Louis Marin: trans-sustanziazione, trans-significanza, trans-figurazione


Comunicazione alla tavola totonda «A partire dai lavori di Louis Marin», organizzata dal Centro di Semiotica e di Linguistica e coordinata da Paolo Fabbri e Omar Calabrese, Urbino, 16-17 Luglio 1993.
[ Da: http://dev-lm.msh-paris.fr/spip.php?article38 ]


Il nostro amico Louis Marin, che noi chiamavamo Luigi, ha partecipato ai lavori di Urbino per moltissimi anni. La nostra presenza qui vale anche come continuazione di quella presenza, come una specie di conversazione che, d’altra parte, gli intelletuali possono mantenere anche nell’assenza fisica di una persona, attraverso i suoi libri e i suoi testi. Perché i testi, i libri, i pensieri, le parole, i ricordi sono, in qualche misura, un progetto. Se anche il progetto si è poi interroto, il senso del lavoro – come il senso della vita – non viene dalla fine o da una qualche compimento, come credono le teorie narrative, al contrario, è l’interruzione che può e deve essere ripresa e continuata. Si aprirebbe qui un dibattito molto lungo, un dibattito profondo sul senso della narratività: se il senso di un’operazione si ricostruisca a partire dalla fine, o se invece sia l’operazione stessa ad essere progettuale, utopica nel caso di Marin – che all’utopia si è sempre interesssato – e se sia la sua continuazione a dar senso a una narrazione o a un’esistenza.
Vorrei allora provare a ricordare alcuni punti del lavoro di Luigi che mi interessano e vorrei tentare di restituirli per quanto concerne le mie conoscenze e i miei ricordi.
Se dovessi riassumere, in una parola, l’orizzonte di questi elementi direi che si tratta del problema della significanza. O, per essere più preciso, della «trans-signifiance», per riprendere una parola che egli utilizzava spesso. Mi sembra una delle caratteristiche fondamentali del suo lavoro. Tento di spiegare cosa voglio dire: Marin conosceva molto bene la teoria dell’enunciazione e sapeva che i punti di vista su un medesimo oggetto possono essere tanto differenti da poter risultare, se mi permettete, pirandelliani o merleaupontiani. Per Merleau-Ponty un cubo resta un cubo da qualunque parte esso venga guardato nonostante la moltiplicazione dei punti di vista; per Pirandello, al contrario, l’oggetto si dissolve di fronte all’insieme dei punti di vista. Ora, il problema del lavoro di Marin, che è un lavoro sfaccettato, poliedrico, complesso, metodologico, teorico e filosofico, di analisi applicativa fondata sulla conoscenza approfondita di alcuni saperi – soprattuto del diciasettesimo secolo francese – è che esso può, alla fine di questo nostro incontro, apparire simile al cubo di Merleau-Monty oppure ad una figura pirandelliana, dissolto tra semiotica, psicoanalisi, teoria letteraria, filosofia, conoscenza della teoria dell’imagine, percezione solidissima dello sviluppo della linguistica, gusto per lo sviluppo delle ricerche sulle scienze, e così via.
Vorrei allora contribuire alla riflessione su questo tema, il tema della trans-signifiance, attraverso due aspetti che mi sembranno straordinariamente ben riassunti nel lavoro di Marin La Parole mangée (1985), che riguarda appunto «La parole mangée, ou le corps divin saisi par les signes». Per darvi un’indicazione precisa del carattere semiotico di questo testo ricordo che «La parole mangée, ou le corps divin saisi par les signes» è stato pubblicato sotto il titolo «Un chapitre dans l’histoire de la sémiotique: la théologie eucharistique dans la Logique de Port-Royal (1683)», in History of Semiotics nel 1983. Insisto su questo testo, perché, a mio avviso, è il testo che riprende, restringe, modifica parzialmente il suo grande libro sulla critica2 (che io considero un grande libro sulla critica del discorso) e che mi pare in qualche modo un contributo fondamentale alla storia della semiotica e, forse, non solo alla sua storia ma anche alla sua organizzazione concettuale.
Insisterò dunque su due punti, molto brevi, ma che mi sembranno molto importanti. Il primo riguarda le conoscenze e le caratterizzazioni da lui enunciate, il secondo riguarda piuttosto il problema del discorsivo in Marin, cioè la dimensione dell’enunciazione, che gli stava particolarmente a cuore. Parlare dell’enunciazione in Marin, non ci deve però far dimenticare che il suo lavoro riguarda la conoscenza della «trans-significazione», cioè dei processi di trasformazione della significazione. Marin non studiava il senso, studiava i processi di traslazione del senso, quello che noi in italiano chiamiamo i «traslati», non degli strati di significazione, bensì dei processi di significazione. E, curiosamente, due categorie che si trovano molto frequentemente nel lavoro di Marin sono, da una parte, il concetto di trans-sustanziazione, cioè di trasformazione delle sostanze e, d’altra parte, quello di trans-figurazione, cioè di trasformazione identica. Trans-sustanziazione e trans-figurazione sono due costanti del lavoro di Marin che mi sembra importante rilevare.
È evidente che, per quanto riguarda il problema della trans-sustanziazione, il modello non era affatto teorico, ma era piuttosto un modello storico, individuato con grande chiarezza e, a mio avviso, in modo assolutamente originale. Dalla Logique de Port-Royal e dal modo che Port-Royal ha di trattare i segni e il linguaggio, Marin prende come enunciato prototipico «Hoc est corpus meum», cioè la frase fondamentale di Port-Royal e dimostra – specialmente nel saggio che si trova nel libro La Parole mangée – un’idea assolutamente fondamentale nel problema della trans-sustanziazione, cioè come il corpo divenga segno pur restando corpo mangiabile. C’è qui una delle sfaccettature interessanti della figura di Marin che pensa alla parola come parola mangiata, non tanto espulsione dal corpo, quanto ingestione. Da qui un’isotopia – come diciamo noi in maniera pedante – cioè una ricorrenza tematica stabile del lavoro di Marin sui problemi della cucina: per esempio l’analisi, nelle Favole di La Fontaine e di Perrault, di tutti gli aspetti di «ingestione» o «rigetto» dei segni. Si tratta di un’idea fondamentale per la semiotica e, in Marin, essa costituisce un modo originale di correggere e rivedere la dimensione cartesiana e la grande tradizione aristotelica storica che culmina in questo tipo di ricerche. L’idea, cioè, che per i teologi, ma anche per i logici e i linguisti di Port-Royal, non c’è alcuna incompatibilità tra il segno eucaristico che opera, come sapete bene, come segno efficace, in qualche misura a valenza sacramentale, e la teoria generale del segno. Mentre noi abbiamo avuto bisogno di spogliare completamente il segno dei suoi valori efficaci performativi e poi abbiamo dovuto aggiungere di nuovo questa valenza successivamente, Marin trova un nodo nella storia europea dove il segno trans-sostanziato dall’operazione linguistica ha immediato valore efficace e performativo di per sé. Egli mostra, con grande chiarezza, che ciò non è affatto incompatibile con una teoria del segno di tipo rappresentativo, come nella Logique de Port-Royal in Agostino e in Tommaso. Se mi permettete, mi pare che una delle originalità della teoria semiotica, per quanto riguarda la problematica dell’immagine, consista proprio nel sottrarre l’immagine alle definizioni puramente denotative, referenziali, rappresentative, che caratterizzano invece la lettura moderna. Potremmo dire che siamo solo noi a pensare l’immagine come efficace e come rappresentativa. In realtà, è solo la teologia ad essere, in qualche misura, “iconoclasta” e ad aver spogliato, gradualmente, l’immagine della sua efficacia; per Port-Royal l’immagine era, allo stesso tempo, rappresentativa di una storia che era scritta, ma anche dotata di un’efficacia trasformativa in cui entra in gioco non quello che l’immagine rappresenta ma quello che fa. Ora, questo aspetto viene iscritto da Marin all’interno di una epistemologia che è, in parte, storicamente databile, ma a partire dalla quale possiamo capire come pensare oggi il problema dell’efficacia dell’immagine.
Veniamo dunque al secondo esempio sul problema della trasfigurazione, non senza aver prima ricordato che l’idea di una trans-sustanziazione conduce Marin – con una metafora ironica e a tratti seria su La Fontaine – a chiedersi se il modello eucaristico non sia, in fondo, persino assimilabile al modo in cui il gatto inghiotte l’orco, con rapidissima trasformazione, nel «Gatto con gli stivali». Marin ci introduce ad una problematica che la semiotica non ha lavorato abbastanza: quella delle trasformazioni delle sostanze, più che delle forme. La semiotica ha infatti accordato un certo privilegio all’eidetica, ma si è poco interrogata su come si trasformano le sostanze, come il duro viene trasformato in molle, come certe forme vengono invece divise in parti: «spezzettare, sgranare, sfarinare…», uno studio dei modi con cui vengono trasformate le sostanze è proprio del chimico, nel senso forte della parola, ma non è in questo senso molto diverso dalla cucina, perché la cucina è, in qualche modo, un’alchimia pratica, cioè una pratica della trans-sustanziazione, delle operazioni condotte sulle sostanze. Credo che, da questo punto di vista, il lavoro di Marin incontri, seppure a distanza, le ricerche che Greimas aveva inaugurato sulla «soupe au pistou», tentando di studiare narrativamente le trasformazioni delle sostanze e delle forme in una ricetta di cucina3.
Il secondo punto è quello della trasfigurazione. Marin stesso, in uno degi ultimi articoli pubblicati sul potere dell’imagine, ha studiato prevalentamente il problema della trasfigurazione in una delle grandi rappresentazioni di Raffaello4. Tuttavia, ancora una volta, il problema della trasfigurazione, cioè del cambiamento eidetico – che ha ovviamente in questo caso valori infinitamente più complessi – mi sembra molto importante solo se messo in relazione col problema della trans-sustanziazione: trans-sustanziare, trans-figurare, la trans-signifiance, per Marin, comprende almeno queste due articolazioni e non soltanto queste. Ciò produce il suo interesse per alcune categorie che sono categorie sfuggenti e locali, per esempio laddove i termini rappresentati sono o neutri o complessi. Nel passaggio di transustanziazione o di trasfigurazione, da una categoria ad un’altra categoria, Marin focalizza con grande interesse tutti i momenti in cui una cosa non è né l’una né l’altra, il momento in cui una categoria è neutralizzata per diventare un’altra. Nel processo di trans-significanza i problemi di neutralizzazione e di complessificazione vengono privilegiati. Non a caso si diceva di Marin che aveva un modo di parlare «complicato», poiché complesso era il modo con cui si tentava di rendere conto della maniera in cui, nella trasformazione categoriale, le trans-sustanziazioni portano inesora- bilmente al momento della neutralizzazione prima della valorizazzione dell’altro termine, o della complessificazione dei termini prima della loro scissione. Il lavoro di Marin è, in gran parte, uno studio della neutralizzazione. Prendiamo, ad esempio, l’utopia. Marin la studia come un fenomeno che è invito ad una tran-sustanziazione, alla trasfigurazione di un sistema politico, e, da questo punto di vista, la valorizazzione del neutro e la valorizzazione del complesso sono del tutto coerenti con l’operazione utopica. Credo che, se riuscissimo a mettere in correlazione la problematica della trans-significanza con l’accentuazione riservata da Marin ai problemi di complessità e di neutralità – neutralità nel senso semantico del termine – avremmo fatto un passo avanti considerevole nella comprensione del suo lavoro.
L’altro punto che vorrei toccare è quello dell’enunciazione, cioè la questione dei modi in cui la narratività – ossia la trasformazione della significazione in termini di trasmutazione e di trasfigurazione – si fa discorso. La forza dell’intelligenza di Marin nello studio della semiotica è che, mentre una parte della semiotica si fermava allo studio delle trasformazioni dei contenuti narrativi – cioè presentava la narrazione come trasformazione di stati o, in qualche modo, trasformazione di contenuti -, Marin mostra invece quanto sia necessario introdurre un operatore supplementare che è l’operatore di soggettività, il quale è iscritto nel discorso ed è l’operatore che trasforma la narratività in discorsività. Marin è dunque uno studioso del discorso, inteso come discorso linguistico e discorso figurativo, oggetto di una teoria del discorso e non esclusivamente di una teoria della narrazione. D’altra parte, non si può ridurre Marin ad un teorico del «récit»: egli è piuttosto un teorico del modo con cui la soggettività assume differenti punti di vista rispetto al «récit». Per Marin anche il discorso è allora un problema di trans-significanza, poiché esso è un luogo di trasformazione della soggetività che vi si trova iscritta. Non si tratta solo di «rappresentare» la trasformazione delle sostanze o delle forme: la sua narritività è una narratività delle trasformazioni dei modi in cui la soggettività si trova iscritta nel discorso stesso.
L’accento posto in modo tanto decisivo sull’efficacia della trasformazione discorsiva, cioè della soggetività iscritta nel testo, non può che implicare un ruolo altrettanto decisivo della trasformazione correlativa dell’ascoltatore o dello spettatore, nel lavoro di Marin. L’idea di Marin che il segno è efficace ha trovato una risposta moderna, che non c’è in Port-Royal, e che è legata allo sviluppo impresso da Benveniste e da altri alla teoria dell’enunciazione, la quale non riguarda soltanto le modalità secondo cui soggetto e autore si iscrivono nel testo, ma, appunto, il modo in cui colui che vede, colui che ascolta, è trasformato dal testo stesso. Non si tratta certo di un ritorno allo studio dell’emittente, del ricevente empirico e degli “effetti”, tipico di un’estetica della ricezione, l’interesse della ricerca di Marin consiste piuttosto nell’aver mostrato che il testo stesso è, se oso dire, una “cucina” di trasformazione dei soggetti che vi sono iscritti, i soggetti di enunciazione e coloro che guardano o ascoltano. Il testo è sì un operatore di trasformazione di chi guarda, ma nel senso che la trasformazione è iscritta dentro il testo stesso. Il testo è dunque un simulacro delle trasformazioni che immagina o propone, anche se naturalmente la storia poi può farne qualcosa di diverso. In altri termini potremmo dire che, contro l’iconoclastia tipica della semiotica narrativa e referenziale dichiarativa, il nostro amico Marin reintroduce una iconodulia (come mostrano, del resto, i suoi importanti lavori sull’immagine). Marin è un iconodulo, non in quanto adoratore di immagini, ma perché crede che l’immagine sia un luogo di trasformazioni di contenuti e d’enunciazione, un luogo di presenza e di efficacia. Chiamo qui «iconoclastia» tutti quei tentativi che rendono l’immagine puramente rappresentativa di dati, oppure gioco di segni senza alcuna efficacia operante. Evidentemente il fatto di aver pensato le relazioni tra enunciatore ed enunciatario dentro l’immagine stessa o dentro il testo stesso di La Fontaine, per esempio, pone immediatamente la questione del testo come elemento strategico. A ciò mi pare chiaramente legata la passione di Marin per l’idea del «piège» – l’inganno, la trappola – della «ruse», l’astuzia, o del «secret», del nascondimento. L’idea di articolare il problema dell’enunciazione internamente al testo mette in evidenza come ogni testo diventi, in una certa misura, un gioco, a volte di puro piacere, a volte con implicazioni prescrittive e ideologiche importanti. Marin insiste molto sulla dimensione della strategia e della tattica, da cui l’interesse, altrimenti inspiegabile e così frequente nella sua prosa, per le modalità, per il sapere, il potere, il dovere, il volere, cioè per le competenze modali. Perché? Per la semplice ragione che ogni soggetto che agisce nel confronto con un altro soggetto che reagisce, adotta una tattica rispetto ad una tattica altrui. Chiunque abbia una sequenza di tattica, cioè una strategia rispetto ad una sequenza di tattica altra, evidentemente opera meno sulle cose quanto sulla competenza dell’altro, cioè sul suo sapere, sul suo dovere, sul suo volere, e sul suo potere. Quando Marin pensa in termini di strategia non può evidentemente non pensare in termini di competenza modale e, quindi, di trasformazione delle modalità. Vorrei adesso dare due piccoli suggerimenti in forma testuale, indicare due testi. Vorrei così donare a Marin quello che, in fondo, lui mi aveva già dato, cioè suggerire un modo di leggere un testo che lui stesso mi aveva indicato e che con lui ho avuto modo di «assaggiare», nel senso in cui si dice «un essai», un as-saggio, si tratta di «Le Renard et le Poulet d’Inde».

Contre les assauts d’un Renard
Un arbre à des Dindons servait de citadelle.
Le perfide ayant fait tout le tour du rempart,
Et vu chacun en sentinelle,
S’écria: “Quoi! ces gens se moqueront de moi?
Eux seuls seront exempts de la commune loi?
Non, par tous les dieux! non.” Il accomplit son dire.
La lune, alors luisant, semblait contre le sire,
Vouloir favoriser la dindonnière gent.
Lui, qui n’était novice au métier d’assiégeant,
Eut recours à son sac de ruses scélérates,
Feignit vouloir gravir, se guinda sur ses pattes,
Puis contrefit le mort, puis le ressuscité.
Arlequin n’eût exécuté
Tant de différents personnages.
Il élevait sa queue, il la faisait briller,
Et cent mille autres badinages,
Pendant quoi nul Dindon n’eût osé sommeiller.
L’ennemi les lassait en leur tenant la vue
Sur même objet toujours tendue.
Les pauvres gens étant à la longue éblouis,
Toujours il en tombait quelqu’un: autant de pris,
Autant de mis à part; près de moitié succombe.
Le compagnon les porte en son garde-manger.

Le trop d’attention qu’on a pour le danger
Fait le plus souvent qu’on y tombe.

Vorrei sottolineare due cose che mi sembrano molto interessanti. Anzitutto la caduta vertiginosa del tacchino nella bocca della volpe. Sottolineo questo fenomeno perché è una variante interessante su «Le Corbeau et le Renard», che lo stesso Marin aveva studiato. Qui, infatti, non cade soltanto il formaggio, ma direttamente l’uccello. Perché? Siamo di fronte a un caso molto divertente: il fatto per cui, «ébloui» dalla tensione del proprio sguardo, chi è in guardia cade in bocca di chi lo caccia. Si tratta di un’inversione molto singolare, molto curiosa. Vorrei dare soltanto due suggerimenti: il primo è il piacere strategico, per cui «le récit est vraiment un piège». Una cosa interessante, che sarebbe sicuramente piaciuta a Marin è l’inversione per cui la preda in qualche misura cade – resta da sapere se cade davvero – per eccesso di tensione della propria vista, cioè: chi guarda troppo o, meglio, chi “si guarda” troppo, cade nella bocca di chi lo assedia. Lo assedia poi con tecniche «da Arlecchino», laddove la finzione è completamente efficace: Arlechino mangia davvero il pollo, e «le dindon tombe dans la bouche».
Vorrei proporre un suggerimento. Sapete che una delle cose più interessanti del fatto che gli oggetti, una volta che vengono investiti passionalmente, si trasformano in fonti di pregnanza per il soggetto, è legata ai «gradi di urgenza» di tale investimento. Quando, cioè, la passione, il desiderio è portato ai suoi estremi, si assiste ad un fenomeno che è stato molto a lungo studiato, per cui la predazione rovescia sintatticamente i suoi ruoli. In altri termini: il predatore va in giro come preda. Se il predatore desidera intensamente la propria preda, ad un certo punto, il suo desiderio fa sì che egli stesso vada a giro come preda. Il desiderio portato al livello della massima tensione passionale provoca il fatto che il leone in cerca della gazzella vada in giro egli stesso, allucinato, come una gazzella. Ciò significa che la gazzella – e in questo caso il tacchino – d’altra parte, nella fissità di controllo del predatore, si trasforma a sua volta in predatore. Per guardarsi abbastanza dal predatore bisogna prenderne il posto. In ogni postura strategica si è costretti «to take the role of the other», a prendere il viso dell’altro. Cosa succede allora fra «le renard et le dindon»? Succede che il renard si traveste da dindon, da preda, mentre il dindon, a forza di prendere la posizione delle possibili azioni del renard, si traveste da renard. Certo, il dindon si tuffa nella bocca del renard reale, ma in realtà si tratta di un renard allucinato che si getta sulla preda. Questa ipotesi, che nelle teorie della pregnanza si chiama catastrofe di regolazione, non ha nessun valore ontologico. La avanzo solo come proposta narrativa per spiegare questo fenomeno, cioè il fatto che l’intensità straordinaria dell’attenzione – e dello sguardo – tra il predatore e la preda provochi un’inversione semiotica dei segni per cui, ad un certo punto, il renard, decisamente affamato, si veste del volto della preda e la preda di quello del renard. In altri termini, non è per stanchezza che il dindon cade, ma perché, «ébloui», egli si tuffa vertiginosamente come predatore allucinato nella bocca del predatore reale. Se intendiamo dire che il récit è veramente «un piège» dobbiamo in qualche misura tener conto di questo fenomeno di cui il linguaggio è capace, di cui i segni sono capaci.
L’ultimo punto, con cui vorrei chiudere, è un invito agli amici e ai colleghi che lavorano su Marin a prolungare lo sforzo di riflessione sull’impatto che può avere avuto nel XVII° secolo la teoria del segno efficace in Francia, in un periodo molto preciso della storia francese, intorno al 1630, nell’opera di un autore che ha scritto uno dei più grandi libri sull’utopia, anche se in pochi lo sanno: la Philosophia rationalis, di cui fanno parte tre capitoli fondamentali, uno sulla grammatica, dove la teoria dei pronomi è di grande complessità, uno sulla poetica, dove si trova una tra le riflessioni più appassionanto su che cosa sia un poema filosofico e il terzo sulla retorica come arte magica. Questo autore, che ha profondamente marcato la teoria dell’utopia dell’epoca, che era amico di Mersenne e di Gassendi, pubblicato in Francia «avec fracas», ricevuto da Richelieu e da Louis XIII meriterrebbe di essere studiato e meglio compreso, non foss’altro per l’importanza che gioca l’immagine nella sua utopia. Voglio raccontarvi un interessante seguito che il suo lavoro ha avuto non in Francia, ma in Germania. Quest’autore, amico di Galileo, allievo di Bernardino Telesio, sosteneva che la poesia e la retorica sono operazioni magiche, di magìa bianca, che esse sono, cioè, sempre segni efficaci. Non voglio riprendere la teoria della magìa di Telesio e la sua influenza su questo autore per la simplice ragione che la cultura francese ha cancellato questa tradizione a causa della presenza di Cartesio, che non aveva per quest’autore alcuna simpatia, ma che anzi lo detestava. Tuttavia questa teoria ha lasciato tracce decisive nella storia dell’immagine, per esempio in qualcuno come Jan Amos Komensky. Vi ricordate che Komensky nel 1658 ha scritto Orbis sensualium pictus, dove sviluppa la teoria dell’appredimento del disegno. Il lavoro di Komensky rappresenta, insieme a Rosa Croce Tedeschi, una delle grandi filiazioni figurative della Città del sole. Quest’autore si chiama, infatti, Tommaso Campanella. Nello studio della semiotica, quest’autore, che ha vissuto per diciasette anni in Francia, che ha avuto una grande influenza perché è stato letto dai teorici di Port-Royal, che ha pensato seriamente il problema dell’utopia, che ha riflettuto fino in fondo, a mio avviso, sui problemi del segno efficace, meriterebbe di essere incluso in uno dei numerosi dossier del nostro amico Luigi Marin.


Note

  1. Questo testo è la trascrizione della comunicazione di Paolo Fabbri fatta da Cléo Pace a partire dai nastri forniti dal Centro di Semiotica e di Linguistica di Urbino, rivista e corretta da Angela Mengoni. torna al rimando a questa nota
  2. Louis Marin, La Critique du discours : études sur la Logique de Port-Royal et les Pensées de Pascal. Paris, Éd. de Minuit, 1975, 450 p. torna al rimando a questa nota
  3. A. J. Greimas, «La soupe au pistou. Ou la construction d’un objet de valeur», Documents de recherche (École des hautes études en sciences sociales, Groupe de recherches sémio-linguistiques), n° 5, 1979. torna al rimando a questa nota
  4. Louis Marin, «Transfiguration-Defiguration», in Pouvoirs de l’image, Paris, Éd. du Seuil, 1993, p. 250-260. torna al rimando a questa nota
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