Istruzioni e pratiche istruite


Da: E|C, rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici on-line.
Trascrizione della relazione tenuta al Convegno “Le pratiche semiotiche: la produzione e l’uso” (San Marino, 10-12 giugno 2005).
Data di pubblicazione in rete: 2 agosto 2005.
http://www.associazionesemiotica.it/ec/contributi/fabbri_02_08_05.html


Vorrei cominciare questo intervento da una proposta interessante di Eco di cui però dirò tra un momento. Premetto, infatti, che sono meno interessato all’Eco cerchiobottista (la definizione non è mia, è lui che dice che bisogna dare un colpo al cerchio – momenti strutturali – e uno alla botte – momenti interpretativi). In questo modo, Eco viene di volta in volta lodato da persone che pensano che i primi non siano di nessun interesse e dagli altri che pensano che i secondi siano poco importanti. Quello che mi interessa è una indicazione che Eco dà in Kant e l’ornitorinco dove dice che la semantica che propone è una semantica ad istruzioni e che questa è “rilevante per l’aspetto semiosico dei processi cognitivi”. Nella sua distinzione – appunto, cerchiobottista – tra il “tipo cognitivo” (TC) e il “contenuto nucleare” (CN) ha molto insistito sull’idea che ci sarebbero delle istruzioni, cioè delle regole o procedimenti per costruire delle immagini mentali. Alcuni degli esempi che Eco porta sono di discendenza antropologica. Uno in particolare mi sembra interessante, perché fa riferimento al modo in cui, attraverso delle istruzioni, gli Aztechi tentarono di spiegare a Montezuma come era fatto un uomo a cavallo con l’armatura la prima volta che lo videro. Gli altri esempi, che sono altrettanto divertenti, mostrano quali sono le differenze fra istruzioni di identificazione e istruzioni di reperimento a partire da situazioni poliziesche, che però ritengo meno interessanti perché inventate da Eco stesso. Credo infatti che nel nostro caso sia molto difficile costruire exempla ficta perché c’è una cogenza della costruzione della significazione empiricamente data che fa si che tali esempi siano di scarso interesse salvo che per auto-approvazione. Ritengo invece di grande interesse approfondire quali siano questi “procedimenti 1 Trascrizione della relazione tenuta al convegno “Le pratiche semiotiche: la produzione e l’uso”, San Marino, 10-12 giugno 2005. costruttivi” all’interno della più ampia questione delle istruzioni. Queste ultime, a loro volta, essendo parte di una problematica più generale che riguarda le interfacce che, come sappiamo, non limitiamo soltanto a quelle tra soggetti e oggetti ma anche a quelle tra oggetti e oggetti e tra soggetti e soggetti. Lo studio delle pratiche in questo caso è allora lo studio di ciò che si localizza a livello di interfaccia tra soggettività ma anche tra oggettività. Più in dettaglio le pratiche che prenderò in considerazione sono quelle che derivano da istruzioni e che chiamerò azioni istruite, nonché ovviamente le stesse pratiche istruttive. Ho inventato anche una parola, giusto per il piacere di farlo, che definisce una disciplina che è la posologia. Questa studia non solo le dosi – so bene che la parola viene da lì – ma anche le misure e le contromisure che sono necessarie per l’utilizzazione di qualunque cosa. C’è quindi accanto ad una posologia della medicina anche una posologia degli oggetti.
Come sappiamo la semiotica si è sempre interessata alla costruzione dei soggetti così come alla costruzione degli oggetti. Greimas, nei primi anni Ottanta, lavorando sulla ricetta della zuppa al pesto diceva proprio che mentre la favola costruisce soggetti, la ricetta costruisce oggetti. Oggi c’è qualcosa di più ed è l’idea che esistono programmi a livello dell’interfaccia che riguardano tanto i soggetti quanto gli altri oggetti, è l’idea di interoggettività appunto. Aggiungo che la definizione delle ontologie che hanno dimenticato le proprie regole di costruzione è molto ardua. Ci sono delle persone che ritengono che ci sono ontologie, io ritengo che le regole di costruzione degli oggetti sono le sole ontologie valide. A quelli che dicono “questo è un tavolo” e c’è il tavolo a dimostrarlo, rispondo con la necessità a mio parere ovvia di tipo costruttivista, di valutare tutte le regole di costruzione. È la stessa idea di cui parla Latour quando differenzia i fatti e i fatticci, essendo questi ultimi quell’insieme di regole che spariscono dall’oggetto finale ma che devono essere ricostruite. Pensare le pratiche istruttive ed istruite per la costruzione degli oggetti è allora fare un lavoro opposto al decostruzionismo. La semiotica in questo senso può fare un grande lavoro per via della relazione che ha con la fenomenologia. In una battuta memorabile su Merleau-Ponty, Foucault diceva: “la fenomenologia ci ha insegnato a vedere, ma che cosa?”. La semiotica dovrebbe essere quella che ci spiega cosa e come si vede nel vedere.
Penso allora ad un libro molto vecchio di Ricoeur sulla semantica dell’azione in cui si diceva che il problema fondamentale era riarticolare senza perdere il fenomeno. In altri termini come è possibile una articolazione semiotica che ci consenta di riarticolare l’esperienza fenomenologica del corpo e dell’intercorporeità. La prima osservazione è che non serviranno a molto le tipologie a priori come quelle kantiane per le quali ci sono le massime istruttive, poi ci sono le regole e poi ci sono le norme. Si tratta di ipotesi esterne come quelle che distinguono tra linee guida e regole. Lo scopo della semiotica è proprio quello di rispecificare tali distinzioni a partire da prassi concretamente attestate. Lo studio delle istruzioni e dei testi istruiti è secondo me un buon modo per connettersi alla pragmatica senza che questa sia semplicemente quello che resta quando uno a deciso di non studiare i testi. Il pericolo, che purtroppo vedo qualche volta realizzarsi, è che la pragmatica faccia la fine della religione oggi, ossia quella notte in cui tutte le vacche sono sacre, nessuno sa più bene cos’è ma tutti ci credono. Il progetto è allora verso una riarticolazione della fenomenologia che non perda i fenomeni di significazione. Per portarlo avanti ho deciso di dare un’occhiata proprio a questi testi ma anche alla pratica particolare cui invitano, poiché nel caso delle istruzioni ho appunto le istruzioni, ma poi ho anche come si seguono le istruzioni e dunque la rappresentazione di una pratica cui fa seguito naturalmente la messa in pratica.
Ho trovato utili un paio di riferimenti, uno è a Fontanille e alla sua postfazione al libro curato da lui e da Zinna sulla problematica degli oggetti, seguendo la quale mi sono fatto l’idea che il valore analitico di questi testi stia nel fatto che si tratta di procedure didattiche e al tempo stesso di un commento metasemiotico. La seconda citazione la traggo dallo stesso libro ma questa volta da Zinna che dice che dobbiamo pensare agli oggetti come a testi interattivi in cui l’autore-enunciatore e il lettoreenunciatario debbono essere sostituiti dai concetti di programmatore-enunciatore e utilizzatore-enunciatario. Non si tratta, aggiunge, soltanto di due strategie cognitive costruite dal testo ma di due vere strategie narrative e prasseologiche. Le istruzioni come scritte e la prasseologia della loro messa in opera sono presupposte dall’oggettotesto. Il fare di chi utilizza non è solo inferenziale e cognitivo ma è anche pragmatico e va a tentoni. Mi interessa molto allora la dimensione narrativa delle pratiche, che è stata ricostruita e di cui parlerò (è possibile dimostrare che una serie di pratiche coordinate sono riassumibili in termini narrativi), ma sono altrettanto interessato al fatto che poi le istruzioni ci pongono alcuni problemi di applicazione. Ricordo sempre Greimas che diceva che tutte le volte che abbiamo un modello abbastanza efficace e ci troviamo davanti ad un testo ci tocca sempre trovare delle regole ad hoc di adattamento da integrare eventualmente nel sistema. È il problema degli eccetera e degli ad hoc per il quale in inglese hanno fatto un elegante verbo che è l’adhocking che trovo molto divertente. Si tratta di tutto quell’insieme di cose che la tradizione filosofica chiama le ecceità che sono appunto gli hic et nunc, le caratteristiche in vivo e in situ delle applicazioni.
Vorrei provare a fare un esperimento che potremmo chiamare di misreading. Proviamo a leggere prima un testo di istruzioni come un testo narrativo e poi a leggere come un testo di istruzioni un testo narrativo, per valutare la conversione tra le due strutturazioni, quella narrativa e quella per istruzioni. Si pongono problemi interessanti. Faccio subito un esempio: quando Barthes legge Sade, Loyola o le tavole dell’enciclopedia non si propone di eseguire le figure di Sade che pure avevano tutte esatte istruzioni per la loro attuazione. Sebbene poi molti hanno insistito impossibilità di eseguire le ricette di Sade, e anzi forse proprio per questo, resta presupposto un pensiero che è l’esecuzione. Se prendiamo il caso di Loyola vediamo che il suo scopo non era comunicare una ideologia e una assiologia, bensì essere eseguito. Ancora a proposito dell’enciclopedia Barthes dice che erano dei piccoli teatri, erano sì dei teatri ma andavano eseguiti. Ci sono teatri in cui le persone vanno per fare delle cose e per vedere, mentre le fanno, se riescono a farle correggendo la propria capacità a fare con l’osservazione.
Quando leggete Marco Polo siete molto stupiti e anche molto annoiati dal fatto che le indicazioni sono assolutamente istruzioni di viaggio: ci sono 5 chilometri poi dovete voltare a destra… qui vendono della seta e costa tot… sono idoli e quindi state attenti… no, questi sono maomettani…Quando finalmente c’è il ricevimento presso il Khan o una grande battaglia, tutti hanno dimenticato queste istruzioni e nella soddisfazione perdono anche di vista che Rusticiano, che ha scritto il testo di Marco Polo, era un francese autore di Chanson de geste e quindi, guarda caso, il ricevimento alla corte del Gran Khan somiglia in modo irresistibile ai ricevimenti di Carlo Magno. Abbiamo allora delle istruzioni di viaggio che leggiamo come una rappresentazione. Credo che l’esperienza del misreading sia allora molto interessante e produttiva. Ma ce ne sono delle altre che funzionano esattamente al contrario. È il tentativo di Greimas di leggere la ricetta della zuppa al pesto che lui include tra i “testi programmatori” che sono “manifestazioni di competenze attualizzate”. Sono testi in cui non c’è manipolazione, voi volete già fare la zuppa sennò non avreste letto la ricetta, siamo già d’accordo, vi viene soltanto detto come si fa, vi viene fornita una strategia di programmazione e questa strategia di programmazione è omologabile ad una strategia narrativa tradizionale. Dentro al comune contratto c’è un destinante programmatore che si rivolge a un destinatario realizzatore che deve compiere delle operazioni sulle quali Greimas non ha niente da dire, in altre parole ci dice solo come è organizzato il testo.
Prendo un altro esempio, a mio avviso più interessante, che è quello di Francoise Bastide che ha sviluppato le tesi di Greimas in maniera originale. Lei era una chimica e dunque sapeva bene cosa voleva dire montare un esperimento e nel suo libro Una notte con Saturno (curato da Bruno Latour ma mai uscito in Francia) mostra come l’organizzazione dei dettagli delle istruzioni su come riprodurre un esperimento scientifico, nasconde sistematicamente delle risposte a possibili controargomentazioni. In altre parole, dire che si lava il fegato del cane in una maniera vuol dire che non si fa in un’altra. Nella precisione delle istruzioni ci sta una ulteriore dimensione narrativa, come ogni libro contiene un anti-libro così ogni argomentazione contiene una controargomentazione. Il discorso delle istruzioni contiene dunque una previsione delle contromisure. Dopodiché sia Greimas che Bastide ritengono leggibili – non eseguibili, la semiotica non si interessa a questo – le istruzioni in termini di pratiche, scene, scenari. Al fondo di questa visione c’è una teoria della rappresentazione alla quale oggi credo sia il caso di sostituirne una più complessa che consideri intersoggettività e interoggetività ed in cui passiamo dalle pratiche alle mosse, dalle scene alle tattiche, dagli scenari alle strategie.
Adesso vorrei presentare un testo di cui darò prima una lettura in termini di strutture istruttorie e in seguito tenterò di leggerlo nuovamente ma questa volta come un testo narrativo. Non mi sarà troppo difficile perché ho scelto l’esempio apposta anche se l’esempio non è fictum.

Proposta di metodo per il controllo della resistenza delle pellicole di adesivo essiccate all’attacco da parte degli scarafaggi.

Denominazione ASTM: D 1382 – S5 T.
Emissione: 1955.

Questa proposta di metodo è stata approvata dal comitato promotore ed accertata dalla Società in accordo con i procedimenti già in vigore, affinché possa essere usata come standard nel corso del processo di adozione. Le proposte di revisione potranno essere indirizzate alla Società, 1916 Race St., Philadelphia 3, Pa.

I. Scopo.
Metodo da usarsi allo scopo di determinare in quale misura la carta impregnata di adesivo, in confronto con carta non impregnata, può essere danneggiata dagli scarafaggi americani.
Nota. Il metodo, opportunamente modificato nei dettagli sperimentali, può essere adattato all’impiego con altri animali nocivi,

2. Apparecchiatura.
a) Bilancia, sensibile al mg.
b) Bicchiere di vetro, con capacità di circa 2000 ml, rivestiro abbondantemente con vaselina sulla superficie interna, per un’altezza dí 5 :- 8 cm a partire dal bordo superiore.
c) Tappo concavo per bottiglie, di circa 2,5 cm di diametro. riempito con cotone umido.
d) Assicella di legno, di pino bianco. spessa circa 12 mm, lunga 75 mm, larga 75 mm, con due fori perpendicolari all’assicella, praticati con trapano n. 72 a circa 36 mm dagli angoli diagonalmente opposti.
e) Filo metallico. Due spezzoni di filo rigido, lunghi circa 10 cm, diametro 0,6 mm.
f) Scatola, di cartone o di legno, grande quanto basta per contenere il bicchiere.
g) Carta da filtro. Due pezzi quadrati di 50 per 50 mm di carta da filtro qualitativa ruvida, con piccoli fori presso gli angoli diagonalmente opposti.

3. Preparazione dei provini.
a) Adesivo. Approntare, secondo le istruzioni fornite dal fabbricante, circa 200 g dell’adesivo da controllare, e diluirlo col solvente prescritto fino a viscosità adatta ad immergervi i provini di carta.
b) Provino impregnato. Immergere uno dei pezzi di carta da filtro nell’adesivo diluito, e lasciar scolare l’eccesso. Appendere il provino impregnato in modo opportuno, e lasciarlo essiccare per circa 24 ore. Pesare arrotondando al milligrammo, e prendere nota del peso.
c) Provino di controllo. Pesarlo arrotondando al milligrammo, e prendere nota del peso; questo provino non impregnato servirà come confronto.

4. Scarafaggi.
Dieci scarafaggi americani in buona salute (Periplaneta americana)1, dell’età di 5-6 mesi, tenuti a digiuno per 48 ore. Cinque devono essere maschi e cinque femmine.

5. Ambiente per la prova.
La prova sarà eseguita ad umidità relativa del 50±2%, e alla temperatura di 23 ± 1 °C, salvo diverse intese fra il fabbricante e l’acquirente dell’adesivo.

6. Procedimento.
a) Inserire i due fili nei fori dell’assicella. Attaccare ad uno il provino impregnato ed all’altro il controllo, in posizione verticale. Porre l’assicella nel bicchiere, ed accanto porre il tappo. Introdurre nel bicchiere gli scarafaggi, e coprire il bicchiere con la scatola perché la prova si svolga nell’oscurità.

1 Disponibili presso Quivira Specialties Co., 420 W. 2t St., Topeka, bans.
Si tratta di un montaggio di elementi al cui confronto le liste di Borges devono essere considerate infantili: adesivi, bilance, carte da filtro, assicelle di legno, scatole, scarafaggi, pipette d’acqua. Si tratta di uno dei testi più divertenti che io abbia mai letto nella mia vita, del genere di quelli che ridono quando ci sono le freddure ossia quando non c’è niente da ridere.
È facile notare come vi siano elementi di programmazione spaziale e temporale e come tutti i momenti siano collegati agli altri secondo una sequenza di presupposizioni reciproche, ma su questo Greimas aveva già dato delle indicazioni abbastanza precise. Quello che invece vorrei sottolineare è quanto in realtà l’anticipazione delle difficoltà di applicazione legate al passaggio dalle istruzioni al mondo della vita siano inserite come problematiche modulanti e modalizzanti di questo testo. Notiamo che i milligrammi sono “circa 2,5”; che il vetro deve essere rivestito “abbondantemente”, è come il sale, quanto basta. La viscosità deve essere “adatta”, che cosa sia “adatto” non viene detto. Ricordo a questo proposito un testo di Charles Goodwin in cui nella descrizione di un esperimento, cosa sia nero viene deciso sulla base hic et nunc di quello che richiede quella determinata pratica. Ci sono due persone competenti che discutono a lungo se una certa cosa è nera o se è abbastanza nera, ad un certo punto si mettono d’accordo e da quel momento in poi è nera. Dire che una cosa è nera, ontologicamente nera, è una affermazione che ha rimosso la prassi che ha portato a decidere che è così. Ma torniamo a noi, “bisogna lasciare scolare l’eccesso”, ma quando si verifica l’eccesso? Bisogna impregnare “in modo opportuno”. Bisogna lasciare essiccare per “circa” 24 ore. Gli scarafaggi devono essere in “buona salute”, non buonissima. Alla fine termina con una frase straordinaria: “qualsiasi altra osservazione rilevante”. Il lettore avrà capito a questo punto a cosa faccio allusione, l’idea è che all’interno della regola esiste la previsione che si adatti l’esperienza ad una specifica situazione.
Si tratta di un montaggio interoggettivo in cui abbiamo due attori, uno è il pezzetto di carta intriso, l’altro è lo scarafaggio, e dal conflitto fra i due stabilite se potete considerare questo oggetto effimero o resistente, fragile o tenace. È, se si vuole, un test di collaudo. Attiro l’attenzione proprio su questa parola, collaudo è cum laude, è allora il momento di riconoscimento del valore. In questo caso specifico è stata testata una materia e non una forma, ma le cose sarebbero potute andare in quest’altra direzione. Si tratta di un fare comparativo in cui si confronta un materiale intriso con uno non intriso. Infine faccio notare che dal testo è prevista esplicitamente anche la comunicazione del risultato.
A questo punto capisco che il lettore avrà cominciato ad interrogarsi sul motivo per il quale ho preso proprio questo testo e non uno dei tantissimi analoghi a questo. Ricordo che il testo che abbiamo visto si trova all’interno di un gigantesco archivio in America chiamato le specificazioni dove chiunque produca qualcosa è tenuto a depositare tutte le specifiche di ciò che ha inventato e in cui si trovano le specificazioni di tutto quello che è incluso in quell’oggetto o in quella pratica. Così ci sarà un testo in cui sono definiti gli scarafaggi e uno in cui si dice cos’è una pipetta e via così. È un luogo in cui vale la pena andare per stare il meno possibile. Tornando alla domanda precedente dico che questo testo non è stato scelto da me ma da Primo Levi che lo ha inserito nel suo ciclo delle radici come una delle sue fonti accanto a un premio Nobel che ha scritto un libro importante su Darwin, ad Arthur Clark, a Balzac e a Rabelais. Questo testo per Levi era una delle fonti letterarie del suo lavoro. Possiamo dunque leggerlo come un pezzo di letteratura, ed è quello che invito il lettore a fare. Quando Levi parla del campo di concentramento lo descrive come un gigantesco esperimento in cui gli uomini erano trattati come gli scarafaggi. Levi ha scritto una novella molto divertente che si intitola La specificazione in cui si parla di come all’interno di una azienda degli uomini venivano sottoposti a specificazione un po’ come succede nel campo di concentramento.
Non mi piacerebbe che la svolta semiotica che passa dalla testualità alle istruzioni dimenticasse la simultaneità possibile dei due approcci che mi sembra ragionevole e qualche volta interessante.
A questo punto potrei infliggere agli intervenuti una lunga elucubrazione politicamente corretta sui campi di concentramento e gli scarafaggi ma se lo facessi si vergognerebbero di me e poiché io mi sono già vergognato non lo farò. Passo dunque all’ultimo punto che è molto importante per me ed è il problema dei fattori di innovazione. Torno allora per un attimo all’idea di ecceità e dunque all’hic et nunc delle azioni istruite e per vedere come si articolano fra loro la legenda e gli agenda. Lo spazio che esiste fra questi due momenti è decisivo per una valutazione fenomenologica dei fatti sociali e mentali. Il mio timore è che senza tutta quella somma di ad-hoc e di eccetera che sono necessari per l’applicazione finiremmo per perdere la dimensione fenomenologica delle pratiche d’uso e dunque finiremmo per “perdere il fenomeno”. Siamo nel campo dell’improvvisazione, c’è un momento in cui si improvvisano delle soluzioni nell’applicazione, ma, se ci limitassimo a dire questo, reintrodurremmo una problematica dell’ineffabilità wittgensteiniana che ci condurrebbe ad un relativismo secondo cui non varrebbe neanche la pena di pensare a queste cose. L’idea è che c’è una incompletezza costitutiva delle regole, ma questa nobile affermazione è già scritta dentro il testo: quanto basta, circa, abbondantemente. Basta leggere i testi per sapere che essi richiamano l’incompletezza delle regole come propria definizione costitutiva. Le azioni non sono allora governate da regole ma sono sì riproducibili in maniera istruttiva, non hanno una validità semplicemente cognitiva ma una validità prasseologica. Se è così, quello che ci interessa è vedere se si possa stabilire in situ una coerenza delle azioni che consenta una intelligibilità descrivibile.
Nei design studies abbiamo l’idea che nessuno può capire il teorema di Gödel – che fra l’altro sono 36, coordinati – se non viene calcolato. L’idea è che ogni teorema è una incompletezza radicale delle proprie regole e che il modo in cui, persino quello, viene “messo in pratica” cambia. C’è una possibilità di avere fattori di innovazione dati dall’applicazione come accade con la lingua. Questo significa che nella pratica c’è una coerenza di azioni che possiamo descrivere attraverso quello che la semiotica ha messo in luce negli ultimi tempi come problematica dei soggetti orientati e degli oggetti orientati. Faccio un esempio, relativo alle frecce e alle mappe. Ne ho vista una di un tale fra’ Mauro che era orientata da sud a nord, nel senso che il sud era sopra questo perché la stabilizzazione dei piani si è avuta nel settecento, prima di allora ciascuno la metteva come preferiva e stava all’altro doversi adattare. Le prima osservazione è che le mappe non sono necessariamente istruzioni, nella maggior parte delle case venivano appese come ritratti di paesi e a nessuno veniva in mente di staccarle dal muro e portarsele dietro. Le frecce poi, che oggi vengono lette come indicatori di direzione, non hanno sempre avuto questa funzione. Gombrich, che di immagini se ne intende, si domanda con ansia quando è successo che la freccia è stata codificata come elemento diagrammatico leggibile come istruzione e ipotizza il 1740 a causa delle ruote del mulino ad acqua. Prima del 1740 era possibile sentir dire “che bella freccia!”. Quella che trafigge i cuori nell’800, ebbene non era considerata come una istruzione d’uso.
Nel caso dell’osservazione di una mappa si pongono una serie di problemi di incorporazione e orientamento del corpo proprio nonché di costruzione itersoggettiva dell’ordine. Se sono in una città e qualcuno mi dà una mappa comincio a girare intorno per cercare di capire dove sono e in che modo è orientato il mio corpo per poi orientare la mappa stessa. Ecco quindi che uno dei problemi che si pongono nel passaggio dalle istruzioni alle azioni istruite è proprio l’incorporazione, con tutti i problemi di orientamento che ne discendono. Garfinkel, in un testo importante intitolato An Etnomethodological Problem, procede alla drammatica ricostruzione di una sedia. Estrae tutti i pezzi dalla confezione, prende le istruzioni e lì si ferma: non riesce a ricombinarli perché non ha l’orientamento corporale necessario.
Posso portarvi il mio caso con una cyclette – particolarmente semplice mi fu detto – in cui dopo aver messo a posto tutto non riuscivo a sistemare il monitor del piccolo computer. Pensavo di avvitarlo o incastrarlo e invece c’erano due binari in cui il monitor andava inserito dal basso all’alto.
Gli aspetti comunicativi e pragmatici hanno carattere riflessivo e indessicalico ma nello stesso tempo hanno una cogenza dei dettagli contingenti che solo nella realizzazione hanno coerenza. In altri termini, anziché dire ci sono le regole e poi c’è il modo in cui leggiamo le regole, che è la vecchia idea del bricolage, possiamo sostituirla con l’idea che, al contrario, nelle realizzazioni e nella interazione soggetto-oggetto, soggetto-soggetto o oggetto-oggetto ci troviamo nella condizione della necessaria esplorazione della cogente contingenza di un ventaglio di realizzazioni che hanno una loro coerenza. L’improvvisazione nel Jazz è allo stesso tempo assolutamente improvvisata e, quando funziona, assolutamente necessaria.
In conclusione credo che sia necessario per la semiotica ritornare sulla questione delle regole perché se è vero, come dice Wittgenstein, che le azioni non sono governate da regole esse sono però reintroducibili istruttivamente e hanno dunque una validità prasseologica nelle interazioni intersoggettive e interoggettive. Qui, tra l’altro, possono darsi fattori di innovazione. Ecco il prezzo che dovremo pagare se vorremo riprendere le logiche sociali della fenomenologia.

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