I lumi di Mulas. Una verifica semiotica


Da: Ugo Mulas, Catalogo della mostra (Roma), Mondadori Electa, Milano, 2007.


0 Geremiadi e Verifiche

La foto ha un senso solo se esaurisce tutte le immagini possibili
(Italo Calvino)

Conosciamo tutti la geremiade: l’atmosfera comunicativa – l’info-sfera – è inquinata dalle troppe immagini e in particolare dalle fotografie. Immersi e sommersi nell’irrespirabile foto-sfera, riusciamo tutt’al più a dar voce alla foto come “ventriloqui che fanno parlare una muta” (Debray). Il diluvio visivo di emoticone, immagini a effetto, e il ripiego correlativo della riflessione critica sfidano ogni ecologia del visibile.
Se così fosse, è arrivato il tempo di riprendere una ricerca, quella di Ugo Mulas, che negli anni non ha preso luce, ma continua a dare i propri lumi all’attività teorica della fotografia. Non per iscriverlo in una storia panegirica dell’arte – c’è sempre il rischio di memorizzare gli onori anziché onorare la memoria – ma per esporne la singolarità. L’esperienza delle arti visive e la profonda conoscenza del medium tecnico hanno permesso a Mulas un’accortezza dello sguardo – le due parole hanno lo stessa radice – che già Eco aveva definito ermeneutica. Una competenza riflessiva sul linguaggio fotografico e una sagacia nel fissarne e svilupparne gli accorgimenti necessari. Le Verifiche di Mulas interrogano le prime domande di ogni manuale di fotografia alla ricerca dei tratti costitutivi dell’atto fotografico. Il valore e il senso della superficie sensibile, dell’impiego del teleobiettivo e del grandangolo, del formato, dell’ingrandimento, del legame intricato tra foto e didascalia. Per il fotografo che è Mulas ogni domanda è una risposta a un problema e la meditazione sulla mediazione tecnica è un’indagine sul significato. Un meta-discorso obliquo e indiretto perché la sua analisi diventa un oggetto visivo, un evento materiale – talvolta ironico – di linguaggio. Dato che la foto-sfera è molta parte della semio-sfera, la semiotica, disciplina delle forme e dei processi di senso, è in regime di scambio con queste parole date e queste immagini.
Come non esiste un’essenza linguistica se non dedotta dalla vita delle lingue naturali, così un’ontologia fotografica è deducibile solo dalle attività effettive della fotografia. Senza preconcetti filosofici e a partire da una comune fenomenologia della fotografia – Mulas rinvia esplicitamente a Merleau-Ponty – il semiologo può disporre i propri collaudi cioè, etimologicamente, lodare e verificare le Verifiche.

1.1 Un collaudo semiotico: l’Enunciazione fotografica

Gli otturatori teorici vanno aperti con precauzione a rischio di solarizzazione. La ricerca recente in semiotica ha una sua avvedutezza, il suo punto di vista, sulla fotografia (Floch). Ha preso le proprie distanze dalla ipotesi di una emanazione letterale del referente e dal postulato di una “obiettività dell’obiettivo”. Non crede, soprattutto dopo l’avvento del digitale, all’idea di un cordone ombelicale con la realtà (Barthes): la foto come traccia luminosa, radiazione fossile del tempo della sua presa che ci toccherebbe senza essere toccata; milieu carnale, pelle condivisa dallo spettatore e del fotografato. Proprietà fondatrici di una epoché del tempo e d’una relazione privilegiata alla memoria, alla malinconia e alla morte.
La semiotica, nella sua ricerca di senso e di valore, si sottrae al principio di realtà e a quello correlativo di riproduzione come impronta luminosa a distanza. La foto non rappresenta eventi: è un evento. Non è scrittura automatica della luce, ma il punto originale di convergenza tra soggetto e oggetto, dove si costruisce un gioco d’illusione e trompe l’oeil (Baudrillard). Il reale è messo in posa e a distanza per poi costruire il senso di un’altra scena: quella di una realtà più sottile che avvolge la prima con il segno della sua sparizione. L’effetto-impronta è il risultato di un trattamento particolare dell’energia luministica (l’apporto) sulla materia fotosensibile (il supporto). Con buona pace di Benjamin e Barthes, sono le modalità e le modulazioni della traccia luminosa a creare l’effetto di realtà – verità, autenticità – e il punctum affettivo.
L’immagine fotografica, redatta con diverse scritture e grammatiche fatte di espedienti plastici, figurativi e cromatici, è un tracciato di differenze attraversate da discernimenti. In particolare da un doppio gioco di Enunciati e di Enunciazioni. Un frammento di Lichtenberg ci dice che intorno a ogni immagine c’è un tremblé: il segno della sua presa o ripresa. Dalle tracce “testuali” della fotografia – dal suo Enunciato, possiamo reperire l’atto e lo scatto, le mire dello sguardo inquadrante e la sua manipolazione diacritica – il dispositivo della Enunciazione. Il potere duale e reversibile della fotografia sta in questo confronto tra salienza degli oggetti – la loro fotogenia – e pregnanza del soggetto. La varietà mirata delle rappresentazioni – che includono la dimensione esterna alla foto e lo spazio interno tra gli oggetti “riprodotti” – è l’effetto di una molteplicità di presenze ricostruibili. Presenze mentali – come la pittura, la foto è “cosa mentale” – ma anche fisiche. Siamo presi nel mondo che inquadriamo, come parte del mondo che percepiamo e che proponiamo alla ripresa degli osservatori. Per il semiologo Benveniste, teorico dell’Enunciazione, è inutile creare un effetto di presenza se nessuno viene ad assumerla. “Il sentimento di realtà è un viso e uno sguardo; l’effetto di reale è ineluttabile solo perché c’è l’altro e mi guarda” (Derrida). Il realismo della fotografia è nella compresenza; nel gergo semiotico diremmo: non è indicale ma indessicale.

1.2 I Congegni della luce

Propongo quindi di osservare le Verifiche come un piccolo trattato di Enunciazione: un’interrogazione riflessiva sull’atto fotografico. Contro la retorica impressionista dell’immagine à la sauvette, colta nell’attimo fuggente (Cartier-Bresson) e contro la vulgata delle affermazioni dello stesso Mulas sulla foto come ready made duchampiano, riprese da molti ai fini di una poetica antipittorica e modernista.
Le riflessioni di Mulas sui fondamentali dell’atto fotografico e sulla foto d’arte sono di ben altro valore per l’analisi e l’anamnesi della modernità che è il compito postmoderno. Interrogano lo sguardo “spettrale” del fotografo con le sottili strategie del trompe l’oeil e del witz. L’occhio fotografico non è nudo: è mediato dal congegno tecnico, la macchina, con cui il corpo organico forma un attore collettivo, un “fotoforo”. Mulas ha esplorato ingegnosamente le articolazioni di questa protesi visiva che produce un’estensione, ma anche una necrosi della competenza somatica (McLuhan). Una visione canalizzata è in qualche modo ostacolata e l’organo fotoattivo, che permette di vedere l’invisibile e dissolvere il visibile, è anche un ostacolo alla visione. Mulas ce lo mostra e dimostra con quel witz che chiameremmo, per analogia col linguaggio, “foto di spirito”. Ma l’ironia modernista, pur nella sua radicale anti-soggettività, è capace, come vedremo, di “magia” e di un “transfert poetico di situazione”(Baudrillard).

2 Magia bianca e nera

Ut foto pictura. La sua personale inclinazione e soprattutto il ventennale lavoro alla Biennale veneziana ha fatto di Mulas un fotografo con la conoscenza maggiore delle arti. Per scandagliare la profondità dell’enunciazione visiva – punti di vista, giochi di sguardi nell’immagine e con immagine ecc. – l’autore delle Verifiche si è valso degli operatori riflessivi della tradizione pittorica: occhi, ombre, specchi, riflessi. Congegni speculativi d’un gioco illusionistico delle apparenze dove Mulas fa convergere il punctum e lo studium della sua attività d’artista e di teorico.
Per lui il magico della fotografia non risiede nell’accettazione della vita attraverso la macchina da presa. Non gli basta definire, da fotografo, un frame, per poi assistere, da operatore, alla foto-morfosi, al “miracolo delle immagini che nascono da sole”. La magia si trova nel gioco di apparizioni e di sparizioni, soggettive e oggettive, che scatterà in alcune foto privilegiate. Una logica spettrale e decostruttrice (Derrida) al di là di della sincronia col vivido presente che appare come l’evidenza di ogni fotografia. Nelle sue Verifiche traccia un quadro fittizio di illusioni e di fantasmi, capace di seduzione e stupefazione.
Questo magico quadrato è in bianco e nero, perchè per Mulas “il colore era imbratto” (Argan).

2.1 Magia bianca: nello Specchio dell’arte

Se si vuol considerare lo specchio in sé e per sé, scopriremo soltanto gli oggetti che vi si trovano. Se si vogliono cogliere gli oggetti in sé, finiamo invece per ricadere sullo specchio. è tutta la storia della conoscenza
(Friedrich Wilhelm Nietzsche)

Per un grande mediologo, Malraux, artistico oggi è solo il fotografabile: l’aura intemporale perduta dalle/delle opere è restituita dagli scoop. L’arte sarebbe quindi l’oggetto di una “creazione fotografica” come quella di Mulas sull’opera di Pistoletto (1972), ben descritta da Fossati. La foto documenta uno specchio abitato da un nudo femminile visto di spalle e lo specchio riporta la figura del fotografo al momento dello scatto. Un montaggio che incide nell’Enunciato speculare il soggetto dell’Enunciazione, là “dove la spugna non giunge”, secondo un poeta caro a Mulas, Montale.
Mulas ha fatto omaggi ad altri artisti – memorabile il vetro spezzato per Duchamp – e usato di specchi in altre occasioni – vedi i riflessi su occhiali a specchio in A Vittore Pisani (1970). Ma in questa immagine il gioco dell’Enunciazione è molto più sottile. L’opera di Pistoletto ha un proprio intertesto: il nudo voltato della Venere di Velazquez, di cui vediamo il viso grazie a uno specchio che si accosta allo spettatore con un ingrandimento eccessivo rispetto alla distanza prospettica. La foto di Mulas aggiunge un nuovo e speciale effetto: per l’osservatore la macchina da presa riflessa nello specchio risulta indirizzata – anche attraverso l’orientamento di una linea della parete – verso il sesso del corpo nudo che a lui resta invisibile. Per contro “Il fotografo è piegato sulla macchina con l’intensità (…) esclusiva di un piacere segreto” (Fossati), pronto a premere il pulsante di una pulsione.
Fa pensare alla apparizione del corpo nudo di Bice, la fidanzata, al protagonista dell’Avventura di un fotografo di Calvino (1954). “Antonino sentì la vista di lei entrargli negli occhi e occupare tutto il campo visivo, sottrarlo al flusso delle immagini casuali e frammentarie, concentrare tempo e spazio in una forma finita. E come se questa sorpresa della vista e l’impressionarsi della lastra fossero due riflessi collegati tra loro, subito premette lo scatto…”
Con uno scambio ironico di pronomi, è il tu della posa, collocato al centro della composizione, a vedere quello che l’Io dello scatto non potrà mai vedere. Come se lo specchio, attrattore strano e iperbolico, avesse inghiottito il suo doppio per farlo diventare il punto di fuga della foto. La quale a sua volta trasforma in definitiva permanenza l’impermanenza parziale dello specchio di Pistoletto. Gli specchi, come la fotografia, non riflettono mai abbastanza. Qui, giudiziosamente accoppiati, compiono un ironico esperimento enunciativo: diventano operatori di una metamorfosi in profondità dello sguardo, una reversibilità enigmatica che ha il gusto di un witz, il punctum malizioso di una “foto di spirito”. L’illusione viene gestita da un’illusione: un trompe l’oeil che è anche un transfert poetico di situazione.

2.2 Magia nera: l’Ombra e la Maschera.
L’Ombra: la mano e il viso

Dés qu’il y a technologie de l’image, la visibilité porte la nuit
(Jacques Derrida)

Ci sono foto di Mulas che versano nello specchio e nell’ombra la pozione visiva d’una più nera magia.
La ritroviamo nei ritratti di artisti. In quello di Jasper Johns l’ombra segnala l’enigma dell’attività creatrice nel rapporto arte e fotografia. “È Johns che dipinge un grande quadro: la luce proietta la sagoma del pittore rivelando la mano e il pennello sotto forma di ombra, e quindi il gesto del dipingere. Non mi sentivo di mettermi fra pittore e tela come spesso ho fatto in casi del genere, sempre avvertendo l’imbarazzo per l’intrusione in un momento così delicato. Fotografando di spalle Johns, avevo trovato un modo di registrare il momento in cui nasce il quadro: stranamente, dopo questa foto, non ho più ripreso pittori nell’atto di dipingere”. Potere dissuasivo dell’ombra.
Ma è sopratutto negli autoritratti che Mulas ha posto il tema Enunciativo delle azioni e delle passioni della luce – il riflesso e l’ombra – che sta al centro del suo pensiero visivo. In particolare sulla logica spettrale che caratterizza, all’interno dell’istanza enunciante, la relazione tra il soggetto e la macchina, che è insieme organo e ostacolo. Una delle Verifiche più suggestive ed enigmatiche è dedicata al problema che egli ha più sentito come fotografo: “superare la barriera che è costituita dalla macchina, cioè il mezzo stesso del suo lavoro e del suo modo di conoscere e di fare”. Per Mulas il congegno visivo è l’organo che gli consente “di essere presente, di vedermi mentre vedo, di partecipare, coinvolgendomi” e il suo ostacolo: “la macchina non mi appartiene, è un mezzo aggiunto di cui non si più sopravvalutare né sottovalutare la portata, ma proprio per questo un mezzo che mi esclude mentre più sono presente”.
Di qui la foto-dinamica del suo esperimento visivo, dedicato a Lee Friedlander, anche lui amico di artisti – come Jim Dine – autore di numerosi autoritratti e operatore d’ombre e di specchi1.
“Contro la finestra c’è uno specchio, il sole batte sulla finestra, ne proietta l’ombra di un montante contro la parete e insieme proietta la mia ombra. Da quest’ombra si vede che sto fotografando, e la mia azione appare anche nello specchio. In ambedue due i casi c’è un elemento comune: la macchina cancella il viso del fotografo, perchè è all’altezza dell’occhio e nasconde i tratti del volto”2.
Ecco il punctum. Lo sguardo di Mulas è il contrario esatto dell’occhio di Medusa. Non immobilizza il soggetto nella sua consistenza visiva – autentificazione e referenzializzazione – ma ne rispecchia e ne adombra la sparizione. La macchina introduce nello specchio una turbolenza della rappresentazione: il soggetto sfugge alla presa ed è colto e ingigantito dall’ombra. Baudrillard, teorico e fotografo, diceva di ascoltare “il grido del soggetto nel buio, in fondo alla camera oscura”! Nulla di più obiettivo però di questa inafferrabilità: il testo di Mulas espone la presenza di una sparizione, il fading del soggetto proiettato nel testo. Le apparenze sono risuscitate nell’immagine per farle sparire, ma nel processo della loro dissolvenza acquisiscono un’ulteriore forza di illusione e di magia. Nel witz che presiede alla Verifica di Mulas si opera l’anagramma ironico del verbo Fotografare.
C’è una notturna magia delle tecniche dell’immagine, dice Derrida. E aggiunge: “L’avenir est aux fantomes”. L’autoritratto di Mulas è spettrale perché nella fotografia “lo spettro non è solo quel visibile invisibile che che io posso vedere, ma è qualcuno che mi guarda senza possibile reciprocità. Non posso vedere l’occhio dell’altro come vedente e come visibile” (Derrida).

La Maschera: visiera e celata

Questo atto fotografico provocatore, Pistoletto 1972, genera un autoritratto che ha il problematico incanto d’una dimensione inedita di senso.
Mulas ri-problematizza i congegni dell’Enunciazione in Autoritratto con Nini, una delle Verifiche più esplicitamente fenomenologiche – vedi la citazione di Merleau Ponty: “vedere mentre ci si guarda e si guarda”3.
“Ho voluto tornare sul tema dell’autoritratto, del volto del fotografo cancellato o impreciso”. In questo caso però è il fotografo che si presenta davanti alla macchina da presa: dopo aver impostate l’atto inquadrante lascia la sua immagine inquadrata e passa ad iscriversi accanto Nini sulla materia fotosensibile. L’autoritratto da riflessivo diventa transitivo – eppure, ancora una volta, l’effetto (e l’affetto) è l’evanescenza del rappresentato: “Quando il fotografo lascia l’apparecchio dopo averlo messo a punto, per trasferirsi dall’altra parte, questa realtà non muta e lui continua a non potersi vedere. (…) il suo viso nell’obiettivo è assente”. L’esperimento ha luogo attraverso l’apposizione e l’opposizione di due volti, ritratti con diverse modulazione visive: le categorie espressive dello Sfocato e dell’A Fuoco. “Qui, su uno stesso fotogramma, Nini ed io siamo insieme: Nini è a fuoco, io sono sfocato”.
A Fuoco: Nini. “È a fuoco perché ero io a fotografarla, la vedevo così e così volevo vederla, perché voglio sempre vedere col massimo di chiarezza quello che mi sta davanti, e fotografare è vedere e voler vedere, prima di tutto.”
Sfocato: Ugo: “Il mio viso è sfocato perché c’è una sola parte del mondo sensibile che l’uomo, che ‘può vedersi mentre guarda’ secondo Merleau-Ponty, non riesce a vedere di sé: il viso (…) l’immagine resterà imprecisa, sfocata”.
La sfocatura non è uno stato, è la dissolvenza in atto tra apparizione e sparizione. Il difetto della messa a fuoco genera un effetto di senso ascrivibile a un tremblé nel gesto di ripresa, del corpo o della macchina. Accentua, diremmo con Lichtenberg, quel tremito che sta ai bordi di ogni fotografia, come i movimenti saccadici di un occhio apparentemente fisso. La conseguenza turbolenta è svisare l’immagine, imprecisare i contorni, alterare i connotati e i caratteri. Gli stessi effetti di bougé che cerca un personaggio di Calvino moltiplicando le smorfie davanti allo specchio. Odiando la propria faccia, Fulgenzio – nomina sunt numina – tenta di alterarla attraverso le deformazioni incessanti del viso in modo che, durante questo processo di metamorfosi, “io intanto era come se non ci fossi”.
Potremmo epilogare a lungo sulla comune postura modernista di Calvino e di Mulas: la cancellazione del soggetto dell’Enunciazione e la costruzione di una oggettività attraverso giochi di linguaggio. E replicarne la nitida opposizione alle sfocate posture postmoderne in letteratura e fotografia.
Ci sembra più interessante sottolineare il ruolo che nei ritratti di Mulas gioca la maschera: quella della macchina – visiera e celata – o della sfocatura, ma anche dello specchio e dell’ombra. Nel ritratto l’obbiettivo coglie talvolta la singolarità fisiognomica che sfugge al fotografo come al soggetto. Fa sorgere dietro l’identità, che è già maschera, (“la maschera prodotto socio storico contiene più verità di ogni immagine che si pretenda vera”, Calvino 1958) la segreta alterità di un’altra maschera: un’eterografia più autentica dell’autografia.

3 Simulacri abitati

Io ho fotografato una frase
(Man Ray)

Una volta fotografata l’assenza, diceva il fotografo di Calvino, non resterà che fotografare fotografie. O generare foto digitali, che sono “orologi per vedere”, immagini indubitabili del mai accaduto, simulatori perfetti di Enunciati e di Enunciazioni, realtà e punti di vista.
La loro capacità di simulare gli effetti di oggettività e di intersoggettività ci segnala quanto già fosse diacritica la foto cosiddetta analogica, come fosse riflessiva e speculativa la sua Musa.
I dispositivi teorici di Mulas, espressi in proposizioni e immagini, si prestano a un ascolto e a uno sguardo semiotico che li accolga, per esplicitarli, nel proprio regime di frasi. I suoi autoritratti, foto di spirito, hanno inciso gli specchi, fermato riflessi e ombre. Se un giorno i popoli imprigionati negli specchi e nelle fotografie, magico paese dove abita Mulas, torneranno tra noi, dovremo essere pronti ad accoglierli e comprenderli. O ripareranno per sempre nel loro mondo di simulacri.


Note

  1. Di Frielander vedi le osservazioni sui riflessi delle vetrine e i numerosissimi autoritratti – anche se, per lui sarebbero solo l'”estensione periferica del suo lavoro… una risatina nervosa”. Vedi anche gli specchi impiegati in Nashville 63: tra le ombre, celebre New York 66: l’ombra del fotografo sui capelli di una donna seguita per strada. torna al rimando a questa nota
  2. Fossati con quello che l’Oulipo chiamerebbe plagio per anticipazione, mette opportunamente in rapporto questo autoritratto di Mulas con quello del 1930 di Umbo – pseudonimo di Otto Umbeht – in cui “il fotografo è posseduto o mutato dalla macchina”. torna al rimando a questa nota
  3. Roche Insiste sull’onirismo e sul carattere di contro-reale introdotti dal riflesso e dalla specularità. Basso Fossali ne ha commentato semioticamente i numerosi ritratti di coppia, in Les preuves du temps, a cura di G. Mora, Seuil, Paris, dove sono all’opera questi meccanismi enunciativi. Vedi “Foto in forma di noi: eclissi rappresentazionale di una coppia” in AA.VV., Semiotica della fotografia. torna al rimando a questa nota

Bibliografia

AA.VV., Semiotica della fotografia, a cura di P. L. Basso Fossali e M.G. Dondero, Rimini 2006

J. Baudrillard, Objects in this Mirror in Le crime parfait, Paris 1995

J. Baudrillard, La photo c’est trés beau mais il ne faut pas le dire… in Le paroxyste indifférent, Paris 1997

J. Baudrillard, La Photographie ou l’écriture de la lumière: littéralité de l’image in L’échange impossibile, Paris 1999

J. Baudrillard, La violence faite à l’image in Le pacte de lucidité, Paris 2004

I. Calvino, L’avventura di un fotografo in Gli amori difficili, Torino 1958

I. Calvino, Lo specchio e il bersaglio, in Racconti sparsi e altri scritti d’invenzione, vol. 3 di Romanzi e racconti, Milano 1994

R. Debré, L’oeil naif, Paris 1994

J. Derrida e M. Stiegler, Echographies, Paris 1996

U. Eco, Introduzione in Fotografare l’arte, Pietro Consagra – Ugo Mulas, Milano 1973

J.M. Floch, Le forme dell’impronta, Roma 2003

P. Fossati, Autoritratti, specchi, palestre, Milano 1998

A. Malraux, Le musée imaginaire, Paris 1965

Ugo Mulas, a cura di A. Mulas, Pesaro 1995

U. Mulas, La fotografia, Torino 1973

D. Roche, La photographie est interminable, Paris 2007

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