Lettera a Valerio Adami, il più stendhaliano dei ritrattisti di Rossini


Da: Catalogo della mostra di V. Adami, Il volto estatico, a cura di F. Mancini, Galleria Franca Mancini, Pesaro, 2000.


Caro Valerio,
“riflettere alle belle arti fa sentire“, diceva Stendhal nella sua Vita di Rossini. Davanti al tuo ritratto del compositore si è toccati e si ascolta.
E mi ritorna in mente un aneddoto rossiniano che si trova in una nota del libro, al capitolo sulla rivoluzione nel canto. Si parla dei mezzi propri alla musica e alla scultura per raggiungere sentimenti delicati: con il movimento l’una, l’altra con l’immobilità. “Rossini aveva promesso, in una sera di sensibilità, di tradurre in un bel duetto il gruppo sublime di Venere e Adone (di Canova) che ammiravamo alla luce di una torcia”.
Certo a Stendhal piacevano gli aneddoti; ne traeva dai giornali e dagli archivi, dai libretti d’opera e dai pettegolezzi. Forse perché la sua immaginazione narrativa, l’invenzione degli intrighi non era all’altezza dell’inimitabile stile.
Nella Vita di Rossini ne troviamo che riguardano il compositore e la vita dello scrittore: storicamente esatti, inventati di sana pianta o francamente indecidibili. Penso all’episodio sanguinoso del cantante Stradella, degno di una delle Cronache italiane o all'(im)probabile incontro di Rossini e di Stendhal in quel di Terracina, in una data (im)precisata (Roma, Napoli, Firenze, 1817). Ma penso a tutti gli aneddoti con cui Stendhal costruisce il suo “obelisco immenso, simbolo della gloria di Rossini”, esercizio di ammirazione per il “primo uomo”, comparabile a Napoleone.
Nel raccontarli Stendhal provava un immenso piacere “Ho scritto”, dice nel 1831, “la vita di molti grandi uomini Mozart, Rossini, M.A., L. da Vinci. È stato il genere di lavoro che più mi divertì. Non ho più la pazienza di cercare i materiali, di pesare testimonianze contraddittorie. Mi è venuta allora l’idea di scrivere una vita di cui conosco assai bene tutti gli accidenti. Sfortunatamente l’individuo è ben conosciuto, sono Io”.
Ma prima di farsi Egotista, Stendhal era rossiniano del 1815, come amava dirsi: rossiniano del Tancredi. Non ci ha dato però un ritratto accurato del compositore che ammirava (quasi) senza riserve. “Un gilet nero, un abito blu e una cravatta ogni mattina, ecco per esempio una mise che non lascerebbe anche per presentarsi alla più grande delle principesse di questo mondo”. Gli ha attribuito, nello stile di Tito Livio, qualche straordinario discorso “in “diretta”, ma gli ha preferito qualche inimitabile soprano (la Pasta, la Colbrand) e la descrizione appassionata delle opere. Ed anche in questo caso, oltre a qualche citazione dagli “esecrabili” libretti, non ha molto insistito sul linguaggio, ma sulla “logica delle situazioni”, sull’articolarsi delle azioni e delle passioni.
Sapeva che Rossini mancava di un Metastasio e di un Voltaire e forse segretamente desiderava di essere lui il librettista.
Pensa Valerio: il Rosso e il Nero con musiche del Cigno di Pesaro!
Altro che il Tancredi che pur “rapiva i parrucconi: a quest’aria (di “Tanti Palpiti”) si vedevano tutte le teste incipriate che si agitavano in cadenza”!
Mi sono lasciato prendere la mano. Perché avevo citato l’episodio di Venere e Adone? Ora ricordo: per l’idea della traduzione tra le belle arti, quelle che “fanno sentire”.
Stendhal, come me e te, Valerio, credeva fermamente alle equivalenze, alle omologie: “come Rossini prepara e sostiene i canti con l’armonia, cosi Walter Scott prepara e sostiene i dialoghi e i racconti con le descrizioni”. Ma più che alla letteratura, credeva nella prossimità delle due arti sorelle, musica e pittura.
Trattando dell’opera lirica, viene naturale a Enrico Beyle, il milanese, di parlare dei prediletti Raffaello (la Trasfigurazione), Correggio, Parmigianino, Bassano, dei ritratti veneziani e cosi via. Nella sua Storia della Pittura, nelle Scuole italiane, nelle guide, Stendhal è un neoclassico: segue Reynolds e Winkelmann e soprattutto qualcuno che ti piace molto, Valerio, Raphael Mengs. Con una preferenza – che condividi – per il disegno e lo schizzo, che “dà più piacere di un quadro finito, perché l’immaginazione completa il quadro ogni giorno, come le piace”. Uno schizzo di Correggio era meglio di tutta l’opera finita di Le Brun.
Musica e pittura stanno in un rapporto particolarmente intenso perché entrambe indirizzate all’immaginazione, dove operano sulle nostre passioni.
La musica per Stendhal è “pittura tenera” e i musicisti drammatici sono come pittori di ritratti. Per questo preferisce Rossini a Mozart: il primo coglierebbe meglio le somiglianze. E non fa metafore quando afferma che la musica parla agli occhi; che l’opera buffa dipinge con tutta la possibile larghezza del pennello; che la musica non può rendere un tono affettato cosi come la pittura non può dipingere maschere e così via. Quando ascolta la Cenerentola osserva: “La musica è incapace di parlare in fretta; può dipingere le sfumature delle passioni più fuggitive, sfumature che sfuggirebbero alla penna dei più grandi scrittori; si può dire anzi che il suo dominio inizia quando finisce quello della parola; ma ciò che dipinge può mostrarlo solo a metà. In questo condivide le miserie della scultura, quando entra in competizione con la sorella pittura; la maggior parte degli oggetti che ci colpiscono nella vita reale sono interdetti alla scultura, che ha la sfortuna di non essere in grado di dipingere a metà“.
Era la “scappatella” metafisica di Stendhal, che si dichiarava pronto a provarla, con un piano o una spinetta. Nell’opera il canto dipinge il valore, l’armonia dipinge sfumature rapide e fuggitive ed anche la regia è un’arte che appartiene alla pittura. Parlando del finale della Gazza ladra afferma che è “impossibile disporre meglio gli insiemi d’un grande quadro”.
Insomma Valerio, una cosa è certa. Il musicista è il pittore dell’immaginazione: per cogliere le passioni deve passare per l’immagine. Rossini più di altri, – l’Otello è “pittura viva” dei sentimenti del Moro – ma sono pittori d’affetti anche gli altri preferiti di Stendhal: Mozart e Cimarosa. Solo che in Rossini il colore è più vivo e “la sua luce singolarmente pittoresca” ed è ottenuta con una leggerezza di tocco che in pittura si chiama “quasi niente”.
Pittore d’affetti “che eccitano l’immaginazione a produrre certe immagini analoghe alle passioni da cui sono turbati”. Con gli strumenti e col canto, per Stendhal non c’è altra via per giungere al Bello Ideale. L’ascolto non è in grado di costruire un senso proprio alla musica, ma attiva delle passioni che sono stacchi o inflessioni nell’infinita fluttuazioni dell’anima. La rivoluzione musicale rossiniana è rivoluzione sulla “tastiera dei nostri piaceri”, dice Stendhal; ci fa scoprire emozioni possibili, passioni inaudite. Come canta il Barbiere di Siviglia: “Fortunati affetti miei”.
La rivoluzione di Rossini diventa un gigantesco esperimento sulle abitudini dell’orecchio e la natura del cuore umano, in attesa che venga un Lavoisier a scoprirne la chimica segreta e a dedurre da queste esperienze le regole della musica.
Puoi immaginarti Valerio se lo sento vicino: ho passato gran parte della mia carriera di semiologo pensando di più alla passione che alla ragione, anzi alla relazione tra azione e passione e non all’opposizione tra emozione e raziocino. Questo non vuol dire beninteso che il compositore non ragioni: Rossini lo fa proprio con le sue cabalette!
E lascia a noi l’onere della prova.
D’altra parte quella di Stendhal non è un’affermazione generica come quella di Schopenhauer: musica = passione. Il biografo analizza la composizioni degli affetti e il loro montaggio, opera per opera, dall’Italiana in Algeri al Turco in Italia, dall’Elisabetta al Mosé senza tralasciare Odoardo e Cristina e Aureliano in Palmira. La tenerezza con la malinconia, la collera che segue la gelosia ma precede la dolcezza o la gioia.
In questo Valerio, l’Egotista di Grenoble – come lo chiamava il nostro amico Italo Calvino – trovava la superiorità dell’ispirazione italiana rispetto a quella francese. La Vita di Rossini è un pamphlet contro la Francia e per l’Italia, per le passioni singolari e profonde contro la vanità sociale, il sarcasmo e l’ironia che nel canto trovano il loro specchio.
Tutto è cambiato? Chi può saperlo meglio di te che in Francia vivi da sempre?
Quanto a me, io credo che in pittura e in musica la freddezza neoclassica sia solo un effetto di superficie. Che nella linea netta del disegno e nella saturazione del colore vibri la tensione, l’ostinato d’una passione.
Quella che trovo nel tuo quadro, così colto, così speculativo Valerio. Una tensione tra le parti che si rispondono come rime, come assonanze. Differenze che si somigliano: quale altra formula del poetico nel linguaggio, nella pittura e nella musica?
E quale altra promessa di felicità?
Ho di nuovo perso il filo?
Ho solo seguito l’indicazione dell’esergo alla Vita di Rossini: lasciare andare il pensiero come un insetto che vola nell’aria, legato ad un filo. La citazione, più o meno esatta, era di Socrate, dalle Nuvole di Aristofane.

Tuo
Paolo Fabbri


Bibliografia

Stendhal, Vie de Rossini, a cura P. Brunel, Gallimard, Paris, 1992.

AA.VV., Valerio Adami, couleurs et mots, (entretiens avec R. Lesgendre, V. Morel, J. Derrida, D. Arasse, P. Fabbri), Le Cherche Midi Ed., Paris, 2000.

Georges Blin, Stendhal et les problèmes du roman, J. Corti, Paris, 1983; cap. I: “L’esthétique du miroir”.

Louis Marin, La voix excommuniée, Galilée, Paris, 1981; cap. 3: “Stendhal ou les essais de la mémoire”, par.: “Transfiguration et opéra-bouffe”.

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