Elogio dell’Insapore


Introduzione all’edizione italiana di François Jullien, Eloge de la Fadeur, Seuil, Paris, 1996.
Traduzione italiana: Cortina Editore, Milano, 1999.


1.1.

… civili (cioè perfetti) in diversissimo modo come i Chinesi
(Leopardi, “Zibaldone”, 27 agosto 1821)

Nel 1975, al ritorno dalla Cina maoista, in preda alle ultime atroci convusioni della Rivoluzione Culturale, R. Barthes azzardava sommessamente una formula: “La Chine est fade”, la Cina è insapore1. Gusto del paradosso? Antifrasi ironica? Effetto di senso esotico, nella vena di Segalen o di Claudel? Apprezzamento di un diverso regime semiotico – un cambiamento di segno sul modello giapponese dell’Impero dei segni: il brusio lieve del senso, oltre lo scontro fragoroso dei discorsi ideologici?
Dieci anni dopo François Jullien, dedica all’Insapore un capitolo della sua ricerca sul Valore allusivo2 che svilupperà in questo libro delicato ed intenso, nitido quanto sorprendente: Eloge de la Fadeur.
L’insapore è davvero una forma di vita e una categoria estetica della cultura cinese classica, sotto il doppio profilo dell’oggetto e del soggetto.
/Dan/ è l’entrata linguistica, o il termine concettuale che designa insieme proprietà estesiche del mondo naturale e sociale e il distacco del soggetto, la loro dissolvenza incrociata.
Insipidezza nell’apprezzamento percettivo rarefatto, dimesso ritegno del carattere, riserbo e discrezione nelle relazioni intersogettive. Anteriore alle elaborazioni filosofiche Taoista e Confuciana, il tema gustativo dell’insapore si situa al centro del mondo cinese della vita, come esperienza concreta e sensibile.
Non è agevole per la nostra tradizione estesica ed estetica intendere il cenno che ci invita a lasciare la presa del sapore, la sua infatuazione (ma /fatuus/ proviene da /insulso/); dare dell’Insapore – inteso come assenza di percezione e di sensazione gustativa – una caratterizzazione completa e positiva, in grado di far da sfondo di ogni differenza, senza indifferenza. Senza insistere sulla traduzione “piena” del vocabolo fadeur, è il nostro lessico che si trova intriso di valore. L’insapido non vi è avvenente è percepito come mancanza e negazione. Conosciamo i suoi sinonimi: scipito, sciapo, sciocco, insulso, insipiente; ignorante e anche cattivo insieme ad arido e melenso e i suoi contrari: sapido, saporito, saporoso, gustoso, salace, fino a succulento, arguto, faceto. D’altra parte, se il gioco di senso ci permette di pensare insieme il sapere e il sapore (ex; non saper nulla e non saper di nulla), la terminologia del “gusto” pone e insieme resiste all’estensione estetica. Il gustativo, per la tradizione occidentale si coglie nell’opposizione buono/cattivo non bello/brutto3.
Per la cultura cinese invece il senso del gusto presenta una centrale intimità fisica che coinvolge tatto ed odorato. Ma indipendentemente dalle tassonomie esplicite (v. la teoria dei 5 sapori) ecc.; quello che più conta è l’Insapore come esperienza concreta, insieme sottile e tenue.
Per François Jullien l’Insapore non ha contrario: la Cina non crederebbe alle opposizioni semantiche diametrali che si convertono incessantemente l’una nell’altra. E neppure si colloca sulla categoria logica del subcontrari (fade éilnon sapido). Non si risolve nella nozione, cara a Blanchot e a Barthes, di Neutro. Rappresenta piuttosto l’articolazione interna di un solo termine. Occupa, nel pensiero cinese, il centro topologico di uno spazio sensibile che vede i sapori alla propria periferia. E in certo modo il sapore radicale, soffuso e sottilmente impregnante di ogni altro senso – sentore e sentire (sub-tilis è ciò che passa sotto l’ordito). Il suo paradigma è l’acqua.
Il suo modo di presenza è, diremmo, virtuale e tenue. Virtuale in quanto, logicamente anteriore ad ogni determinazione (che è appunto negazione), la Fadeur mantiene tutte le potenzialità negate dalle diverse attualizzazioni. È un sentimento dei compossibili che attiva il processo aperto e indeterminato dell’assaporare.
Diversamente dalla sincope, dallo stoss della sublimità e dall’iterazione dei deboli piacerini postmoderni, l’Insapore è un dispiegarsi scandito dai ritmi della natura e del sociale in cui è soffuso. Presuppone un soggetto non-preferente, ma propenso, a riconoscerne i versanti e le pieghe. Non è quindi un quietismo del sentire impersonale e indifferente, ma un’inclinazione a gustare ed approfondire, con intelligenza4 e distacco, una trasformazione sempre imperfetta. Parafrasando François Jullien è un patetico, lento ed evasivo formarsi di un sentimento d’assenza, ma che può sempre ritrovare la sua freschezza d’acqua.
L’Insapore è tenue nell’accezione etimologica, che non accentua il rarefatto e il sommesso, ma la tensione. La forza inesausta.

1.2.

François Jullien aveva iscritto la Fadeur all’interno di un progetto di Poetica (e di Retorica) Comparata. Attraverso Lu Xun, il grande scrittore cinese degli anni Venti, si trattava del ruolo della testualità cinese: ruolo valorizzante della critica – elogi e rimostranze; ritmi testuali; figure retoriche – citazioni e allusioni; maniere di lettura5. A buona distanza dall’effrazione analitica e dalle ecolalie ermeneutiche, aveva sottolineato il ruolo incitativo e figurativo del testo – xing e xiang – e dell’emozione che esso importa e trasporta.
In quell’occasione aveva riconosciuto nel Vento (feng) invisibile, pervasivo ed efficace, una categoria estetica generale del pensiero cinese. Dal III secolo nei giudizi critici la funzione pedagogica e morale comincia a sciogliersi dall’effetto artistico e culturale e al riconoscimento dell’articolazione tra sensibile e intelligibile succede una espressione di saggezza, una reperetorio di massime se non ancora un ideale o un modello.
In questo libro la portata dell’Insapore viene estesa ad altri stili della vita cinese come la cucina, la strategia, la calligrafia, la boxe e i giardini, ma sopratutto alla musica. Indica luminosamente il valore del resto del suono, e di quel silenzio che permette di intendere tutti i suoni possibili. Mostra come l’Insapore cambi segno dalla pittura (ritratti, paesaggi piatti e slavati) alla letteratura, attraverso una evoluzione storica che culmina nel XI secolo sotto la dinastia Song. Senza raggiungere la codificazione complessa dei sapori nella tradizione estetica sanscrita (i rudra), l’Insapore in Cina si fa ideologema, ideale di creazione poetica senza diventare costruzione teorica o salto mortale nell’ineffabile.
Proprio nella lettura della poesia, François Jullien – che analizza detti confuciani e parabole chen (zen per il Giappone), paesaggi su rotoli e trattati musicali – pratica una lettura esemplare del suo proposito e del suo stile, sottile ma non esigua, discreta ma capace di discriminazione. Una lettura alleviata dal metalinguaggio e avvenente, aperta ad altri gusti a venire. Con un linguaggio esatto senza essere meticoloso (parola la cui radice è /metus/, /paura/) procede alla progressiva formazione di un campo semantico, come la storia del termine nella critica letteraria cinese; le regole di assegnazione di senso negli Y Ching. Propone senza opporsi, procede per variazioni e per tocchi; vuole designare il senso ma impedire che che “faccia presa”.
Ed ha ragione: bisogna assumere e variare un punto di vista per rimetterlo in causa.

2.1.

La filosofia Chinese ha nomenclatura diversa dalla nostra ed ognuno sa quanto ella differisca.
(Leopardi, “Zibaldone”, 26 giugno 1921)

I diversi libri di François Jullien, filosofo e presidente del Collège international de Philosphie a Parigi seguono e richiedono una tratteggiatura. Il Percorso risultante e la figura, una rete, sono filosofici6. Non è la filosofia perenne e non c’è quadro generale che la pre-definisca. Il progetto non è totus, totalizzante, ma omnis, una globalità aperta e in movimento.
Fuori dall’esotismo, turistico o/e radicale, e dallo specialismo, mistico o erudito, il pensiero cinese permette di cartografare come terra incognita il nostro stesso pensare, le categorie che lo abitano all’insaputa.
I suoi fondamenti greci soprautto. Nel confronto con il sagen orientale non si tratta di pensare più grecamente ancora la grecità (l’utopia di Heidegger7) ma di sfruttarne l’eterotopia. Meglio, lo sfasamento di un pensiero che si è sviluppato senza passare per l’ontologia, senza contesto metafisico. Dalle strategie di pensiero (lo scontro ellenico diretto, logos contro logos si oppone all’indirezione dell’aneddoto obliquo taoista o confuciano) alla tattiche del discorso (la definizione socratica oppone l’indizio, ecc.)8.
François Jullien, che mira lontano per cogliere da vicino, ci invita a gustare quel saggio che un filosofo come Hegel, parlando di Confucio, dichiarava insipido e tautologico. L’Elogio dell’insapore e più ancora le opere seguenti, ci fanno assaporare una “‘trascendenza’dispensata dalla fede e riconciliata con la natura”. Come pronunciare un idioma filosofico senza ontologia, che prende le distanze o almeno un certo agio rispetto alla teoria senza farci cadere nella mistica? L’assenza del verbo “essere” nella lingua cinese è appena un indice. Come rispondere alla domanda “se lo sforzo della coscienza non portasse più a sdoppiare il reale per fondarlo sulla trascendenza (dell’Essere o di Dio) e se quello che cerchiamo di dire sul mondo, per renderlo intelligibile, non fosse più la ‘Verità'”? Se manca quel piano dell’essenza o dello Spirito che dispone il nostro orizzonte di senso – e a partire dal quale diamo Ragione – come calcolare le conseguenze di un accesso altro alla nozione di immanenza? Immanenza che la cultura cinese presenta come il spiegarsi armonioso e regolare della vita e della sua misteriosa efficacia, a cui il saggio o lo stratega è tenuto ad adattarsi, con sapiente insipienza. Dopo averne riconosciuto i principi e colto la logistica del cambiamento, le cose vanno da sé; non resta che agire tempestivamente, senza forzare le situazioni, gli attori, i tempi e i luoghi. Il saggio è opportunista e fade, la sua fisionomia sbiadita e il suo fare scialbo e poco pronunciato; è “senza idee, senza necessità, senza posizione e senza io”. Non si opppone al mondo qual è a nome di valori che lo trascendono (è la nostra figura dell’intellettuale), ma la sua efficacia è massima perché interviene sulle condizioni a priori del processo e non sulle conseguenze. È un anti-eroe con il fiuto, diremmo noi, cioè sa assaggiare il non-sapore delle circostanze, dei fattori portanti, al potenziale di situazione. Se si contraddice, ebbene si contraddice. Ma la sua efficacia è inesauribile.

2.2.

Studiando la guerra e gli esagrammi degli Y Ching, Lao Tzeu e il Libro dei Mutamenti, i saggi confuciani e i mistici chen, critici, letterati, cortigiani e burocrati, François Jullien moltiplica le risposte singolari ai problemi filosofici che hanno permesso cattive domande. In particolare una problematica troppo attuale del Vuoto (cit.) e dell’inazione contemplante (che nulla sia fatto). François Jullien ha ragione d’insistere. I personaggi filosofici della Cina: la Natura Originale del Taoismo – il tao insipido e inesauribile – e il Ritratto del Saggio Confuciano sono agli antipodi da una teologia negativa e da una prospettiva dell’Assoluto. Come l’Insapore, il vuoto scintilla per la ricchezza virtuale di ogni compossibile divenire.
Ad esempio, quello che resta quando cessa la musica (fading) non risuona allegoricamente su di un’altra dimensione (un aldilà), ma riverbera (un inoltre) in modo inesauribile nell’emozione dell’ascolto9. Non si tratta di catarsi né di un raggiunto stato ideale di metropateia, medietà o mediocritas aristotelica, ma di una vibrazione passionale di tensioni e di distensioni. E neppure si tratta d’inazione, ma di lasciar che le cose accadano (cheng) modulando, senza regolarne i creodi, le cogenze dei loro percorsi. Poiché ha il fine adattivo di trasformare il mondo e non quello regolativo di asserire il vero, il saggio deve “non far nulla ma che nulla non sia fatto”. Non ha il compito di generare Eventi, ma piuttosto di specificare delle esperienze nella loro coerenza performativa (li). Ma è chiaro in qual senso il saggio agisca senza agire, sia partecipe nel distacco e impassibilmente appassionato.

3.1.

I.: “Così un colloquio da dimora a dimora rimane dunque quasi impossibille”
G.: Ella ha ragione a dire “quasi”. Era pure sempre un colloquio infatti […] un colloquio appassionante”
(Heidegger)

L’opera di François Jullien è come il preambolo ad una traduzione.
Non solo perché ogni tipo di comportamento significante ha carattere dialogico, ma perché da Peirce a Lotman tutta la teoria del significare ritiene che “la natura dell’atto intellettuale si può descrivere in termini di traduzione: la definizione del significato è una traduzione da una lingua a un’altra, mentre la realtà extralinguistica è anch’essa concepita come un tipo di lingua”10.
Transduzione testuale e trasposizione culturale che riconoscono tutta l’intransitività della lingue e delle culture. (Ad esempio, come usare psicanaliticamente l’idioma cinese? Come esigere il Tutto Dire della talking cure a chi s’esprime per allusioni e sottintesi, impliciti e presupposizioni?
E come ottenere, se non per da ze bao, l’espressione di un dissenso politico frontalmente formulato da chi usa un parola sinuosa?)
Le lingue e le culture sono forse incommensurabili, ma non incalcolabili. Anziché prendere il partito “crudele” della irriducibilità e della inconciliabilità degli idiomi, cercarne o forzarne l’estraneità irriducibile – come hanno fatto Barthes o Baudrillard per il Giappone o l’America – François Jullien accetta la sfida che gli impone il progetto comparativo. Sa bene che non si puo pensare parola per parola e che per accedere a un senso è sempre necessario riformulare un testo. Non basta “perifrasare quel che in modo velato accenna” come vorrebbe Heidegger quando prova invano a formulare il concetto giapponese di Iki. Questa forma complessa di “seduzione distaccata” che compone un gesto (bushido) di protensione e una ritensione (Zen) e richiede un’analisi semantica complessa come quella di Kuki Shuzo11. Un’alterità tradotta.
Tradurre implica una doppia simultanea lettura, da vicino e da lontano, che richiede conoscenze sintattiche e soprattutto tattiche discorsive. Ora, ci sembra che il saggio cinese, come lo ritrae François Jullien, con tutto il suo insapore, sia il prototipo stesso del traduttore. Polivalente e accomodante, deve saper esplicitare il testo senza l’illusione di esaurirlo (per una massima cinese un discorso esplicito è tale quando non possiamo aspettarci più niente da lui). Deve riconoscerne le pieghe (se non le articolazioni), le salienze senza la pretesa di una pregnanza definitiva. Deve sospendere il proprio stile – a scapito dell’io, del carattere, ecc. – infondere, far avvenire un senso che non sarà definitivo (ogni stato di lingua ritraduce altrimenti i propri testi e quelli altrui, la buona traduzione sa che ha la penultima parola).
Ciò nonostante tiene fermo il principio che i linguaggi muovono in maniera asintotica verso una mutua intelligibilità; che nella traduzione gli idiomi si assaporino in profondità per trovarvi risposte che consentano di formulare domande imprevedute e nuovi problemi, presupposti dalle domande. Al topos dell’ineffabile e dell’intradicibile succede la postura che fu già di Goethe: la traduzione è un altro testo che non sta in vece dell’altro ma al suo posto (“so dass eins nicht anstatt des andern, sondern and der Stelle des andern gelten solle”)12. Testo nuovo che può arricchire la lingua di partenza e quella d’arrivo.
Per questo, se siamo accanto a François Jullien quando oppone la acquorea esperienza cinese dell’insapore alla litote di Gide o alla semplicità affettata di Verlaine e di Fauré; se è giusto rivendicare alla Cina l’orginalità sensibile radicata nell’immanenza, possiamo però fermarci a questa intraducibilità? O non vogliamo cercare piuttosto altri testi artistici in cui l’evasività e la rarefazione, l’evanescenza e la riserva siano, esplicitamente o meno, fondati sullo stesso criterio di una “trascendenza” riconciliata con la natura e dispensata dalla fede?
Penso a Lucrezio, letto da Calvino nel suo elogio della Leggerezza: “la poesia dell’infinita potenzialità imprevedibile così come la poesia del nulla nascono da una poesia che non aveva dubbi sulla fisicità del mondo”; o ai propositi di Qfwfq, il mollusco gasteropodo de La spirale: “dato che non avevo forma mi sentivo dentro tutte le forme possibili”13.
E ad esempio in alcune forme della etichetta occidentale: nel labile incanto delle sue maniere, quando non è necessario essere maleducati per essere autentici, non c’e forse un equivalente dell’Insapore? Penso alla discrezione, limpida ampolla d’acqua nel Galateo di Della Casa, e ad ogni pratica delle forme in cui “la cortesia, non è dissimulazione dei segni, ma risoluzione del desiderio nell’offerta del segno”14. Ci sono forse forme di Dandismo che realizzano l’ideale della Fadeur (e la seduzione distaccata dell’Iki)?
Comunque sia la traduzione – la quale tratta l’esprimibile quanto l’inesprimibile – nella tensione a rendere traducibile l’intraducibile, può dispiegarsi in nuovi significati. E nello stesso tempo invita, all’interno di una tradizione, a porsi all’ascolto al dialogo di voci dissonanti, di testi non canonici: i Paesaggi della densità di Wang Meng, opposti a quelli dell’Insapore, le scuole filosofiche; i Mohisti, che non chiedono al volto del saggio di attenersi alla massima: segni particolari nessuno.

3.2.

All’origine del programma di François Jullien, c’è il proposito di una semiologia come propedeutica al sapere sinologico15. Si trattava, allora di una teoria di segni e dei codici vincolata al modello linguistico, lessicale e retorico. In grado di confrontare la diversità delle sostanze sensibili e trovare, ad esempio, il tema del’insapore nelle diverse manifestazioni espressive (visive, acustiche, ecc.), ma incapace di rispondere al problema più complesso: l’antiallegorismo costitutivo d’una cultura senza trascendenza dove il rinvio non opera tra piani di realtà ma tra ordini del discorso. D’altronde, osserva François Jullien, il segno fade non è neppure un segno: per esempio, la pratica ellittica ed evasiva dell’insapore impedisce ogni consistenza ai codici di senso (anche nel caso privilegiato della consultazione degli I King). L’attribuzione di senso è a carico del ricevente, che procede per incroci e sovrapposizioni.
C’è, per noi, una anomalia semiologica cinese. Non si tratta di asimbolia, ma di un assottigliamento, di una sottigliezza della significazione che non offre presa a categorie semiologiche costruite per lo studio codificato della rappresentazione e secondo il principio distintivo del binarismo (segno/referente, donotazione/connotazione e così via). Si rifletta alle due posture che si possono assumere rispetto alla lettura: quête del senso o piacere dell’assaporare. Non si tratta solo di diverse valorizzazioni differenti: son in gioco pratiche semiotiche più fondamentali. François Jullien lo riconosce quando si trova distinguere tra allusione e simbolo, segno conativo e segno ammortizzatore o passa in rassegna delle figure retoriche e degli atti discorsivi nella critica testuale della Cina classica16.
Ma il paradigma semiologico non regge all’anomalia cinese. Così come non può sostenere i problemi di rompicapo posti dalla ricerca semiotica sull’India, (nota) e in particolare sul Giappone (basti pensare al concetto di Iki o a quello di kire tzusuki o cut-continuum, cioè la simultanea discontinuità che permette la significazione e la sua continuazione modulata). Queste repliche anomale sono in grado di aiutarci a riformulare le nostre domande? Ritengo di sì, alla condizione di abbandonare la stessa nozione di segno che è diventata per la semiologia, come la nozione di parola in linguistica, un ostacolo epistemologico. La semiologia deve farsi semiotica, una disciplina testuale in grado di cogliere come una cultura elabora, trasmette e interpreta il senso attraverso le diverse forme e sostanze significanti17.

4.1.

Sarebbe saggio tornare al progetto semiotico con l’esperienza cinese dell’Insapore. A partire non più dai segni, dalle categorie e dalle regole, ma dai processi e dalle strategie di senso. E da nozioni quali aspettualizzazione e ritmo; azioni e passioni; modalità esistenziali (virtuale, potenziale, attualizzato, realizzato); enunciazione (indici o deittici) e atti di discorso (presupposizioni, implicature, allusioni). Solo così si spiega, nella Fadeur, il rapporto reversibile dei termini contrari, la loro relazione partecipativa (neutra o complessa) che è dell’ordine dell’enunciato; e si ricomprende la singolarità della relazione enunciativa: il testo, pittorico, poetico, musicale ecc. incita l’enunciatario all’emozione e alla ripresa efficace del senso.
Inoltre il progetto semiotico si fa carico della problematica estesica a differenza del paradigma semiologico della rappresentazione. Greimas, ad esempio, ha mostrato nella lettura dell’Elogio dell’ombra come un’insipida oscurità possa apparire allo scrittore giapponese Tanizaki “fatta di corpuscoli, come d’una cenere tenue, ma di cui ogni particella risplendeva di tutti i colori dell’arcobaleno”18: ceneri del mondo dell’Insapore.
L’apprezzamento semiotico dell’estesia è una condizione necessaria per riconoscere il ruolo specifico delle figure del mondo, l’acqua, il vento e il loro specifico valore estetico e attraverso la mediazione del corpo proprio porre il problema della passione e dell’efficacia simbolica. In questi termini, e non solo in questi, potrà la semiotica svolgere il suo ruolo d’organon della ricerca?
Ci piace riconoscere nell’Elogio dell’insapore questo gesto deittico fermo e sospeso, esatto e indeterminato. Quello che R. Barthes, un autore che leggiamo in filigrana nello stile di François Jullien, attribuisce alle statue nel giardino di Marienbad. Paradigma del senso e della sua desiderata levitazione, accenna alla Cina lontana e vicina.


Note

  1. Barthes, di cui è noto il gusto per gli esagrammi, chiamava fadeur il suo assenso alla Cina; un’acquiescenza nel silenzio, senza presa di posizione, senza scelta quasi un’indifferenziazione positiva. Vedi R. Barthes par R. Barthes, Seuil, 1974. torna al rimando a questa nota
  2. La valeur allusive, des catégories originales de la interprétation poétique dans la tradition chinoise, (Contribution à une réflexion sur l’alterité culturelle), Ecole française d’Extrème otient, Paris, 1985. torna al rimando a questa nota
  3. Vedi per tutti Condillac, Trattato delle sensazioni, parte 1, cap. X, 1.
    Ma vedi per contro il suo proposito sorprendente: “Dotando di sensibilità solo l’interno della bocca della nostra Statua, non posso farle prendere alcun cibo; suppongo quindi che l’aria stessa le procuri tutti i sapori…”. torna al rimando a questa nota
  4. L’intelligenza in Cina corrisponde alla capacità di intendere e di vedere! torna al rimando a questa nota
  5. Ripresi in seguito ne Le détour et l’accès. Stratégies du sens en Chine, en Grèce, Grasset, Paris, 1995. torna al rimando a questa nota
  6. Vedi per tutti François Jullien “Un usage philosophique de la Chine”, Le Débat, ott. 1996. torna al rimando a questa nota
  7. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano, 1973, cap. da “Un colloquio nell’ascolto del linguaggio”. torna al rimando a questa nota
  8. Ne è esclusa la métis greca, col suo kairos, che non hanno mai fatto l’oggetto, osserva François Jullien, di un’elaborazione filosofica estesa e che restavano ai margini del Logos. torna al rimando a questa nota
  9. Sulle passioni vedi Paolo Santangelo, Le passioni nella Cina imperiale, Marsilio, Venezia, 1997; per l’ipotesi catartica in poesia vedi S. Owen, Traditional chinese poetry & poetics; omen of the world, Madison, Mass., 1985. torna al rimando a questa nota
  10. J. Lotman, La noosfera, l’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, Marsilio, Venezia, 1985. torna al rimando a questa nota
  11. Vedi Kuki Shuzo, La struttura dell’Iki, Adelphi, Milano, 1992. torna al rimando a questa nota
  12. Per Goethe vedi G. Steiner, Dopo Babele, il linguaggio e la traduzione, Sansoni, Firenze, 1984. torna al rimando a questa nota
  13. Vedi rispettivamente Lezioni americane, Garzanti, e “La spirale” in Le Cosmicomiche, Einaudi, Torino,1965. Qui ancora: “Ogni cellula pensava per conto suo tutto il pensabile tutto in una volta […] in quel modo indeterminato di sentirsi lì che non escludeva nessun modi di sentirsi lì in un altro modo”. torna al rimando a questa nota
  14. Baudrillard J., in un articolo consacrato al Butho, coglie l’Insapore della cortesia orientale: “È la cortesia, non dissimulazione dei segni, ma risoluzione del desiderio nell’offerta del segno”. Da “Intorno a R. Barthes e al Giappone”, Mitologie di RB. I testi e gli atti, Pratiche Ed., Parma, 1986 (a cura di P. Fabbri e I. Pezzini). torna al rimando a questa nota
  15. La valeur allusive, op. cit. torna al rimando a questa nota
  16. In particolare in Le detour et l’accès, op. cit. torna al rimando a questa nota
  17. M. Yamaguchi, ad esempio, ha dimostrato in modo esemplare l’omologia testuale tra la distribuzione dei ruoli nel teatro no e nella monarchia nipponica. “La structure mythico-théâtrale de la royauté japonaise”, Esprit, febbraio 1973. torna al rimando a questa nota
  18. Vedi A. J. Greimas, Dell’imperfezione, Sellerio, Palermo, 1988 (introduzione di P. Fabbri). torna al rimando a questa nota
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