Prefazione a Miroglifici di Tiziana Migliore


Da: Tiziana Migliore, Miroglifici. Figura e scrittura in Joan Miró, Et al. Edizioni, Milano, 2011.


Per Raymond Queneau la pittura di Miró era un linguaggio, in grado di operare sulle lingue e cambiarle. Il “dictionnaire des signes miresques1, la sfida lanciata da Queneau e accolta in questo libro da Tiziana Migliore, svincola la lingua dai codici convenzionali e la valorizza nella sua funzione creatrice. L’enunciatore scompare e lascia l’iniziativa alle figure, con l’urto di dinamiche ineguaglianze. Di qui la loro salienza.
“Il dovere e il compito di uno scrittore sono quelli di un traduttore”2. Queneau vedeva in Miró la forza della traducibilità tra linguaggio e immagini. Da scrittore, tenta a più riprese di “uscire dalla letteratura con la pittura e la matematica”3, attraverso l’elaborazione di pittogrammi4. Per la stessa ragione Bruce Nauman promuove oggi una sorta di OPITPO (Opificio di Pittura Potenziale), esplorando le potenzialità della combinatoria tra immagine, lettera e suono – variazioni, permutazioni, negazioni, addizioni – nel disfarsi e rifarsi del linguaggio5. Pare che anche De Chirico si muovesse in questa direzione e che la sua opera fosse sostanzialmente una traduzione di Nietzsche6. Roland Barthes, dal canto suo, intende gli haiku come “scena dipinta”, “quadretto” dove “la cosa, pur non essendo già altro che linguaggio, diventa parola, passa da un linguaggio all’altro”7. Secondo Barthes, lì la parsimonia non è tanto la concisione (restringere il significante senza diminuire l’intensità del significato), quanto piuttosto il tentativo di agire sulle radici del senso, per ottenere che questo non vaghi nell’infinito della metafora né al contrario si ossidi nella sfera del simbolo, ma ritrovi l’adeguamento del significante e del significato.
L'”idio-lessico” o lessico idiosincratico di motivi, concepito da Miró a partire dall’immaginario visivo occidentale, raggiunge questo scopo. A darne la prima documentazione estesa, come ricorda Tiziana Migliore, è Shuzo Takiguchi, i cui haiku in seguito poi illustrati da litografie di Miró nella collaborazione che va sotto il nome di Proverbi fatti a mano (1970). Per universi come questi vale il principio dell’equivalenza tra ricerca e scoperta. Cosa lo innesca?
La semiotica, disciplina a vocazione scientifica, ha un metodo di indagine arduo da apprendere, ma euristico se applicato. Tale metodo non si limita a trascrizioni concettuali né si accontenta, come la filosofia, di letture che, prive di sguardo analitico, finiscono col sembrare telecamere di sorveglianza. Rappresenta una scommessa. Grazie all’applicazione del metodo, qui si è di fronte a uno degli esiti più alti della ricerca semiotica nelle arti visive. Queneau sfida a decifrare i “miroglifici”8; l’autrice di questo libro risponde, mostrando che l’indescrivibile non è l’impossibile da descrivere, ma qualcosa che richiede un grande impegno linguistico e semiotico9. Lo stile è esatto, ricercato, aforistico. Soprattutto, nella ricostruzione del lessico di Miró, l'”ekfrasis” di Tiziana Migliore soppianta l’approccio tradizionale all’iconologia. Non va a ripescare pacchetti figurativi pronti, “appesi” ai testi, con significati già normalizzati, ma ne studia la vitalità e l’efficacia discorsiva. C’è un iconismo da scoprire in Miró: il simbolo si sbrina o è un segno che cresce per diventare simbolo. La ricerca dell’autrice va al di là dell’idea generalista che la mente umana si esprima sempre con gli stessi concetti, universali10, e al di là delle analisi di una retorica “soft”, impostata unicamente sulla metafora o sui metasegni, singoli e univoci; si sviluppa in seno a una discorsività visiva, abitata da traslazioni, figure-valigia, climax, litoti, ipallagi…
Descrivere l’opera di Miró porta all’emergenza, nelle arti visive, di un idioma comparabile alle lingue naturali. Di là dal considerarlo un’emulazione (imperfetta) della lingua in quanto sistema espressivo perfetto, l’indagine porta a galla la rete di scambi e commutazioni che trasforma i segni in simboli. E con l’ipotesi di una lingua per immagini, torna sui meccanismi del nostro modo di simbolizzare e sintetizzare.
Il “miró”, come lo chiama Queneau, riscatta gli universi artistici dalla tesi di Benveniste (1969) che “l’arte coincide soltanto con “un’opera particolare, dove l’artista instaura liberamente opposizioni e valori”. Un archivio unico al mondo di più di quindicimila bozzetti, punto di partenza per il corpus di analisi dell’autrice, mostra un’ambizione più grande, che è quella di concepire un modello di significazione e comunicazione per figure, appunto analogo alla lingua naturale e anch’esso a tre vertici – langue, parole, scrittura.
Criteri di lavoro costanti stanno alla base della formazione della langue. Nei disegni, ordinati secondo le configurazioni narrative del motivo e della sequenza, Miró edifica uno speciale bíos artistico, di tipo processuale. Le periodizzazioni menzionate dagli storici dell’arte – “fauvismo catalano”, “pittura dettaglista”, “pitture oniriche surrealiste”, “assassinio della pittura” – sono facili etichette che rientrano certamente in questo bíos, ma non possono sostituirlo né risolverlo. Indici di trasformazione sono presenti tanto nell’in fieri delle singole opere, quanto nelle serie diacroniche. La ricorrenza di elementi nel tempo (differenza e ripetizione) convalida l’idea di una logica costruttivista nel campo dell’arte, perpetrata proprio grazie all’impiego del disegno. La forma grafica, su supporti già in sé significanti, rappresenta il “tramite magico” per la conversione del progetto in visibili luoghi di argomento: multifunzionale, talvolta a valenza estetica, integra nei percorsi le componenti dell’osservazione scientifica e dell’ispirazione artistica. La molteplicità di esemplari che precede l’opera rafforza il radicamento in un preciso habitat culturale e sposta l’asse del valori: le prove iniziali sono oggetti di inventio e dispositio ben congegnati, che la fase esecutiva completa con l’apporto del colore. L’analisi di Tiziana Migliore disimplica differenze di ruolo – abbozzo, schizzo, studio topologico, esperimento ad hoc, paradigma di segni, test locale, maquette definitiva – e individua categorie artistiche specifiche: remake, fantasia, souvenir, poesia. Il reworking, che contraddistingue una di queste, la trasposizione visiva, è essenziale per i meccanismi di strutturazione della lingua.
Dai fenomeni d’uso dell’idioma discendono, coagulati e stilizzati, i miroglifici. È il piano della parole. Alle prese con il dizionario, Tiziana Migliore esamina innanzitutto le versioni esistenti: si tratta per lo più di statistiche di pittogrammi, estratti dalle opere di Miró e schedati, ma senza alcuna articolazione semica o interdefinizione. L’autrice le falsifica, in quanto sommatorie di segni isolati, di tipo lessicale11, ed elabora un modello aderente alle loro storie, che dei miroglifici recupera invarianti, variazioni, varianti combinatorie e stilistiche. Queneau vi osservava metafore plastiche, con transfert di significato, rime plastiche e piccole equazioni12.
Così anche il dizionario risulta essere un sistema di categorie distintive e differenziali – classe cosmica/classe organica, e al loro interno sottocategorie come seno/occhio, piede/uccello, sole/luna, mano/stella, cuore/genitali femminili… – che vanno oltre la singolarità dell’opera. Particolarmente significativi sono il termine neutro, la scala dell’evasione (né organico né cosmico), e il termine complesso, la spirale (organica e cosmica). Il raggio d’azione di questi ideogrammi invita a dubitare della clausura del segno. E allo specialista dei codici verbali chiarisce l’importanza dei nessi, delle giunture. Per Tiziana Migliore, che ne osserva i modi di negoziazione, il miró è un’agorà di figure. Qui l’intelligibilità è un valore sociale, contrattato con l’interprete mediante agenti e simulacri di vario tipo. I miroglifici, frutto di operazioni di simbolizzazione, sono ora emblemi, ora loghi, sigilli o impronte. Un’interfaccia che, con un salto nei processi di conoscenza dell’età preistorica, ripensa e articola il nostro dare senso ai segni. Gli isomorfismi a cui la semiotica è abituata non bastano. Vicende e destini dell’uso dei miroglifici inducono a sorpassare il semisimbolismo da formula, a cercare l’attività simbolica immanente, fondata sulla possibilità di trasformare rudimenti naturali in relazioni di potere e dominanza. Le omologie valgono soltanto se si rintracciano legami sintattici profondi.
Il terzo asse, la scrittura, induce infine un ripensamento dell’arbitrarietà dei sistemi alfabetici, attraverso la semantizzazione e l’insonorizzazione del lettering. Tipografia e calligrafia, combinate con i miroglifici, si scaricano dei loro obblighi e ricominciano a significare. In proposito, come pensava anche Halliday13, logogramma e ideogramma sono due diverse dimensioni di un segno: il logogramma ne marca propriamente la scrittura, l’ideogramma ne marca la forma del contenuto, sotto descrizione, senza rinvio a una referenza esterna.
In definitiva, di che parla questo linguaggio? Parla del mondo, ma con una politica precisa, “tagliando senza pietà i molti cordoni ombelicali che legano l’opera al mondo degli uomini che soffrono e muoiono”14. Queneau racconta un giorno di essersi trovato a scrivere cose sciocche e frivole, mentre alcuni amici passavano nelle mani della Gestapo. Ricorda allora una frase di Miró: “il coraggio consiste nel restarsene a casa, accanto alla natura che non tiene minimamente conto dei nostri disastri”15. L’invenzione di una nuova cosmologia, unica possibilità di sopravvivenza della felicità, comporta un distacco: il linguaggio può essere autonomo solo se si ha il coraggio di allontanarsi dal mondo. L’artista catalano lo fa sotto gli auspici dell’humour, della rivelazione briosa giocata sull’allusione che, a differenza del surrealismo, non sovverte i valori, li ri-figura.
Dal lavoro di Tiziana Migliore in poi possiamo parlare un’altra lingua, il miró.


Note

  1. Queneau 1981a, p. 198. torna al rimando a questa nota
  2. Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Mondadori, Milano, “I Meridiani”, 1986, IV, p. 570. Citazione di Raymond Queneau, che la annota su un taccuino. Centre International de Documentation de Recherche et d’Édition Raymond Queneau (CIDRE), D. 54. torna al rimando a questa nota
  3. Ibidem, D. 145, p. 21. torna al rimando a questa nota
  4. Queneau 1928. torna al rimando a questa nota
  5. Cfr. Fabbri 2011, pp. 22-23. torna al rimando a questa nota
  6. “Si tratta, a mio giudizio, di traduzioni da Nietzsche e di quanto, attraverso Nietzsche, De Chirico aveva per conto suo raggiunto”. Rella 2011, p. 111. torna al rimando a questa nota
  7. Barthes 1970, trad. it., pp. 87-89. torna al rimando a questa nota
  8. Queneau, op. cit., p. 198. torna al rimando a questa nota
  9. Cfr. Di Monte e Di Monte, Introduzione, in Boehm 2009. torna al rimando a questa nota
  10. C’è chi è pronto a sostenere che nei progetti di “semantografia” di Queneau, molti dei quali contenuti in Segni, cifre e lettere, vi fosse il desiderio di un linguaggio universale: una pittografia strutturata, parlabile in tutte le lingue, alfabeto dei pensieri umani. Cfr. Jeandillou 1987, p. 82. torna al rimando a questa nota
  11. Se si continua a credere che il linguaggio verbale sia primario e lo si immagina attraverso un modello teorico di tipo lessicale (ogni gesto ha un’entrata lessicografica di un proprio specifico significato, come nella lingua) non si supererà mai l’ostacolo epistemologico della nozione di segno e non ci si renderà mai conto della complessità del senso, che sta nel processo, e non nel risultato. Cfr. Fabbri 1998, ed. 2001, pp. 11-12. torna al rimando a questa nota
  12. Queneau, op. cit., pp. 198-199. torna al rimando a questa nota
  13. Halliday 1977, ed. 2003, pp. 103-104. torna al rimando a questa nota
  14. Queneau, op. cit., p. 195. Vedi anche Souchier 1991, pp. 119-120. torna al rimando a questa nota
  15. Ibidem, p. 195. L’osservazione delle stelle, con la lenta rivoluzione degli astri e l’individuazione delle costellazioni, era forse una via per pensare il mondo tenendosene a buona distanza. Tanto Queneau quanto Miró ammettono di praticare una “cosmografia elementare”. Queneau, op. cit., p. 194. torna al rimando a questa nota

Bibliografia

Barthes, Roland, 1970, L’impero dei segni, Einaudi, Torino 1984.
Boehm, Gottfried, 2009, La svolta iconica, Meltemi, Roma.
Fabbri, Paolo, 1998, La svolta semiotica, Laterza, Roma-Bari 2001.
– 2011, “Elusive signs: l’enig-mistica di Bruce Nauman”, in Sulla 53a Biennale di Venezia. Quaderni sull’opera d’arte contemporanea, a cura di Tiziana Migliore, Et al./EDIZIONI, Milano, pp. 13-24.
Halliday, Michael, 1977, “Ideas about language”, in Michael Halliday and Jonathan Webster, On Language and Linguistics, Continuum, London-New York 2003, pp. 92-115.
Jeandillou, Jean-François, 1987, “Sur un projet d’écriture universelle. Petite sémantographie portative”, Technologos 4, printemps, pp. 71-91.
Queneau, Raymond, 1928, “Pittogrammi”, in Segni, cifre, lettere. E altri saggi, a cura di Italo Calvino, Einaudi, Torino 1981, pp. 167-175.
-, 1981, “Miró ovvero il poeta preistorico”, in Segni, cifre, lettere. E altri saggi, a cura di Italo Calvino, Einaudi, Torino 1981, pp. 193-201.
Rella, Franco, 2011, Interstizi. Tra arte e filosofia, Garzanti, Milano.
Souchier, Emanuël, 1991, Raymond Queneau, Seuil, Paris.

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