Introduzione a Della rappresentazione di Louis Marin


Da: (con Lucia Corrain), Louis Marin, Della rappresentazione, a cura di Lucia Corrain, Meltemi, Roma, 2001.


 

‘L’immagine mi dice se stessa’, vorrei dire. Vale a dire, ciò che essa mi dice consiste nella sua propria struttura, nelle sue forme e colori.
Wittgenstein, Ricerche filosofiche

In apertura

È questa la prima raccolta di saggi pubblicata in Italia di Louis Marin: uno studioso che, a ragione, può essere considerato un maître à penser della cultura francese. È un modo per rendere giustizia a una personalità il cui lavoro ha segnato profondamente lo studio della rappresentazione visiva, e non solo. Ma anche per ricordare uno studioso che aveva frequentato con costanza e passione l’Italia. In un arco di tempo pressoché ventennale, precisamente dagli anni settanta fino alla fine degli anni ottanta, a chi frequentava un certo ambiente della semiotica italiana, capitava abbastanza frequentemente di ascoltare una conferenza, o anche una semplice lezione universitaria, di Louis Marin. Una figura piuttosto interessante, con il volto circoscritto da una corta barba bianca, che quando iniziava a parlare coinvolgeva totalmente il pubblico con la sua voce carnosa, con la sua oratoria appassionata, oltre che per i temi che trattava. I contenuti delle sue comunicazioni, (e poi i testi scritti che ne seguivano) sono stati, e continuano a esserlo, di grande stimolo per le molte persone che hanno avuto il piacere di conoscerlo e per tutti coloro che hanno al centro dei propri interessi la rappresentazione visiva e che, per forza di cose, sono costretti a un proficuo incontro con il suo pensiero.
Anche scorrendo semplicemente i titoli dell’imponente mole di scritti (più di trecento articoli e una ventina di libri, qui riuniti in una bibliografia completa) che Marin ci ha lasciato, è possibile rendersi conto dell’ampiezza dei suoi interessi. Dalle problematiche teoriche, come quelle sull’enunciazione e sul segno, all’autobiografia; dalla regalità e la politica barocca al sublime e alla mistica; dalla pittura “classica” (in particolare Poussin e Philippe de Champaigne) a quella contemporanea (Klee, Pollock, Stella, Jasper Johns, Cremonini); dagli aspetti legati alla culinaria e alla corporalità fino alle favole di Esopo e Perrault, senza trascurare il teatro, il cinema, la fotografia. Il tutto sorretto da una metodologia implicita nel suo saper fare descrittivo, capace di mettere in relazione anche cose o aspetti molto diversi, attraverso l’individuazione di costanti e meccanismi analoghi. È il caso, ad esempio, del libro Utopiques: Jeux d’espace (1973), dove, partendo dal rigoroso studio dell’Utopia di Tommaso Moro, estende l’analisi ad altre rappresentazioni utopiche: una pianta di città del XVII secolo, un frammento di Borges, la città cosmica di Xénakis, fino alla “degenerazione utopica” di Disneyland.
Ne emerge il ritratto di un intellettuale caratterizzato da una variegatissima ricchezza di sapere, per il quale la ricerca diventa una forma di vita e mai qualcosa di simile a un’ossessione fine a se stessa; per Marin, infatti, la ricerca rappresenta un’originalità e un’eleganza dello sguardo, che imprime la sua marca fino ad appropriarsi in maniera personale e inedita degli oggetti e dei testi (Quéré 1994). Una componente, questa, che emerge con grande evidenza nel percorso del suo fare, dove il continuo ritorno a temi già trattati, il riprenderli per ampliarli, metterli in rima fra di loro, farli entrare in un diverso contesto problematico, non va affatto considerato come pura e semplice ridondanza, bensì come un modo per accostarsi sempre più profondamente ed esaustivamente agli oggetti di analisi. La ricorrenza reiterata dell’Autoritratto del Louvre di Poussin, per fare solo un esempio, mira a esaurire tutte le potenzialità del testo, trattandolo all’interno del carattere metapittorico della cornice, del ruolo del pittore che dipinge se stesso, della relazione con altri autoritratti e con l’autobiografia, e altro ancora. E in questo senso, va anche interpretato il suo modo di scrivere: quella di Marin è, infatti, una scrittura lenta, che porta a una sorta di intimità con il suo pensiero, che ha il potere di catturare il lettore.
Come si può facilmente comprendere, data la vastità degli interessi di Marin, molte avrebbero potute essere le scelte possibili per “confezionare” un’antologia di suoi scritti. Quella che qui viene presentata privilegia il rapporto tra semiotica e filosofia, in quanto questa liaison costituisce una delle sue prime e prioritarie preoccupazioni, rintracciabile, con differente gradualità, in pressoché tutta la sua produzione.
Lo sguardo di Marin, dunque, viene a caratterizzarsi per la presenza di due fuochi, che lo portano a una visione di tipo “ellittico”. Ma se il termine ellittico può evocare anche il significato di omissione di qualcosa che, al contrario, il contesto richiederebbe, nel caso di Marin non è affatto così. Il suo sguardo ellittico, infatti, non è mai caratterizzato da fissità e monocularità, è piuttosto il risultato di un continuo e costante accomodamento fra due fuochi: quello filosofico e quello semiotico, all’interno di un vero e proprio rapporto dialogico. Il localismo e le problematiche emergenti da un singolo testo pittorico, da una serie di testi vengono da Marin inquadrati entro in un’ottica di cause e principi più generali. Il risultato finale, per quanto raffinato e minuzioso, può risultare talvolta, di non facile comprensione specie a coloro che lo leggono stricto sensu, in particolare ai filosofi e agli storici dell’arte “puri”, più pesantemente ancorati ai rigidi steccati disciplinari.

Il formante semiotico

Per quanto sia evidente che in Marin filosofia e semiotica procedano in parallelo, ripercorrendo i suoi scritti non è difficile constatare come il paradigma semiotico svolge un ruolo di fondamentale importanza nella formazione del suo pensiero. Un ruolo, a nostro avviso, non sufficientemente messo in luce nella pur interessante Postfazione di Giovanni Careri, uno dei suoi migliori allievi. Infatti, leggendo anche solo gli articoli qui riuniti, è possibile ricostruire il background semiotico dello studioso francese, fortemente ancorato alla conoscenza dei padri fondatori della disciplina: Peirce, Hjelmslev, Barthes, Jakobson, Greimas, Benveniste, per citare solo quelli maggiormente accreditati. Ma di pertinenza semiotica risulta essere anche l’intero dispositivo teorico e la panoplia della strumentazione impiegata. Sul piano del metodo si ritrova sempre l’esigenza di reperire le equivalenze strutturali, come testimonia qui la recensione del libro Arte del descrivere di Svetlana Alpers (1984), dove, pur apprezzando la qualità del volume, viene segnalata la mancanza di una precisa definizione semiotica della coppia oppositiva descrizione vs narrazione; una tematica alla quale, invece, Marin ha dedicato molte delle sue riflessioni, apportando anche contributi originali, come ad esempio nell’opera Le récit est un piège e, in questa raccolta, nell’articolo Mimesi e descrizione. E inoltre nel ricorso ai dispositivi di modalizzazione, del quadrato semiotico, della narratività e dell’enunciazione, debraiaggio e embraiaggio inclusi; nell’esigenza di esplorare i fenomeni metatestuali e di riflessività del segno; nella definizione del ruolo dell’icona tra l’indice e il simbolo, dando vita a quella che si può considerare una vera e propria semantica della rappresentazione, comprensiva della sua pragmatica, cioè della disimplicazione dal testo delle sue condizioni di comunicazione.
Un altro interessante capitolo della produzione di Marin riguarda la semiotica e la storia della filosofia del segno. In un articolo dell’Encyclopedia of Semiotics riprende l’insieme delle sue ricerche sulla critica della rappresentazione nella Logica di Port Royal, già esplorata da Michel Foucault. In particolare, è interessato alla riflessione sul segno linguistico e visivo, come il ritratto e l’autoritratto, su cui si fonderanno le sue ricerche successive fino all’ultimo straordinario libro sul grande pittore “giansenista” Philippe de Champaigne. E ancora lo studio della teoria segnica e retorica nei Pensieri di Pascal costituirà una costante che farà interagirà con i testi visivi della cultura classica francese.
È Lyotard che per primo ne ha fissato con acutezza il ruolo sacramentale del segno nella formazione dell’attività successiva di Marin, definendolo “sémioticien de gran talent”, per il quale “Que le signe est l’hostie et l’inverse”1.

L’apparato formale dell’enunciazione

Ma il movimento decisivo che ha fatto di Marin il maggior semiologo dell’arte è l’estrapolazione e la ri-figurazione del concetto e del meccanismo di enunciazione. A partire dall’analisi di Benveniste (1946) sui tempi verbali, e tenendo sempre in debita considerazione le ricerche linguistiche e stilistiche che ne sono conseguite – tra le quali si ricordano quelle della Banfiel (1982) sul discorso indiretto libero – senza preoccuparsi degli “specifici”, Marin non estende al visivo le nozioni linguistiche, ma ripensa il paradigma dell’enunciazione nell’ambito di una semantica della rappresentazione, intesa come meccanismo di senso soggiacente alle differenti realizzazioni espressive. Alla radice del termine /Enunciazione/ c’è nun-, un gesto d’assenso che troviamo in verbi come /an-nuire/.
Marin, dunque, ha integrato la visione semiotica degli anni settanta, troppo legata alla teoria “oggettale” dell’informazione, con una componente essenziale come quella dell’iscrizione della soggettività e dell’intersoggettività nel testo stesso della rappresentazione. Inoltre, estende la svolta “soggettale” di Benveniste e ne verifica con analisi puntuali (sia negli autoritratti che nelle autobiografie, in particolare quella di Stendhal), la pertinenza e la relativa traducibilità in testi appartenenti ad altri sistemi semiotici. Nella continua e sistematica messa a punto di questi aspetti incontra e sviluppa le ricerche di studiosi come Schapiro (1973) e Uspenskij (1973), che avevano intuito la relazione tra frontalità e profilo come strategie deittiche, presentative della rappresentazione, aprendo contemporaneamente la ricerca della semiotica a venire, fra cui va ricordato l’importante lavoro della Frontisi-Ducroux (1995) sul problema delle apostrofi nella produzione vascolare greca.
La deissi, nel lavoro di Marin, si fa apodeissi. Non applicazione apodittica di modelli canonici a un testo qualsiasi – per qualcuno sarebbe questo il fare semiotico!? – ma di-mostrazione articolata della polisemia dei punti di vista visivi e della polifonia di quelli linguistici. Anche se spesso la dimostrazione si è incentrata sulla rete antropomorfa dei gesti o degli sguardi – tracciati invisibili che reggono l’enunciato del quadro -, le applicazioni alle figure di cornice risultano altrettanto efficaci. Così come l’estensione del punto di vista a quella dominante del potere che permette una lettura intrigante delle rappresentazioni della regalità seicentesca in Francia.
Le strategie complesse di iscrizione della soggettività e i sofisticati meccanismi intersoggettivi hanno aperto un futuro a tutto un campo di ricerca che prima di Marin non esisteva.
Ma Marin ha mirato più lontano e compiuto un passo ulteriore: ha ripensato il piano filosofico che presuppone e sostiene la teoria enunciazionale. Per lui, infatti, “tutto il sistema semiotico della lingua precipita nella semiotica dell’enunciazione”.
Una tematica, quella dell’enunciazione che percorre come un filo rosso gran parte della produzione scritta, di cui si può individuare l’incipit per quanto concerne la pittura in un fondamentale articolo del 1975, in cui sotto le luci dei riflettori viene posto il cartone di Le Brun raffigurante l’incontro tra il re di Francia e quello di Spagna e dove si individua concretamente il sistema di “traduzione” da un sistema all’altro, dimostrando che la pittura può con mezzi propri, talvolta anche molto raffinati, esprimere la soggettività e l’intersoggettività, esattamente come fa la lingua con il sistema deittico. Marin, sulla scorta di Benveniste, si propone di individuare negli enunciati iconici la fondamentale distinzione fra le due fondamentali modalità discorsive: “storia” e “discorso”.

È evidente che esiste sempre un narratore, anche qualora la sua enunciazione si segnali nella soppressione, nella cancellazione o nella dissimulazione delle sue marche nell’enunciato. Benveniste spiega che il piano storico dell’enunciazione si delinea come enunciazione nell’escludere ogni forma “linguistica” autobiografica, “io”, “tu”, “qui”, “ora”; e nell’ambito temporale, il “presente”, per ricorrere alla forma della terza persona e ai tre tempi che caratterizzano il passato, l’aoristo, l’imperfetto e il piuccheperfetto. Qual è allora il piano specifico di enunciazione del quadro narrativo? Qual è la sua istanza? Qual è la situazione narrativa in cui l’atto narrativo ha luogo? Si avverte qui il carattere radicale della questione posta dallo spostamento del “modello” linguistico all’opera pittorica poiché per il testo scritto, l’analisi ha come oggetto l’espressione del tempo nella sua struttura formale e materiale. Ci sono dei verbi, dei pronomi nel linguaggio della pittura? Include marche temporali? Può un quadro, nella sua immanenza esprimere il passato? E il problema si complica [per il fatto] che non si tratta solo di racconti, ma di racconti storici, che hanno una pretesa di verità, che vogliono presentare degli avvenimenti accaduti veramente nel passato (Marin 1980, p. 144).
Una delle chiavi di ingresso all’enunciazione pittorica è costituita dalla presenza dei deittici, ma nel caso di un quadro di storia – come quello preso in esame da Marin – sarà sottoposta a una effettiva “cancellazione”, o più precisamente alla “denegazione” di ogni riferimento delle coordinate della soggettività, dello spazio e del tempo proprie della situazione di enunciazione/ricezione. La messa in discorso, il modo di narrare, in pittura riguardano soprattutto la spazialità e la temporalità. E poiché la pittura non dispone di un supporto isomorfo al tempo raccontato – come invece la scrittura – essa potrà far ricorso alla temporalità solo attraverso il dispositivo che le è proprio: la spazialità. Attraverso la spazialità, dunque, è possibile rintracciare la grammatica del sistema deittico, che per Marin viene sostanzialmente veicolato dalla prospettiva legittima. Uno strumento tecnico, governato da rigorose leggi ottico-geometriche, attraverso il quale si viene a stabilire una coincidenza fra l’occhio “produttore” e lo sguardo “osservatore”. D’altra parte, è solo a partire da quel preciso punto di vista che l’enunciatore può imporre una lettura univoca dell’enunciato, anche perché tale punto viene a simulare la sua stessa posizione nell’enunciato, luogo che l’osservatore è strategicamente obbligato a rivestire. Il punto di vista prospettico è l’equivalente dell’io-qui-ora, ma, nel quadro di storia, l’istituzione di tale punto viene negata, in quanto:

la presenza dell’avvenimento nel suo istante di rappresentazione, nel suo enunciato, si impone allo spettatore nel suo divenire autonomo al posto del processo di produzione rappresentativa: “in luogo di …” o “al posto di …”, ovvero per spostamento del suo punto di origine. L’enunciazione si oggettiva nell’enunciato, il processo di produzione nella narrazione nel prodotto del racconto: oggettivazione attraverso la quale, […], il racconto diventa storia (Marin 1975, p. 164).
Un’oggettivazione che anche la particolare postura dei personaggi del cartone analizzato da Marin, mirante all’annullamento di questo punto, tende a rimarcare. La scena, infatti, si svolge al di fuori dell’osservatore, sembra narrarsi da sola, anche perché gli attori della narrazione, disposti in fregio, sono pressoché tutti in una posizione di profilo che esclude qualunque comunicazione con il fuori quadro e che annulla l’altra direzionalità, propria della prospettiva: quella convergente nel punto di vista.
Sulla scorta sia dello scritto di Marin sia del contributo di Greimas e Courtès (1986) – Omar Calabrese (1985) va ben oltre il fatto di porsi la questione se sia corretto applicare le procedure dell’enunciazione alla pittura e preferisce porsi la domanda se “le teorie dell’enunciazione non siano pertinenti a presunte o reali teorie della pittura in quanto attività comunicativa”. Questo interrogativo lo porta a concludere che “la teoria dell’enunciazione non è applicabile alla pittura, ma è una vera e propria teoria della pittura; [e] che la prospettiva lineare non solo è un dispositivo tecnico, logico e filosofico, ma è una teoria della comunicazione” (Idid., p. 37).
Se il polo dell’attività linguistica che attualizza l’enunciazione è un processo proiettivo presente nell’enunciato che si manifesta con la cancellazione (come nel caso di Le Brun) o sottolineatura del punto di vista, questo porta alla costituzione di effetti illusori contemporaneamente opposti e sincretici: l’illusione referenziale e l’illusione enunciazionale. Più precisamente, porta alla costruzione di un discorso “oggettivo” stabilendo meccanismi di costruzione del testo apparentemente estranei al soggetto dell’enunciazione, ma che inevitabilmente lascia nel testo marche della sua soggettività, perché il testo non può esprimere l’oggettività se non a partire da un punto di vista, quello in cui l’enunciatore e l’enunciatario vengono a coincidere. La referenza viene così a essere semplicemente un simulacro della “verità” del mondo naturale.
Dunque, la prospettiva rileva una sorta di atto “schizofrenico” rispetto alla polarità soggettività/oggettività, che fra l’altro ha l’intrinseca conseguenza, sul piano dell’oggettività, di far “dimenticare” il supporto materiale del quadro, poiché a livello di strategia l’idea di supporto materiale si trova completamente “assorbita” in quella di quadro come piano trasparente.

I testi raccolti

L’antologia si apre con un articolo teorico dedicato alla questione della persona e del tempo nel discorso, nel quale l’autore fa interagire semiotica e filosofia.
Nel saggio che riguarda la mappa della città, dopo aver dimostrato che la pianta è la rappresentazione della produzione di un discorso sulla città, cioè di un’enunciazione a due dimensioni, l’una transitiva, in quanto rappresenta qualcosa; l’altra riflessiva, poiché rappresenta presentando qualcosa, si interroga sul modo in cui una mappa si costituisce enunciando l’enunciazione di un discorso sulla città. La scelta di fondo della mappa riguarda il ricorso alla descrizione, nella quale il debraiaggio enunciativo fa vedere l’oggetto descritto da tutti i punti di vista, senza avvalersi di uno di essi in particolare, producendo uno sguardo sinottico che include un ordine stabile dei luoghi, in una distribuzione di rapporti di coesistenza. Ma la mappa è contemporaneamente anche una narrazione, dal momento che è la reificazione del racconto, è la somma dei percorsi, o itinerari, possibili di un potenziale viaggiatore. Due modalità che nella pianta di una città possono interagire grazie alla presenza di articolatori di connessione del racconto e della descrizione, come ad esempio le scritte, i toponimi, le “legende”, le “vedute”, le “icone”, ma anche in base al ricorso a delegati dell’enunciazione concretamente raffigurati, che contemplano la città dal luogo stesso in cui lo spettatore la vede: un vero e proprio prodotto del dispositivo enunciativo. In questo modo, la città viene ritratta nella mappa secondo modalità veridittive che annullano la presenza di un soggetto produttore, ma al tempo stesso in ragione delle norme prescrittive e istruttive capaci di veicolare contenuti relativi al potere, diventa una “veduta” che non si limita a manifestare la pura e semplice verità. Come nell’esempio della mappa di Parigi di Gomboust – trattato nel saggio sulla cornice – in cui le due immagini di bordo con due vedute di Parigi, da Montmartre e la Galleria del Louvre, propongono a chi ne farà uso un percorso privilegiato: dal nord fino al centro, ovvero dal nord fino al luogo del re.
I due contributi, rispettivamente dedicati alla recensione del libro di Svetlana Alpers, dal titolo Elogio dell’apparenza, e al commento di un articolo sul trompe-l’oeil di Carpentras, Rappresentazione e simulacro, sono stati inseriti in questa raccolta nonostante appartengano a un genere diverso da quello del saggio di analisi testuale, perché non si limitano a parlare di ciò che altri scrivono, bensì iscrivono le problematiche trattate all’interno del più ampio contesto della rappresentazione.
Parlando dell’Arte del descrivere della Alpers, Marin valorizza l’opposizione strutturale fra l’arte italiana e quella olandese del XVII secolo, dimostrando che proprio attraverso la messa in sistema oppositivo dei due differenti modi di fare pittura possono essere tratti nuovi percorsi di analisi per l’arte in generale. E, insieme ad altri importanti suggerimenti, quello che più di ogni altro si iscrive nel generale percorso di Marin è sicuramente l’invito suggerito dall’arte olandese – fondata su una teoria della visione derivata dalla camera ottica – del ritorno alla “superficie”. Se l’arte olandese del secolo d’oro può fornire un nuovo modello di lavoro è proprio perché viene contrastivamente accostata a quella italiana, scalfendo le principali metodologie critiche che hanno insegnato a guardare le immagini pittoriche nel rapporto con la tradizione italiana. È così che si fa strada la caratteristica principale della pittura olandese, non narrativa, non alberiana, non finestra sul mondo, ma “superficie” che registra e replica la “superficie” del mondo. E che vede nel dispositivo della camera oscura la “deantropomorfizzazione” della visione, ovvero il fatto che la superficie del mondo si identifica, attraverso l’immagine, con la superficie retinica, dove il mondo produce da sé la propria immagine senza bisogno di una cornice. La camera ottica dunque condivide con il modo nordico di rappresentare alcune caratteristiche. In particolare quelle del potente effetto di realtà costruito sulla frammentarietà e sull’immediatezza che sembrano far sì che la natura possa riprodursi senza l’intervento dell’essere umano. Marin vede in questo ricorso alla superficie, nell’impiego della pittura nordica di un piano non albertiano, non narrativo un modo che potrebbe essere preso in considerazione per qualsiasi immagine pittorica. Un livello, quello della superficie, evidente ma spesso rimosso, dimenticato, la cui presa in carico impone che le descrizione sia soggetta a un costante affinamento che va ben oltre il paradigma filosofico del convenzionalismo dove ogni cosa è “nel suo nome e nella sua figura”. Guardare la superficie, con uno sguardo ravvicinato, significa anche vedere delle “cose” che perdono le parole che le designano e le definiscono. Come descrivere, ad esempio, nell’Arte della pittura di Veermer il particolare della mano del pittore che da lontano è una mano, ma da vicino un fascio di pure sfumature di luce che le fanno perdere la sua identità?
In Figure della ricezione nella rappresentazione pittorica moderna, Marin tratta il problema pragmatico del rapporto tra la rappresentazione come segno e colui che la riceve, la vede, la interpreta, la legge, del modo in cui un testo visivo iscriva al suo interno la struttura dello spettatore. Una prima figura, o come lo stesso Marin la definisce, “una configurazione essenziale delle marche e delle marcature della presentazione della rappresentazione pittorica moderna”, è la cornice (argomento che verrà qui ripreso in un altro articolo). Un elemento che ha uno statuto di esistenza indipendente da quanto rappresentato, poiché è la condizione semiotica di visibilità del quadro che ne regola la percezione condizionandone il passaggio dalla visione alla contemplazione estetica.
Entrando, invece, nel contenuto della pittura una figura della ricezione è il “commentatore”, ossia la metafigura dell’atto di ricezione, dell’articolazione fra la struttura di contenuto e quella di ricezione. E per spiegarne il suo ruolo, già teorizzato dall’Alberti, ricorre a due arazzi di Le Brun (di uno si è precedentemente parlato riguardo all’enunciazione in relazione alla prospettiva) che considera paradigmatici per la semiotica della rappresentazione pittorica. Nel primo arazzo, quello dell’incontro del re di Francia e di Spagna ai Pirenei, pur essendo, come si è visto più sopra, un’evidente denegazione dell’atto enunciativo, contiene parallelamente aspetti che guidano verso un corretto atteggiamento dell’osservatore. In esso, infatti, è raffigurato il “commentatore”, che esplicita il suo ruolo articolandosi in due diversi personaggi: nella figura del fratello del re francese, riconoscibile, che guarda, senza alcuna passione, lo spettatore fuori della scena e in quella di spalle a sinistra, anonima, che indica il centro della narrazione. Due figure che istituiscono l’osservatore in quanto tale, informandolo che deve partecipare solo attraverso la passione dell’admiratio, quella dello straordinario e del meraviglioso, ma priva di segni corporei. Complessivamente, una maniera per far vedere e leggere anche un discorso politico e storico mirante a dimostrare la superiorità della monarchia francese. Nell’arazzo raffigurante L’entrata del re a Dunkerque, dove il re da un’altura comanda alle sue truppe di attaccare la città, il singolare gioco di sguardi e di posture dispiega la corretta modalità passionale che deve tenere lo spettatore. Il re, simultaneamente centro dinamico della storia in movimento e “commentatore” del proprio racconto, con un gesto deittico indica la città da attaccare e con lo sguardo guarda fuori dalla scena lo spettatore, così come il fratello del re all’estrema sinistra reitera questo sguardo verso il fuori. Sull’albero in primo piano, ma a destra, un contadino, togliendosi il cappello, guarda la scena con un’espressione riferibile allo statuto della passione complessa dell’ammirazione che include la stima, la venerazione, il rapimento e lo stupore.
Il saggio si concentra poi sulla Manna di Poussin, nel quale Marin, anche sulla scorta della lettera-commento che Poussin invia a Chantelou, il committente del quadro, individua nel gruppo in primo piano composto da sette figure, una meta-rappresentazione che apre al livello simbolico della corretta lettura del quadro. Una sorta di istruzione per il lettore, il quale vedrà nel primo personaggio di tutto il quadro e primo delle sette figure a sinistra, il modello di comportamento da imitare per la corretta ricezione del dipinto. Una figura emergente anche perché unica raffigurata in piedi, con il palmo della mano aperta e leggermente sbilanciata indietro, che ammira la meraviglia della carità umana “capovolta” di una figlia che nutre la madre, esplicito invito a guardare con la stessa ammirazione, il racconto complessivo, la messa in scena di quell’esempio di carità divina che è la caduta della manna.
Nel contributo Ai margini della pittura: vedere la voce, viene affrontata un’altra tematica ricorrente negli scritti del nostro autore: quella dei limiti della rappresentazione. Esistono delle forme di rappresentazione il cui la materia dell’espressione costituisce un limite alla stessa rappresentazione: la pittura nella dimensione temporale, la parola e la musica in quella spaziale. Limite che, secondo Marin, per il pittore non sarebbe altro che uno stimolo verso sfide tecniche ed estetiche, che portano a risultati inediti, cui giunge attraverso la rinnovata manipolazione del sistema espressivo. In questo contesto si inserisce anche il problema della voce, più precisamente, il modo in cui la voce può mostrarsi allo sguardo, può essere percepita dall’occhio.
L’articolo sul problema della cornice ha come presupposto un assunto teorico di Marin. Nonostante lo studioso francese abbia sempre privilegiato l’espressione visiva del passato, ha tentato spesso di far interagire la pittura “moderna” con quella contemporanea, ritenendo che i due diversi momenti storici fossero accomunati da analoghe problematiche, anche se risolte in maniera diversa. Al “silenzio” della prima corrisponderebbe la “voce” della seconda, in quanto la pittura moderna avrebbe nascosto alla coscienza critica i problemi che incontrava e risolveva nella pratica, mentre la pittura contemporanea, al contrario, farebbe emergere come “soggetto” la sperimentazione e i problemi teorici. Le due tipologie della pittura – secondo Marin – entrerebbero così in un rapporto biunivoco stimolante nel quale la moderna, in un’ottica storica più tradizionale, tende a offrire spunti interpretativi alla contemporanea; ma, a sua volta, anche la contemporanea può dare origine a più articolate possibilità di comprensione, osservazione e interpretazione di quella moderna, in un’ottica più inedita e meno accademica. Un rapporto, questo, presente nel saggio dedicato alla cornice della rappresentazione, nel quale lo studio del cadre, all’intero di una linea di continuità, è indagato da Poussin a Frank Stella e dove l’Autoritratto del Louvre di Poussin viene messo in relazione con Le guet-apens di Cremonini, vero e proprio commento pittorico e teorico del primo, e con Gran Cairo di Stella, rappresentazione di una piramide o di un pozzo realizzata con l’esclusivo impiego di “cornici”.
In questo gioco di scambi tra passato e contemporaneità, Marin non dimentica di definire il ruolo dell’inquadratura. Parergon necessario, infatti, la cornice rende autonoma l’opera, che diventa così presenza esclusiva, oggetto di contemplazione, proprio grazie al fatto che la bordura si configura nella qualità di deittico, di dimostrativo iconico “questo”, nonostante il più delle volte la sua concreta presenza passi sotto silenzio, sembri scontata. In quanto elemento di separazione fra il reale e la finzione rappresentativa, la cornice è sia tratto enunciativo che metapittorico. È uno dei modi attraverso i quali la pittura è in grado di parlare di se stessa, può fare della metapittura.

Lo strumento enunciativo permette una caratterizzazione articolata della riflessione sulla soggettività iscritta nel corpo parlante e “segnante”, ed esplorabile attraverso quella retina esterna che sono i testi. Resta però da spiegare i desiderio e il piacere di spiegare. Per Marin è necessaria una “critica erotica”, ma che sappia mantenersi euristica. L’analisi della Tempesta di Giorgione, in questo volume realizza il progetto e pone molti interrogativi attraverso il dibattito in particolare con Derrida, fedelmente trascritto dallo stesso Marin.
Al termine della presentazione dei contenuti di questo volume, e ancora nell’ottica del ruolo che la semiotica ha svolto nella formazione del pensiero di Louis Marin, è doveroso constatare che lo studioso francese, oltre ad aver accolto, fatto fruttare positivamente e con grande originalità molti concetti della semiotica, ne ha parallelamente escluso altri. La stessa possibilità di un metalinguaggio è messa in discussione, e forse proprio per questa ragione non ha raccolto i suggerimenti di un’analisi semiotica del visivo articolata in termini di livelli: topologici, eidetici e cromatici. Analisi che permette di interrogare il testo nelle sue componenti astratte, nella direzione della ricerca di un senso più profondo che non si limita solo alla figurazione antropomorfa linguisticamente nominabile. Con l’eccezione forse della lettura penetrante di Pollock.

In conclusione

Abbiamo parlato di filosofia e semiotica, di Louis Marin come storico della filosofia, del linguaggio e dei segni. Ma insomma a quale corrente filosofica possiamo riferire Marin? All’ermeneutica? È quel che sottintende Paul Ricoeur che in un dibattito con Algirdas Julien Greimas su semiotica ed ermeneutica, nel quale parla di lui come di una personalità legata alle due discipline. È forse in questa direzione che portano le sue prime prove? Se così fosse, il suo fare conoscitivo non si identificherebbe certo con la subtilitas applicandi richiesta da Gadamer. Per la scarsa qualità nell’analisi ermeneutica delle immagini non devono averlo tentato, ma soprattutto perché non è di applicazione che si tratta. Se c’è postura ermeneutica questa ci sembra più vicina a Ricoeur, per il quale l’analisi semiotica usa del proprio linguaggio per spiegare meglio e, dunque, per meglio comprendere ciò che è già pre-compreso.
Ma nel saper fare di Marin, nella fecondità del suo approccio, c’è qualcosa di più. Oltre a disimplicare da testi non linguistici le enunciazioni e le proposizioni teoriche e filosofiche che lo articolano, Marin può fare lo stesso con i testi propriamente filosofici.
Dagli studi di Marin si evince anche un invito eminentemente rivolto alla semiotica del visivo. Invito al quale dovrebbe attentamente guardare tutta quella parte della semiotica del visivo che rivendica il bisogno e la necessità di individuare lo specifico di questo dominio, accusando in particolare la semiotica strutturalista generativa di aver costruito un modello per l’analisi dei testi visivi che ha come riferimento esclusivo la lingua e di aver proceduto nell’ottica di individuazione delle equivalenze di funzionamento. Ebbene, questa semiotica può constatare come nelle analisi testuali di Marin emerga con grande forza la necessità di individuare lo specifico del visivo.
Ma, nonostante la fecondità dell’approccio e la seduzione della sua personalità non è facile riflettersi nello specchio che Marin ci porge. E non solo per la profondità dei suoi interessi semiotici, linguistici, storici e filosofici, per la capacità di comprendere – in tutti i sensi del termine – Poussin e Pollock, Klee e Caravaggio, Le Brun e Cristho, Stella e Philippe de Champaigne. È un compito che eccede qualunque allievo dei molti che a Marin si ispirano. In particolare coloro che, con gesto di sapore crociano, prelevano poeticamente dai testi visivi trattati come mera struttura, gli effetti superficiali di inconsce pulsioni.
Lo specchio di Marin, infatti, non è il luogo del riflesso di una personalità o un metodo; è la frontiera verso un mondo altro, impre-veduto. Un mondo da scoprire con lui, che ci segue come guida.


Nota

  1. Critique, 342, 1975. torna al rimando a questa nota
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