“Kamikaze”, ovvero la Necroscopia


Da: Gnosis. Rivista italiana di intelligence, Dat Donat Dicat, Roma, n. 4, 2014.


1. Che dir non si voglia

Era utopia dello “stupido” XIX secolo “seppellire il cadavere della guerra” (Auguste Comte). Il nostro Millennio, che si pretende artificialmente intelligente, continua invece ad intimare “Fiat mors!”. Come si legge nella dichiarazione di guerra del fu Osama bin Laden, che minacciò nel 1998 la sconfitta dell’Occidente. E aggiunse, anticipando i “fausti attacchi” alla “capitale dell’infedeltà mondiale”: “ci sono giovani islamici che vogliono morire mentre quelli occidentali vogliono vivere”1.
Questi giovani islamici – uomini, donne e bambini, molti e sempre più efficaci – fanno del loro corpo uno strumento che dà e si dà la morte; in ogni possibile modo, dal bricolage esplosivo fino al progetto di bombe chirurgicamente impiantate. Un’arma che ha come protesi un essere umano e viceversa: uomo d’arma e arma d’uomo. Questa prassi terribile, uso minore di una “forza maggiore”, colma la fossa comune dei media, ma non trova posto tra le parole delle nostre due (in)culture2. Sappiamo che in condizioni di conflitto la lingua e le immagini scendono in campo e che le prime vittime sono il senso e il valore; le parole dei contendenti sono proiettate da opposti punti di vista, terminali di strategie. Si può dire quindi che la bomba umana è suicida oppure assassino o entrambi; che il suo è un gesto privato, psicotico o serial killer, o un’isteria collettiva. O l’attore di una causa politico-tattica, una gesticolazione di terroristi o di “estremisti ideologici” (George Bush). I termini della lingua sono sonar e sensori, hanno significanti e significati, ma sono anche censori di valore; un apparato di loghi comuni verso cui si dovrebbe mantenere una tolleranza zero.
Costretti al prestito, mentre in USA parlano di suicide bombers terroristi, noi impieghiamo “Kamikaze”: vocabolo militare, da scrivere in corsivo e tra virgolette. Inventato da soldati americani nel corso della Seconda Guerra Mondiale per designare gli aviatori nipponici che combattevano nel Pacifico come siluri del cielo; per fanatismo guerriero, per ritardare la sconfitta e per scarsità di benzina3. Spaventevole e spietato che sia, questo però non è terrorismo; è la pratica letale dell’attacco senza scampo e abita da sempre – con innumerevoli precedenti – si veda il “nostro” Pietro Micca – quella forma collettiva di vita che è la guerra tra Stati. Il “kamikaze” auspicato dal fondatore di Al-Qaeda invece non è un soldato ma un “civile” islamico/a che si suicida per uccidere più “ebrei/crociati” possibile, siano essi militari o civili. E provoca come danni centrali quelli che la guerra pretende collaterali. Una forma singolare di violenza politica, se così vogliamo definire il terrorismo, che può prendere altre vie: ad esempio Mandela e i suoi avevano attentamente calcolato l’assenza di armi e di vittime nei loro attentati sudafricani. Una violenza suicida che si integra alla logistica della guerra, ma risponde ad un dispositivo simbolico, efficace e virale che la nostra cultura giudica, oggi, incomprensibile e inaccettabile. Per le sue caratteristiche – il calcolo della fuga è la fase più difficile di un attentato – il kamikaze è un ordigno imprevedibile e arduo da evitare: mira ad un tallone d’Achille. Nonostante le istruzioni dettagliate nel riconoscimento e il controllo generalizzato dei segni, un generale americano, Petreus, riconobbe che gli USA “cannot kill [its] way to victory”. Se l’avversario è camuffato nelle apparenze normali e indossa la maschera collettiva della vita quotidiana4; se colpisce obbiettivi militari come i luoghi di culto, le scuole, gli uffici pubblici, i ristoranti, i mercati. Un’arma miniaturizzata rispetto agli esplosivi atomici e convenzionali; strumento d’offesa diretto, corpo a corpo, rispetto alla mediazione tecnologia dei droni. Integrata al teatro delle operazioni, mette però in causa il monopolio statale, legittimo della violenza. Mors mea, mors tua. L’inespiabile evento dell’11 settembre è una tragedia reale, ma più ancora simbolica; pregnante e capace di propagarsi secondo la metafora morta della viralità. I suoi protagonisti, i cosiddetti “Kamikaze” si vogliono testimoni, meglio martiri. Infatti se per molti occidentali l’azione “Kamikaze” è militare, per molti arabi e non solo è un atto di martirio per cui lo status dell’avversario è irrilevante – il colono israeliano è considerato un civile? I cosiddetti Kamikaze sono soldati nemici o immagini devozionali d’una santa guerra? Ricordo la distribuzione di poster e calendari con immagini del “martire del mese”, spesso attorniato da volatili verdi; allusione alla parola di Maometto: lo shahid è condotto ad Allah da uccelli di quel simbolico colore.

Restiamo allora in Palestina, drammatica metonimia del conflitto, zona di frontiera e luogo d’origine dei suicide bombers. (Il fanatismo è una patologia dell’interfaccia tra il “noi e il loro”? Una malattia della pelle delle comunità nelle zone tampone?) Sono Fida’y i giovani che – anche nelle dichiarazioni pubbliche che precedono l’atto – affermano di riscattare la loro terra col sangue – che, nella lingua araba, è strettamente connesso all’anima. Un riscatto che si paga e fa pagare in rappresaglia all’avversario ma che si rivolge a un destinatario assoluto e invisibile: il Dio che consente la cattività della Palestina, e al quale il Fida’y si offre come dono e sfida. Immolandosi o pagando lo scotto e la moneta della sua carne. Come l’asceta – il Fida’y – che noi traduciamo erroneamente “guerrigliero”! – diventa Martire: Sahid – forma intensiva del verbo Sahida, “vedere e testimoniare”5. L’offerta testamentaria della vita è un Credo, atto fiduciario rivolto al mondo e alla trascendenza: vocazione che postula l’immortalità dell’anima e la congiunzione post mortem con il divino. Per il cosiddetto “kamikaze”, braccio armato del Signore, anche Dio è testimone! (Si apprezzi la differenza dall’omonimo aviatore giapponese, istruito a morire con occhi aperti al nemico e sotto quelli “degli dei e dei compagni”6.) Il suo gesto può essere piegato a fini di strategici o a mossa mediatizzata di rappresaglia, ma va spiegato, se non compreso, anche come dispositivo sacrificale: Fidyat è l’animale destinato al sacrificio e con l’offerta del sangue entra nel circuito comunicativo del trascendente. Il “kamikaze” è un capro espiatorio? Un semioforo, portatore di segno, che tiene insieme o anticipa un modello altruista di comunità? Come Sansone giudice biblico che morì con tutti (?) i Filistei per la liberazione d’Israele?

2. Necroscopia

Riflettiamo. Nel (dis)umano sacrificio del cosiddetto “Kamikaze”, tutti sono vittime: quelle involontarie e il sacrificatore, l’officiante e i sacrificati. Anche se i disperati gesti vengono manipolati da tattiche opposte, non siamo soltanto alla legittima difesa contro il nemico tecnicamente più forte (com’è il caso delle FARC colombiane o delle Tigri Tamil). Si è attivato un sistema sacrificale, a cui le rappresaglie militari possono porre argine, ma non rimedio definitivo. Un’espiazione collettiva, una violenza che vorrebbe esorcizzare l’altrui violenza, ma che l’accresce secondo il noto effetto di escalation. Uno scambio simbolico che potrà terminare, così com’è cominciato, ma che è difficile tradurre nei nostri valori. Soprattutto nel suo fare del decesso biologico un micidiale attrattore e vettore di morte; nella disposizione testamentaria del corpo proprio, che è l’oggetto privilegiato di consumo nella società omonima. Di qui i tentativi di spiegazione in termini economici o psichiatrici: miseria, ignoranza, sfruttamento, fanatismo nazionalista, ecc. Eppure i cosiddetti “Kamikaze ” – come gli ufficiali giapponesi della seconda guerra mondiale – non sono reclutati nelle masse dei diseredati, sono per lo più giovani, scolarizzati, in rapporto immersivo con l’Occidente: “neo-fondamentalisti” più che tradizionalisti. Di qui il fascino, misto d’orrore e sgomento, che suscita in noi – credenti nella fine delle credenze – chiunque si voti a una sanguinaria testimonianza la quale, nella cultura di provenienza, è collettiva nell’ ammirazione ed esemplare nel gesto – si vedano le pubbliche sfilate con cinture di bombe. Un’assunzione di destino e una promessa di gloria assenti nelle comunità come la nostra, indeterminista e aleatoria quanto alla destinazione finale e ai modi di raggiungerla. Noi pensiamo le regole come faticosamente patteggiate tra entità autonome, mentre la vittima sacrificale/assassina afferma la regola prefissata e trova una sua autonomia nel seguirla7. Con determinazione estrema – decisione, addestramento, prove preliminari a vuoto – che disorienta chi parteggia per il summum ius summa iniuria. Il cosiddetto “Kamikaze” introduce una “necrospettiva” radicale sulla nostra vulnerabilità e sugli investimenti dei nostri capitali simbolici – si pensi all’abolizione della pena statale di morte e del suo pubblico spettacolo. Il suo atto letale è una strategia fatale8: genera un’energia offensiva e virulenta che cerchiamo invano nei simulacri di rischio artificiale e mediatizzato dei nostri sport estremi. Intenderlo nei suoi termini, introdurlo e interdefinirlo tra le nostre parole è il buon uso dell’eterotopia, come la chiama Michel Foucault: non spiegare transitivamente l’altro da sé, ma comprendere riflessivamente il nostro impensato. Per valutarlo e giudicarlo.


Note

  1. “Abbiamo migliaia di giovani che vogliono morire. Voi avete migliaia di giovani che vogliono vivere”. Declaration of the World Islamic Front for Jihad against the Jews and the Crusaders, 23 febbraio 1998, Al-Quds al-Arabi (giornale arabo pubblicato a Londra). torna al rimando a questa nota
  2. V. P. Fabbri, Segni del tempo. Un lessico politicamente scorretto, Meltemi, Roma, 2004. torna al rimando a questa nota
  3. Nel 1944 si costituì lo Shinpuu tokubetsu kougekitai (Gruppo speciale d’assalto vento divino), abbreviato come Kamikaze tokkoutai o Tokkoutai. Una pratica che prende senso nell’ambito sociale di una morte ritualmente auto-inflitta,v. M. Pinguet, La morte volontaria in Giappone, Luni Ed., Milano, 2007 (1984). torna al rimando a questa nota
  4. E. Goffman, Modelli d’interazione, Il Mulino, Bologna, 1971. torna al rimando a questa nota
  5. M. Hammad, “Du Temoignage”, in Aux racines du Proche-Orient arabe,Guethner Ed., Parigi, 2003; C. Bertolotti, “Shahid”. Analisi del terrorismo suicida in Afghanistan, Franco Angeli, Milano, 2010. Nel 2014 si contano circa 600 kamikaze e almeno 4500 vittime. torna al rimando a questa nota
  6. Istruzioni: “Al momento dell’impatto, fai del tuo meglio. La divinità e lo spirito dei tuoi compagni defunti ti guardano intensamente.? Prima della collisione è fondamentale che tu non chiuda gli occhi per non mancare l’obiettivo”. In R. Nagatsuaka, Ero un kamikaze. I cavalieri del vento divino, P. Greco Ed., Milano, 2013. torna al rimando a questa nota
  7. M. Barbagli, Congedarsi dal mondo. Il suicidio in Occidente e in Oriente, Il Mulino, Bologna, 2009. torna al rimando a questa nota
  8. J. Baudrillard, Le strategie fatali, SE Editore, Milano, 2007. torna al rimando a questa nota
Print Friendly, PDF & Email

Lascia un commento