I linguaggi ‘abbreviati’: uno spazio semiotico


Da: Paragone. Rivista mensile di arte figurativa e letteratura diretta da Roberto Longhi, Sansoni, Firenze, n. 216/36, anno XIX, febbraio 1968.


 

«Si l’on veut découvrir la véritable nature de la langue, il faut la prendre d’abord en ce qu’elle a de commun avec tous les autres systèmes du même ordre.»
Saussure, Cours de linguistique générale, p. 35

«L’essenziale del simbolo è ciò che hanno in comune tutti i simboli che possono adempiere allo stesso fine»
Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, p. 19

Il segno linguaggio ha felicemente raggiunto il risultato dell’inflazione. Ma è un fenomeno che non basta a nascondere i tratti della sua diffusione nella cultura italiana: la ridondanza della teoria informazionale USA e della translinguistica francese, l’insofferenza per la ricerca empirica, motivata da un segreto sguardo trascendentale. Il discorso semiologia) — nella vulgata attuale — spiega significanti eguali ma diversi significati. È un linguaggio convenzionale usato da chi era già in possesso di altri linguaggi (storicisti, materialisti, idealisti), col risultato paradossale che la semantica del discorso sottostante (de)forma il senso del discorso nuovo. Un linguista parlerebbe di digslossia.
È quanto accade al topos primo della semiotica: la cultura è comunicazione. Tutta la cultura è un complesso interagente di comunicazioni e la comunicazione come tale risulta ed è composta di tutti gli specifici sistemi di comunicazione che fanno parte del complesso totale della cultura1. Ma chi comunica, che cosa, a chi, con che mezzi e canali, con che scopo e risultato? Qui la koiné semiotica è più pudica. A gran parte di questi interrogativi non mancano solo le risposte vere (scientifiche), ma anche quelle verisimili (persuasive). Avviene così che l’assunzione costitutiva del simbolismo — l’omologia tra fatto linguistico e fatto sociale — si fa monolitica. La procedura viene definita correttamente: i linguaggi della cultura sono sistemi di segni da leggere con strumenti messi a punto dalla linguistica, disciplina pilota tra le altre scienze umane. Ipotesi che ha spiegato un largo spazio di collocazione, catalizzando attorno al suo assunto materiale diversamente catalizzato o antiquario, non riconciliabile entro l’episteme tradizionale.
Sappiamo dunque in che direzione, ma dove vogliamo andare? Una volta stabilita una fondazione analitica comune, resta da manipolare tutta una serie di specificazioni: delimitazione di unità minimali in sistemi segnici diversi dal linguaggio, scoperta della loro sintattica, della loro funzione categoriale, semantica e pragmatica.
‘In principio era il segno’ e ‘tutto è linguaggio’ sono utili postulati se giudicati a partire dai loro corollari. Alla condizione prima, ad es. di dire ciò che non è linguaggio o almeno ciò che non lo è del tutto. A questo lavoro ai confini dell’area del linguaggio può contribuire l’esame dei surrogati linguistici nella loro modalità abbreviativa: in particolare di quel settore in ombra della ricerca semiotica, costituito da linguaggi fischiati e tambureggiati. Questi presentano, come vedremo, la forma d’una sineddoche: indipendentemente dalla loro sostanza settoriale tutta la struttura profonda della sistematica semiologica vi si trova implicata.

1.
Si tratta di sistemi cinetico-semantici che articolano un simbolismo elaborato e forme di comunicazione di notevole complessità; atti semici, forme di segnalazione i cui codici si dispongono secondo una concatenazione distintiva che riproduce, in forma più o meno completa, l’universo discorsivo delle lingue naturali dei locutori. Non solo perché fischi e tamburi sono parti integrali della conversazione, ma perché essi possono essere esattamente paralleli alla comunicazione linguistica d’una certa cultura sostituendola integralmente senza alcuna limitazione lessicale. Alcuni di questi sistemi di segnalazione possiedono un valore semantico limitato (certi linguaggi tambureggiati non possiedono più di 10-15 segnali di base), ma esistono sistemi semici capaci di reduplicare completamente tutto il vocabolario in cui s’esprime una società determinata2. L’isomorfismo di questi sistemi di segnali che funzionano come surrogati linguistici, — e che pur opponendosi per l’uso di tecniche strumentali (tamburi) e dell’apparato fonetico (fischi), risultano funzionalmente legati all’interno d’una certa cultura, — dovrebbe emergere nel corso dell’esposizione.
I meccanismi con cui i linguaggi fischiati e tambureggiati ‘surrogano’ le lingue naturali basterebbero da soli a giustificare l’interesse del semiologo, interessato a definire l’impianto concettuale e gli strumenti operativi d’una economia comunicativa, del complesso dei canali attraverso i quali una cultura parla il discorso che la costituisce. Ma questo interesse è più profondamente motivato e le sue relazioni col resto della semiotica più fittamente intrecciate. Ripartiti sulla base della diversa sostanza espressiva a) i linguaggi tambureggiati fanno parte della dimensione musicologica, che l’analisi strutturale — dopo le delusioni essenzialiste, gestaltiste e fenomenologiche — tenta d’illuminare da una prospettiva nuova, b) i linguaggi fischiati sono inseparabili da quella recente dimensione dell’analisi strutturale, la paralinguistica, che con la cinesica (lo studio dei movimenti del corpo con le categorie della linguistica descrittiva)3, definisce in modo determinante il senso della comunicazione.

1.1.
Com’è noto, nel quadro d’una semiologia strutturale lo studio comparato della musica e del linguaggio come sistemi di segni ha posto il problema (e la speranza): in che misura la storia recente della linguistica può essere utilizzata per la costituzione d’una teoria musicale scientifica? Sembrano immediatamente applicabili certe nozioni dello strutturalismo classico4 (analisi immanente relazionale e differenziale, l’opposizione langue e parole, di varianti e d’invariante, di sincronia e diacronia, ecc., e alcune intuizioni di Levi Strauss (discutibili5, e di Zimkin); più ancora il modello della grammatica generativa chomskyana che mette a fuoco — piuttosto che l’analisi puramente tassonomica in elementi minimali (elementi, accordi, ecc.) — i sistemi di regole con cui si ‘generano’ le frasi musicali ben formate6. Per promettente che appaia, questa prospettiva è oggi appena accennata. I linguaggi tambureggiati per contro offrono un collegamento dall’apparenza privilegiata. Qui — come nei casi analoghi del canto, della metrica, dell’intonazione e in genere nelle lingue tonali7 — i due oggetti, musica e linguaggio si coprono e schizzano una tipologia complessa e sottile di transizioni tra linguistica e musicologia. Il termine linguaggio (= un insieme finito o infinito di frasi, ciascuna finita in lunghezza e costruita per concatenazione a partire da un insieme finito d’elementi, Miller-Chomsky)8 è tutt’altro che una dead metaphor. I tamburi africani (per citare un esempio ben studiato) sono un linguaggio sostitutivo che ri-presenta il linguaggio naturale degli emittenti, abbreviato secondo regole da definire. I loro grumi sonori sono parole e frasi, essi battono il ritmo delle metafore e delle circonlocuzioni, degli scorci grammatici e dei rapporti sintattici, sono rappresentazioni frastiche e lessicali che manifestano, con diversa sostanza, le figure costanti del senso e il raccourci dell’espressione linguistica. In questa direzione un allargamento della matrice dei rapporti tra musica e lingua potrebbe forse elucidare i meccanismi stessi del fatto musicale e riflettere sul linguaggio le eventuali conclusioni.
Beninteso il nome ‘linguaggi tambureggiati’ è una sineddoche: a svolgere questa funzione melodica ‘pro-linguistica’ non sono solo gli strumenti a percussione, tamburi a membrana, gong metallici e fessurati e tutti quegli oggetti sostitutivi che vanno sotto la denominazione di drumless drum languages: trogoli (Haca Chin), canoe (Fiji), radici sporgenti degli alberi, ma anche strumenti a fiato, corni (Africa), flauti (Lotha Naga), semicavità membranofone (cinesi del Fukien) oltre a una lunga serie di modificatoli vocalici e strumenti a corda come il liuto (Olombo congolesi), certi archi musicali e i ‘pianoforti’ africani. Ma in ogni caso resta intatto il fatto essenziale che si tratta di linguaggi sostitutivi, che organizzano codici parassitari d’un linguaggio-base che li influenza profondamente, sistemi di segnalazione non comprensibili fuori dalla correlazione con il linguaggio orale che essi surrogano.

1.2.
Considerazioni in qualche misura analoghe possono formularsi per i linguaggi fischiati che ricomprendono tutti quei ‘pro-linguaggi’ che operano senza tecniche strumentali, e col solo apparato fonico quali i fischi (Mazateco, Zapoteco, Tlapaneco e Kipkapoo messicani, i baschi e gli spagnoli delle Canarie, gli Ibo, i Venda e i Chin), ma anche il ronzio (cinesi del Chekiang), sistemi di flasetto (Jabo) e di sostituzione sillabica (Lokolele).
Questi sistemi di segnali, che variano lungo una gamma che va da segnali staccati del tutto convenzionalizzati fino ad una replica quasi completa del linguaggio, sono strettamente associati, per il loro oggetto, al tentativo di rinvenire regolarità strutturate all’interno dei fenomeni ‘paralinguistici’. Dello studio cioè di quel sistema comunicativo, le vocalizzazioni, ‘aspetti di rumore fonico specificamente identificabili’ (Trager9), che concorrono con i gesti al fenomeno complesso della comunicazione linguistica. Per la definizione corretta di questi elementi, l’analisi dei surrogati linguistici non strumentali, in particolare dei qualificatori vocalici (valutati su scale d’intensità, d’estensione e d’altezza di tono), offrono esempi privilegiati d’analisi.
D’altra parte i linguaggi fischiati forniscono allo schema semiotico generale un’articolazione teorica tale che lo studio linguistico ne risulta connesso alle ricerche attuali di zoosemiotica10. Com’è noto i linguisti hanno individuato, tra gli altri tratti distintivi (v. Hockett e Benveniste), due nette opposizioni tra il linguaggio umano e i sistemi espressivi animali: nel primo caso la ricchezza del repertorio sarebbe molto grande, minima nel secondo; mentre l’articolazione è complessa per gli uomini e quasi carente negli animali. I linguaggi fischiati intercalano questo continuum polarizzato presentando a ciascun termine un’immagine speculare: hanno segnali di base assai poveri (come i linguaggi animali), ma permettono una grande ricchezza d’articolazione (come i linguaggi umani). Il supporto sonoro è una vocale unica, abitualmente di grande portata, ma le modulazioni semantiche sono sostenute dalle variazioni d’ampiezza, — la qualifica vocale — isomorfe al linguaggio parlato. Non sorprende quindi che la caratteristica fondamentale di questi pro-linguaggi sia quella di reduplicare lingue tonali, in cui cioè il tono rappresenta il tratto distintivo del fonema. Tra lingue a-tonali o articolatone esiste però il caso del silbo gomero, un vero spagnolo fischiato e articolato dove, nonostante la soppressione d’alcuni tratti pertinenti — dovuti alla limitazione ‘vocalica’ e alle modalità del suo impiego per gli scambi a lunga distanza —, l’articolazione ritmica, appoggia su alte bande di ridondanza, opera la conservazione del senso.

1.3.
In un caso come nell’altro questi surrogati linguistici possono comunicare tutto il contenuto d’una lingua naturale (quindi gran parte, se non tutta, la sua cultura) e sono incomprensibili — contro un diffuso luogo comune — a popolazioni non bilingui. Questo legame col linguaggio di base è il problema decisivo della loro struttura: anticipiamo qui che il rapporto sembra disporsi su un continuum di corrispondenze che va da un minimo (abbreviazione) ad un massimo di codifica, ferma restando la necessità di riprodurre la catena discorsiva, qual’è espressa dalla lingua naturale.
Esiste, probabilmente, una sorta di ‘principio d’economia’ di questi linguaggi che tendono ad un massimo d’adeguazione al linguaggio-base, ma sono sottoposti ad una sorta di movimento a forbice determinato dalle esigenze del mezzo e della comunicazione: l’uso frequente per coprire le grandi distanze, la sostanza fonica impiegata, ecc. Possiamo così immaginare che si operi una sorta di dinamica della rinuncia, una eliminazione ponderata dei tratti distintivi con minimo rischio d’ambiguità, ed una messa in opera degli strumenti necessari a coprire questi vuoti (ridondanza, circonlocuzioni, ecc.). Beninteso la natura di questi modelli di torsione dipende strettamente dalla natura dei linguaggi-base. Questa dinamica di trasformazione (ipotetica) resta in larga misura segreta e molte conclusioni etnografiche — che affermano questa corrispondenza — sono per lo meno disinvolte. Si può dire in generale che la torsione è minima nei linguaggi fischiati, dove si può arrivare fino ad una completa e rigorosa duplicazione tonale. Resta però il problema del silbo gomero e di altre lingue atonali (Canarie) dove alla tonalità si sostituisce una modulazione estesa all’interna emissione vocale. La reduplicazione è problematica negli stessi linguaggi tonali: toni e registri sono spesso di volta in volta semplificati o ulteriormente articolati11. I linguaggi strumentali hanno un funzionamento omologo. La costante linguaggio-base sembra meno rilevante come punto di riferimento e i linguaggi atonali reduplicati sono assai più frequenti; la stessa strumentazione impone l’impiego d’un sistema astrattivo (i Jabo utilizzano sui tamburi solo 2 dei quattro toni vocali della lingua naturale) d’un più alto grado di codifica, per risolvere le difficoltà poste dalla riproduzione delle quantità fonemiche, dei toni segmenti, dell’intonazione delle frasi. Si giunge così a soluzioni complesse con l’uso combinato di strumenti diversi e di diverse possibilità tonali (toni, tempi tra le battute, intensità e numero dei colpi) ‘all’interno’ d’uno stesso strumento.

2.
Il principale interesse che la teoria semiotica porta ai linguaggi fischiati e tambureggiati concerne però la possibilità di individuare i principi comuni di questi particolari sistemi comunicativi e di definire uno schema tipologico delle diverse modalità di conversione del linguaggio naturale in diversi sistemi di segnali. Senza pregiudicare naturalmente le relazioni d’ordine storico (assai ipotetiche d’altra parte in questo campo) e prescindendo dalle modificazioni stilistiche.
L’inserzione nello spazio semiotico delle caratteristiche strutturali dei linguaggi fischiati e tambureggiati si risolve in un arricchimento matriciale dello schema definitorio dei rapporti tra ‘lingue naturali’ e gli altri codici che possono surrogarle: gesti, scrittura, alfabeti convenzionali (Braille, Morse), ecc.
Accanto alla tradizionale opposizione tra riproduzione per rappresentazione (il messaggio ‘transcodificato’ instaura coi tratti del linguaggio base un rapporto tale per cui l’ordine sintagmatico di quest’ultimo ne risulta in qualche modo conservato) e per ideografia (dove la ‘metarappresentazione’ è di natura sostitutiva e simbolizza in modo diretto i significati del linguaggio-base senza alcun riferimento alla struttura dei significanti), le articolazioni di questi ‘pro-linguaggi’ introducono una dimensione ulteriore. Si stabilisce così un continuum che, all’interno del sistema di rappresentazione, si svolge da un minimo ad un massimo d’arbitrarietà o d’immotivazione, opponendo alla nozione familiare di codifica (quella rappresentazione che non pone una similarità fisica tra i segni del nuovo linguaggio e i tratti fonici rappresentati), quella di abbreviazione linguistica, i cui meccanismi e l’impianto restano da definire. Distinzione che, come vedremo, può introdurre qualche elemento di chiarificazione dello spinoso rapporto tra simbolo e icona, lasciato aperto dal Morris.
2.1.
I rapporti tra codici in posizione di reciproca correlazione ed in particolare tra i differenti sistemi di segnali ed i messaggi orali che essi riproducono, possono articolarsi secondo i livelli delle unità linguistiche che servono da punto di riferimento alla ‘surrogazione’: 1) prima i fonemi, 2) poi i lessemi, 3) infine tutto il messaggio visto come unità.

2.1.1.
A livello fonematico12 la rappresentazione ideografica è esclusa: le unità possono solo essere rappresentate a livello della seconda articolazione, cioè in tratti distintivi, sprovvisti di significazione. La rappresentazione dei tratti delle emissioni sonore che sono trascelti dal linguaggio-base, rispettando l’ordine sintagmatico, viene comunemente associata alla nozione di codifica, cioè di immotivazione ‘sostanziale’ tra i tratti fonici rappresentati e i tratti rappresentanti. Tra gli esempi più immediatamente evidenti e citati il Morse — in cui punti e linee in diverse combinazioni sono convenzionalmente assegnati alle diverse lettere dell’alfabeto — o i linguaggi ‘a braccia’ delle bandiere militari (nella marina ad es.) e molti altri che funzionano in modo omologo, secondo un continuum di relativa immotivazione. Nella maggior parte dei casi si tratta però di sostituzione grafemica piuttosto che fonemica; senza pregiudicare i rapporti strutturali tra fonemi e grafemi (isomorfi a quanto pretende Pulgram13) potremmo dire che l’unica rappresentazione in senso proprio, a livello fonemico, è quella dell’abbreviazione in cui i segni del linguaggio secondo presentano notevoli somiglianze con i suoni del linguaggio-base. I linguaggi fischiati e tambureggiati operano infatti sui fonemi lineari (consonanti, vocali, toni) o sui tratti soprasegmentali (intonazioni, stresses) trascegliendo per rappresentarle solo parte delle qualità fonemiche del linguaggio.

2.1.2.
Le unità lessicali, per contro, in quanto unità di prima articolazione, dotate di valore distintivo e di significazione, possono essere sostituite sia per via rappresentativa che ideografica. L’ideogramma lessicale simbolizza, senza riferimento alla catena sonora del linguaggio, il semema, cioè il complesso di tratti distintivi della significazione (semi), che il lessema ricopre. Oltre agli esempi diffusi delle scritture ideografiche (che inglobano sovente esempi di rappresentazione-codifica fonemica) è il caso di tutti i linguaggi gestuali che, nonostante qualche impostazione notevole (v. Birdwhistell), attendono ancora un’analisi strutturale adeguata. La rappresentazione lessicale, compiuta nel rispetto della sequenza fonetica e delle relazioni interne del linguaggio-base, può effettuarsi sia secondo la codifica che con l’abbreviazione. Accantoniamo qui la codifica che non presenta, rispetto al 2.1.1., differenze degne di nota; come vedremo sono inoltre notevoli gli isomorfismi rispetto alla modalità abbreviativa.
I sistemi abbreviativi, pur eliminando alcuni elementi contrastivi pertinenti, conservano la caratteristica di suggerire e mantenere il flusso del suono nella lingua naturale. È appunto il caso dei linguaggi fischiati che della lingua conservano, anche ridotto, il registro tonale, ma anche di quelli tambureggiati in cui spesso l’emittente ripete tra sé le parole che pone in codice. Questa rappresentazione abbreviata delle unità di prima articolazione del linguaggio naturale può essere diretta oppure avvenire per traduzione. Nel primo caso l’unità lessicale viene rappresentata direttamente abbreviando (o codificando) i fonemi (come nei linguaggi fischiati del Sizang); una modalità particolare è costituita dalla contrazione che viene effettuata secondo i mezzi delle abbreviazioni (in senso largo) così frequenti nella scrittura (v. i telegrammi) ed in molti lessici idiolettali. — Quando le necessità d’economia comunicativa obbligano gli emittenti a sostituire con sinonimi le unità lessicali, altrimenti indistinguibili per via degli impoverimenti contrastivi imposti dal nuovo sistema semico, abbiamo la traduzione14. Una modalità di questa operazione è la frasificazione che si compie sostituendo i lessemi per mezzo di frasi. Nei linguaggi fischiati e tambureggiati questo aspetto è preponderante: la relativa rigidezza dei sistemi di riproduzione segnaletica diminuisce le opposizioni pertinenti e consente delle ambiguità che — se non risolte contestualmente (localizzazione spazio-temporale, status dei trasmettitori, contesto infrasegnaletico, ecc.) — impongono il ricorso a fenomeni di sinonimizzazione e di circonlocuzione. Per citare un esempio, e non troppo perspicuo: presso i Kele (Congo) l’omofonia di ‘luna’ (songe) e ‘uccello’ (K k), entrambi rappresentati da due battute forti di tamburo, è risolta mediante la rispettiva frasificazione ‘la luna che sta in cielo’ e ‘l’uccello, quella piccola cosa che fa kiokio’ (Carrington).

2.1.3.
Anche quando la riproduzione si effettua a scala di messaggi considerati come unità, le possibilità semiche si dispongono secondo caratteristiche simili. In alcuni casi l’intero messaggio può essere rappresentato da un unico (o da una serie di) ideogramma (si pensi ad es. ad una rappresentazione visiva a diversi gradi di stilizzazione). Oppure viene riprodotta — per codifica o abbreviazione — la sequenza delle unità lessicali di base, con possibilità di varianti sul piano dell’abbreviazione (del genere usato nel telegramma o nei linguaggi gestuali), della traduzione (sempre effettuata tra gruppi bilingui ma, ad es., in base a segnali che surrogano una sola delle due lingue, come accade nei linguaggi tambureggiati Ewe e Thsy [Togo]), e della circonlocuzione.

2.2.
L’inserimento dei surrogati linguistici arricchisce d’una nuova dimensione il diagramma dei rapporti tra linguaggi ‘naturali’ e i sistemi di segnali parassitari o secondi: l’abbreviazione accresce la reciproca significanza degli altri elementi tabulari.
Ma d’altra parte il materiale dei linguaggi fischiati e tambureggiati si costituisce come oggetto di riflessione su alcuni problemi della semiotica e della teoria delle comunicazioni: ne rileveremo alcuni; quelli della ridondanza e dell’ ‘iconicità’ del segno.

2.2.1.
Come abbiamo visto i linguaggi abbreviati operano sovente secondo procedimenti di sinonimizzazione e di traduzione; possiamo allargare queste nozioni inglobandole nel fenomeno — generale in queste semie — d’incremento del tasso di ridondanza. Nella codifica il rapporto di (relativa) immotivazione che intercorre tra i due linguaggi consente una maggior libertà combinatoria e distintiva; l’abbreviazione è invece costretta a vere acrobazie semiotiche, a dilatazioni vertiginose per diminuire il rumore semantico. La soluzione del problema d’una comunicazione economica e non ambigua diventa tanto più complessa quanto maggiore è la dimensione del vocabolario, che d’altra parte, come abbiamo visto, può essere coestensivo all’intero lessico d’una cultura. Brevi frasi divengono così lunghi messaggi (‘ho fame’ nel linguaggio dei tamburi Duala (Africa Occidentale) passa dalle tre sillabe del linguaggio-base a diciassette): ogni figura tambureggiata e fischiata può essere ripetuta decine di volte per essere compresa a pieno.
Una possibile direzione di ricerca dovrebbe verificare un’eventuale correlazione tra le qualità dell’abbreviazione e la ridondanza correlativa necessaria a rendere il linguaggio-base (la cui banda di ripetizione è approssimativamente misurabile)15.

2.2.2.
Ma riprendiamo in considerazione il punto chiave della nostra matrice di sostituzione. È evidente che la distinzione introdotta tra abbreviazione e codifica non è di natura ma di grado; i due termini si possono pensare disposti su un continuum che va da un minimo ad un massimo d’immotivazione. Tradotta in termini morrisiani questa proposizione significa che l’abbreviazione sarebbe più prossima all’icona, la codifica al simbolo. Questo costrutto ipotetico (che ha forse un valore tipologico) non convince a pieno. In primo luogo per ragioni teoriche: la definizione morrisiana dell’icona come segno che possiede più o meno tutte le qualità dell’oggetto percepito è revocabile in dubbio. Il segno iconico si limita a riprodurre alcune condizioni della percezione selezionando in modo opportuno gli stimoli con cui si organizza una struttura percettiva dotata dello stesso significato dell’esperienza reale ‘denotata’. Simbolo e icona sono omologhi perché fondati sulla comune proprietà di disporre forme relazionali eguali. La differenza consisterà invece nella modalità di selezione degli stimoli; è certo allora che i linguaggi abbreviati, mantenendo intatti alcuni tratti distintivi del linguaggio-base, ‘rassomigliano’ a questo più di quanto non sia per il Morse, sono cioè più iconici. È però certo che all’interno d’un messaggio che si vale d’abbreviazioni linguistiche possono coesistere forme di natura codificativa: nell’uso dei tamburi africani certi colpi staccati iniziali e finali sono indirizzi posti in codice, mescolati senza soluzioni con tratti abbreviativi. Non solo, ma moltissimi esempi etnografici inducono a pensare che i linguaggi abbreviati siano dotati d’un codice autonomo dalla lingua-base, articolato secondo una logica omologa ma autre. Per non dire poi dei problemi singolari posti ad es. dai linguaggi tambureggiati dei Duala, che scandiscono parole scomparse dal lessico attuale, parole dimenticate che, pur conservando un legame ‘linguistico’, sono fruite come simboli arbitrari, codificati.
Va dato atto d’altra parte che tutta la letteratura etnografica, seppure imprecisa, è assai prudente quando deve risolversi per la tesi della codifica o dell’abbreviazione (che risulta infine più limitata di quanto non si sia lasciato capire nel corso di questa rassegna). Non si tratta qui di privilegiare nessuna interpretazione e neppure di risolvere il problema un po’ vertiginoso dell’iconicità del segno. Da un punto di vista metodologico è sufficiente porre il problema della natura singolare di questi meccanismi comunicativi e della loro posizione all’interno dell’ipotesi semiotica, arricchendo d’una tessera il mosaico appena accennato dei rapporti tra linguaggio e simbolo. Un antropologo, meno legato all’analisi elegante e rigorosa del linguaggio e più al senso intero del comportamento culturale, sottolineerebbe il rapporto di motivazione che lega, nella coscienza dei locutori, lingua e abbreviazione, piuttosto che il loro carattere arbitrario. In questo senso, nella direzione d’una etnografia della comunicazione16, linguaggi fischiati e tambureggiati attendono ancora una descrizione rigorosa della loro posizione e funzione all’interno delle diverse culture (emic).

3.
Nessuna descrizione di semiologia (= scienza dei segni in seno alla vita sociale) può essere effettuata senza definire i sistemi di comunicazione e le situazioni culturali definite del loro impiego, secondo il rilievo che esse hanno all’interno d’una certa cultura. E qui appunto la descrizione dei codici dei linguaggi ‘abbreviati’ è in radicale difetto.

3.1.
La maggior parte dei reperti etnografici manca di descrizioni rigorose dei contesti situazionali d’impiego e delle circostanze d’emissione e di ricezione indispensabili a risolvere, all’atto di indicazione semica, le ambiguità dovute all’impoverimento dei tratti articolatoti. Anche le ricerche sulla specializzazione di questi canali rispetto agli altri sistemi comunicativi d’una certa cultura mancano di sistematicità. L’indicazione di massima che il linguaggio dei tamburi sia altamente poetico ed impieghi uno stile elevato, ricco di connotazioni eroiche e collegato al linguaggio dell’autorità terrena e del potere soprannaturale, può considerarsi provato per il solo Ovest dell’Africa17. Ed opporre l’uso del fischio in quanto prevalentemente destinato ad argomenti di conversazione dell’everyday life, sulla sola base delle rilevazioni messicane18, è una generalizzazione troppo rapida. Non esiste ancora né una semantica né una pragmatica di questi linguaggi di cui si dovrebbero sistematicamente rilevare le limitazioni e le specializzazioni sociali (pare l’uso sia prevalentemente maschile), le occasioni d’impiego, le modalità di frequenza, di distanza e di durata.

3.2.
La formulazione di ipotesi storiche, di stampo diffusionista, è, allo stato attuale delle conoscenze sistematiche, quanto mai improbabile; lo stesso può dirsi dei tentativi di dedurre dal limitato numero di caratteristiche della riduzione, degli elementi d’indicazione sulla diffusione e la conoscenza dei processi diacronici di linguaggi naturali. (Herzog ritiene ad es. che al di sotto dei linguaggi tambureggiati indiani, africani e oceanici esistano distinctive features sostanzialmente identiche). Ma se l’ipotesi d’un linguaggio unico primitivo (che affiora sullo sfondo teorico di certi etnologi) è decisamente onirico, va però sottolineato che, mentre i sistemi di ideografia e di codifica, meno o affatto legati al modello linguistico, presentano un grado molto alto di dispersione delle caratteristiche strutturali, — il ristretto numero di tratti distintivi che possono essere prodotti attraverso il meccanismo dell’abbreviazione ed il campo ristretto della strumentazione, convergono per produrre pochi sistemi isomorfi. A partire dalla ricostruzione di questi modelli sarà forse possibile ripercorrere la via semiologica che introduce questa breve rassegna: il ritorno al linguaggio dai sistemi di segni dello stesso ordine.

4.
Qualche tempo è passato da che Saussure constatava che la semiologia n’existe pas encore, on ne peut dire ce qu’elle sera; mais elle a droit à l’existence, sa place est déterminée d’avance. Le scienze umane lavorano oggi su questo concetto: ne fanno variare la estensione e la comprensione, lo generalizzano incorporandovi tratti d’eccezione, lo esportano fuori dalle sue regioni d’origine, lo prendono come modello o gli cercano un modello, in breve gli conferiscono progressivamente, per trasformazioni regolate, la funzione d’una forma. Il sub-universo semantico dei linguaggi fischiati e tambureggiati è indubbiamente suscettibile d’una generalizzazione molto limitata, sia per l’esiguità del fenomeno che per l’insufficienza delle analisi, limitate fin’ora al solo livello dell’espressione. Si può pensare però che l’elucidazione di qualche meccanismo formale possa contribuire (anche in minima parte) ad articolare il monolitismo del discorso semiologia), troppo occupato, in Italia, a scongiurare l’ ‘eresia abbecedaria’ di quanti vedono nel linguaggio la fonte d’ogni dissoluzione dell’uomo. L’impressione di sciupio vistoso che ci fa la terminologia semiologica è fuorviante: dove c’è il fumo di solito c’è anche il fuoco. Ma il problema è un altro: ciò che si può insinuare si dovrebbe anche poter esprimere.


Note

  1. G. L. Trager, Paralanguage: a first approximation sta in ‘Studies in Linguistics’, 1958, 13: 1-12. torna al rimando a questa nota
  2. Per una generale bibliografia sui linguaggi fischiati e tambureggiati v. Stern, Théodore Drum and Whistle Languages: An Analysis of Speech Surrogates sta in ‘American Anthropologist’, 1957, 59: 487-506 e Netti B., Theory and Method in Ethnomusicology, Glencoe, Illinois, The Free Press, 1964 (in bibliografia, pagg. 281 e segg.; e in Language in Culture and Society, Dell Hymes ed. Harper and Row, New York, 1964, pp. 310-11 (linguaggi fischiati), pp. 323-25 (linguaggi tambureggiati). torna al rimando a questa nota
  3. Per le ricerche più recenti di paralinguistica, eccetto la cinesica, v. oltre al già citato G. L. Trager, Paralanguage e The Tipology of Paralanguage in ‘Anthropological Linguistics’, 1961, 3 (1): 17-21, e per gli studi di cinesica, R. Birdwhistell, Introduction to Kinesics, Washington D. C, 1952 e F. Hayes, Gestures: a Working Bibliography sta in ‘Southern Folklore Quaterly’, 1957, 21: 218-317. torna al rimando a questa nota
  4. Per una ricca bibliografia recente sul tema v. N. Ruwet, Musicologie et linguistique, in ‘Revue internationale des Sciences Sociales’, 1967, 1: e W. S. Bright, Language and Music, in ‘Etnomusicology’, 1963, 7: 26-32 e G. List, The boundaries of Speech and song, in ‘Ethnomusicology’, id.: 1-16 e P. G. Springer, Language and music: parallels and divergences, in ‘For Roman Jakobson, La Haye, Mouton, 1956: 504-513; e C. Deliège, La musicologie devant le structuralisme, in ‘L’Are’, n. 26: 45-55. torna al rimando a questa nota
  5. C. Lévi-Strauss, Le Cru et le Cuit, Seuil, Paris, 1964 (e le osservazioni di U. Eco, Appunti di semiologia delle comunicazioni visive, Firenze, 1967), e N. I. Zimkin, Pour communicative Systems and four languages, in ‘Word’, 1962, 19, pp. 143-172. torna al rimando a questa nota
  6. N. Ruwet, Musicologie et linguistique, cit. torna al rimando a questa nota
  7. Per il canto, G. List, The Boundaries, cit.; K. Pike, Tone Languages, Ann Arbor, 1948. torna al rimando a questa nota
  8. G. A. Miller e N. Chomsky, Finitary models of language users, in R. D. Luce e al. eds. Handbook of Mathematical Psychology, New York, 1963, vol. II. torna al rimando a questa nota
  9. Oltre ai già citati, G. L. Trager, Paralanguage e The tipology v. le ricerche d’orientamento psicologico sul content-free speech di J. A. Starkweather, Variations in vocal behavior, in ‘Disorders in Communication’, D. M. Rioch ed., Baltimore, 1964 ma anche tutto un filone di studi legati all’orientamento psichiatrico. torna al rimando a questa nota
  10. T. Sebeok, Animal communication, in ‘Science’, 1965, e C. F. Hockett, Logical considerations in the study of animal communication, in ‘Animal Sounds and Communication’, W. E. Lanyon e T. N. Tavolga eds., Washington, 1960: 392-430; E. Benveniste, Communication animale et language humain, in Problèmes de linguistique générale, Paris, 1966: 56-62. torna al rimando a questa nota
  11. Per una descrizione dettagliata delle modalità del silbo gomero v. A. Class, Les langues sifflées, squelettes informatifs du language, in ‘Communications et languages’, A. Moles et B. Vallancien eds Paris, 1963: 129-139. torna al rimando a questa nota
  12. Per la parte sistematica abbiamo seguito qui e più oltre lo schema di T. Stern, Drum ant Whistle Languages, cit. torna al rimando a questa nota
  13. E. Pulgram, Phonème and graphème: a parallel, ‘Word’ 1956, 12: 9-14. torna al rimando a questa nota
  14. E. Nida, Toward a science of translating, Leide, 1964. torna al rimando a questa nota
  15. Per la discussione della inconicità del segno, U. Eco, Appunti per una semiologia delle comunicazioni visive, cit. torna al rimando a questa nota
  16. Oltre al citato Language in Culture and Society; Dell Hymes, ‘The Ethnography of communication’, numero speciale di American Anthropologist, 1964, 66, 6; in diversa prospettiva A. Merrian, The arts and Anthropology, in ‘Horizons of Anthropology’, S. Tax ed., London, 1964: 224-236. torna al rimando a questa nota
  17. Per cui vedi specialmente l’ottimo G. Herzog, Drum-signaling in a West African tribe, in ‘Word’, 1945, 1: 217-238 e J. Rouget, Tons de la langue en gu et tons du tambour, in ‘Revue de musicologie’, 1964, 50: 3-29. torna al rimando a questa nota
  18. In particolare oltre a A. Class, Les languages sifflées, cit., v. G. Cowan, Mazateco whistle Speech, in ‘Language’, 1948, 24: 280-286. torna al rimando a questa nota
Print Friendly, PDF & Email

Lascia un commento