia tra la creatività e il lavoro. Abbiamo già visto le caratteristiche della Danza, ma anche il mio testo vorrebbe farsi induttore di forze che volano per l’opera di Mattiacci. Spero quindi nell'”amalgama”, atto filosofale che ha sapore lontano di alchimia – la parola, greca, è giunta al nostro medioevo nella traduzione araba.
L’appiglio ha la simpatia trasformatrice di una calamita; sono i nostri nomi, quelli con cui firmeremo questo scritto. Nomina sunt numina. Eliseo è certamente un nome adatto ai cieli che esplora e Fabbri pare predisposto a trattare di forze e di metalli.
Eliseo (Mattiacci, Paolo) Fabbri, mettiamo il nome sotto il segno di Horus e auguriamo all’arte, la cui morte è infinitamente annunciata, una salute di ferro, anzi d’acciaio.(PF)

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