Pensieri del corpo nudo


Da: AA.VV., Il nudo tra ideale e realtà, a cura di P. Weiermaier, Artificio Skira, Milano, 2004.


La strategia di Zeusi

“Ciò che è stato l’amore per i narratori e i poeti, il Nudo lo fu per gli artisti della forma”. C’è un’intonazione nostalgica in questa frase di Valéry su Degas. Come se la bella nudità, già esibita o esposta, fosse irrevocabilmente perduta e l’arte moderna avesse per sempre stornato lo sguardo dall’avvenenza e dalla venustà. E non vale ribattere, come postulato o tautologia, che “il nudo è sempre il Nudo” (Klossowski). La sua immagine ci sembra ormai “mossa”, per il doppio spostamento del nostro sguardo e del suo riferimento.
A meno che questa “enfasi negativa” sia solo l’accettazione acritica di quella “questione polarizzante” che ha dichiarato la chiusura dell’arte classica e l’avvento irriducible della modernità. O l’effetto d’un eccesso ermeneutico, di una definizione filosofica del Nudo implicata nella nostra cultura figurativa. Che sia il momento e l’occasione di sostituire l’osservazione del Nudo canonico e di creare nuove relazioni con la nudità? Una “logica” sperimentale “delle situazioni” che non ne usi come essenza – mela d’oro da assegnare con un giudizio di Paride – ma come il risultato rinnovabile di una ricostruzione alla Zeusi – il montaggio di parti diverse in vista d’una approssimazione. Per un matematico non è facile qualificare univocamente la spirale (che pure articola col DNA le basi della vita) e, nonostante l’evidenza, anche il nudo è difficile da definire. Dove comincia e dove finisce la veste e il velo, la pelle e la carne? Come qualificare le forze, i moti e i gesti del corpo e dei suoi involucri?
Prenderò partito per un nudo che non sia né genere pittorico né un concetto filosofico, ma un “pensiero del corpo” (De Chirico). Una figura estetica col suo potere d’affetto e di percetto, ma anche un personaggio concettuale. Non un “operatore critico”, figurante o comparsa cognitiva, ma un agente con forza d’enunciazione, capace di annodare e trasformare nuovi rapporti con gli osservatori. II momento è propizio: contro il revisionismo che pretende di tornare al nudo “pittoresco”, si può operare col nudo per eccedere la chiusura dell’arte senza proclamarne la fine?
La strategia dello Zeusi senza canone è una sintesi disgiuntiva. Nel CD-rom di Harwood, Rehearsal of memory, l’interfaccia traduce un data base sottostante con l’immagine in bianco e nero d’una figura nuda. (I data base sono la forma simbolica del nostro tempo, come la prospettiva lo è stata per il Rinascimento.) Possiamo percorrere questo nudo attivando i brani testuali e video che vi sono inseriti. Prenderò a modello questa iper-narrazione per cui Coleridge – con un plagio per anticipazione – ha coniato il termine “esemplastica”: la raccolta di parti disparate di un corpus per costruire un modello in progress.

Il Nudo prototipo e la comunicazione perfetta

Il nudo è da sempre un metagenere. Il solo, per Berenson, a stabilire una comunicazione perfetta. La sua superiorità stava “nel render sensibile il linguaggio delle forme”. Non era solo il naturale antropomorfismo, per cui “niente di tangibile eguaglia il corpo umano in quanto materia artistica”. È una legge derivata “naturalmente dalle condizioni generali della percezione, così come i valori tattili discendono dalla psicologia della visione”. Anche la stoffa sarebbe un ostacolo o una maschera, perché quel che conta è soltanto quel che nasconde. Il pittore visualista, infatti, farebbe solo visi e stoffe, mentre “il vero artista [se] è costretto a vestire i suoi personaggi, ci farà sentire i corpi sotto le stoffe e saprà costringere anche queste stoffe a trasmetterci il linguaggio delle forme umane. Quanto sarà più a suo agio, come renderà il suo linguaggio più persuasivo e personale se niente s’interpone tra lui e il modello! Questa comunicazione perfetta solo il nudo la può stabilire“. Così a metà del Novecento – con la sua posizione modernista sull’uomo/natura e le categorie della psicologia e della comunicazione -, il grande connoisseur laicizza la persistente idea filosofica del nudo e la pratica accademica della copia dall’antico e dal vero, nel museo e nello studio.
È certo che le arti dell’Occidente hanno fatto una fissazione sul Nudo, come la filosofia europea sull’essere e sulla verità. Nel dialogo, confronto-contrasto, con la cultura classica cinese, F. Jullien ci permette di riconoscere la continuità di una tradizione che dalla Grecia classica conduce alla rottura dell’Ottocento. Nella varietà dei trattamenti artistici del nudo si disegnerebbe un’essenza metafisica: l’incarnazione nella nudità umana d’un eidos, forma archetipa portatrice di bellezza e di grazia trascendenti. Un modello intelligibile, logos, per cui il solo uomo è nudo: “l’uomo […] si ferma per contemplarsi. Riconoscendosi nel Nudo, non come un ente particolare, preso nella trama indefinita del mondo, ma in quanto è lui ad essere l”Essere’; in quanto è ‘uomo’ e nel proprio destino d’essere”. Questo ideale – ed è forse il modello stesso della rappresentazione – si realizza nella forma, forma distincta, che sublima la nudità empirica nell’essenza idealizzata del Nudo. La mimesi artistica non è il processo naturante della natura, ma l’imposizione alla sostanza del mondo di un modello di bellezza che sporge nel visibile come rivelazione. Venere esce dalle acque, offrendosi come Nudo, pura rappresentazione che risponde ad un destinante metafisico. “Il Nudo […] staccandosi sullo sfondo del mondo, s’es-pone allo sguardo. A quello dell’occhio, dello spirito. Ecco perché, sorgendo come da un incavo produce il proprio svelamento e impone la sua presenza e risalendo dal sensibile, alla forma intelligibile ne trae un effetto di evidenza”. Fa sorgere nell’imperfezione del visibile un al di là, piùccheperfetto e più che visibile.
Questa è la tradizione che ritroviamo al cuore della filosofia dell’immagine: “la visione […] è un pensiero che decifra strettamente i segni dati nel corpo […] talora insufficienti, a cui fa dir più di quanto significano”; vi risveglia “delle potenze dormienti, un segreto di preesistenza”. L’estasi che si prova davanti alla sublimità del grande Nudo – basti pensare a Michelangelo – è l’effetto di senso della normatività che lo costituisce in “totalità assoluta”; eccede la capacità cognitiva di rappresentazione e lo stesso immaginario. Per questo il cristianesimo, che ha osteggiato la nudità, ha mantenuto sugli altari non il Cristo nudo ma il Nudo del Cristo.
A differenza di altre culture, dove la nudità, priva d’ontologia e di metafisica, si dà come indecenza o erotismo, il pensiero europeo ha operato dunque uno straordinario tour de force. Ha convertito l’attrazione della carne e il rifiuto del pudore in esigenza d’essenza e potere spirituale. Ha trasformato il corpo spoglio in pienezza, il sensibile e il desiderabile in icona della Bellezza attraverso i contenuti della mitologia e l’obbiettivazione delle forme.
Nella sua Arte dei Cenni, un autore rinascimentale, Bonifacio, scriveva: “dei nudi degli dei la potenza e la virtù è manifesta perché sia visibile che non ci son vizi nascosti”. Pigmalione e Frine, Fauni e Ninfe, Danae e Adone, Diana e Marsia, Grazie e Sileni, Veneri ed Ermafroditi, continuano a frequentare la rappresentazione e la narrazione dei Nudi, anche sotto le spoglie laiche e moderniste delle bagnanti, odalische e delle prostitute. Per A. Renoir, “la donna nuda uscirà dal mare o dal proprio letto; si chiamerà quindi Venere o Ninì”. È il mitismo del Nudo che sottostà alla nudità rappresentata: Picasso, ad esempio, ha continuato a trarre un’intensa ispirazione dalle figure di nudo di Renoir e dal loro fondo mitologico (si veda Euridice, 1921).

Type e token

Quanto alle strategie formali di oggettivazione, esse si lasciano descrivere in una lista aperta di tratti distintivi. L’idealtipo del Nudo accademico (il suo Type) privilegia la fissità contro il processo (la posa più del movimento transitorio ed evolutivo); la sintesi statica più del processo regolativo; la distinzione e la discontinuità rispetto all’indistinto e il continuo (il contorno più dello sfumato); l’articolazione delle parti piuttosto che il corpo inarticolato; la concordanza delle membra piuttosto che la loro discordanza; una gerarchia somatica definita piuttosto che l’informe; la simmetria, esterna ed interna, più che l’asimmetria. Una gerarchia fissa degli involucri (pelle, velo, ornamento, veste) e una purificazione delle escrescenze sugli involucri (peli ed altre imperfezioni). Il Nudo prototipo è isolato nello spazio – fino a contenere la propria ombra – e sottratto al tempo, piuttosto che contestualizzato e inserito nella durata. Ma se il processo scandisce l’essenza, sarà più intransitivo che transeunte (l’arresto è una transizione in equilibrio), privilegerà il movimento degli arti rispetto ai moti emergenti della carne (l’incarnato) e il suo ritmo risponderà ad un’armonia (o a una disarmonia) prestabilita. Rispetto alla visibilità a cui s’espone e s’impone, il Nudo preferisce la presenza diretta all’allusione e all’implicito; si dà a vedere con una nettezza che è all’esterno il corrispondente della sua unità interna. Il nudo è teatrale, si esibisce tra le cortine e i sipari, le chiome, le vesti e i gesti.
Si può quindi dimostrare come la deformazione calcolata di questi tratti genera il brutto (la vecchia malvissuta o il Noé ubriaco, Bacco e il sileno) o mostruoso animalesco o demoniaco; come si rovescia l’attrazione in repulsione.
Non c’è rappresentazione singolare (token) di Nudo che realizzi in toto questo canone figurativo. È probabile invece che il Nudo-type emerga come punto o punti di fuga dalle pratiche della pittura, più che dalle teorie estetiche che l’accompagnano. Resta il fatto che l’identità di specie è un modello che orienta la produzione di esemplari. Il calcolo matematico e la ricerca anatomica sono una conseguenza – e una concausa – di questa idealizzazione. C’è un’epistemologia del Nudo che rafforza la sua idealità d’essenza attraverso l’indagine scientifica della morfologia somatica.
D’altra parte la lista dei tratti-type permette a Jullien di riconoscere la configurazione inversa della pittura cinese e a noi di tentare una tipologia delle scelte alternative con cui la pittura moderna e contemporanea hanno abbandonato la sublimazione oggettiva per l’incontro soggettivo e il conflitto di esperienze cognitive e sensibili.

Gli effetti modellizzanti del Nudo non si sono fatti sentire soltanto nel campo delle arti: “il pensiero politico traccia il piano della città ideale come il pittore disegna il nudo canonico”. Per comprendere l’uso del Nudo nella autonomia (relativa) della serie artistica sono utili le considerazioni sociologiche: le modificazioni del pudore e della cura di sé – i moderni afrodisia, la mutata relazione corpo/macchina; i nuovi regimi della sorveglianza e del controllo. Ma è il modello artistico del Nudo idealizzato da Winkelmann e praticato negli atelier che ha strutturato l’impiego politico del corpo nel Novecento. Nonostante gli avvertimenti di Goethe: “Apollo del Belvedere, perché ti mostri a noi in tutta la tua nudità, facendoci vergognare della nostra?”, la società della modernizzazione si è servita del Nudo ideale maschile per la costruzione di una virilità capace di controllo sull’ordine e sul movimento delle azioni e delle passioni. Dagli stadi ai monumenti di guerra, attraverso le sculture di A. Breker, il Nudo ha accompagnato i culti totalitari dello sport e della guerra che ambivano il posto delle religioni. Nazismo e fascismo hanno collocato a fondamento dello stato un cameratismo maschile di Nudi neoclassici – le effigi dei lavoratori di Stalin e delle donne hitleriane erano piuttosto vestiti. Lo scarto dall’ideale somatico era quindi costruito e percepito come un’anomalia sociale (l’ebreo, l’omosessuale). Il Prototipo fisiognomico del nudo winklemanniano è servito ai classificatori di razze e per la costruzione dei controtipi dell'”arte degenerata”.

L’anatomia del quadro

Il corpo [è] avvocato dell’immanenza, refutazione palpabile della menzogna metafisica
(Nietzche)

Contro l’ideale antropologico sublimato nel Nudo e contro l’Accademia, esemplata sull’antico, reagiranno le avanguardie. Come i futuristi: “Combattiamo contro il nudo in pittura” – specie il femminile sinonimo di passività – “nauseante e noioso come l’adulterio in letteratura”. Il rapporto al vero viene rovesciato. Alla “menzogna”del Nudo, col suo vieto riferimento corporeo, il Futurista oppone la “verità della geometria” e proclama di preferire “l’intersezione dei piani di un libro e gli angoli di una tavola, le linee rette di un fiammifero, del telaio d’una finestra a tutti gli intrecci di muscoli, tutti i seni e in tutte le cosce di eroi e di Veneri che entusiasmano l’incurabile stupidità degli scultori contemporanei”.
Il riferimento umanista al corpo si sposta sulla natura e sulle macchine.
Per i surrealisti, come M. Ernst, gli arti animali si innestano sui corpi umani, per Man Ray, le componenti della macchina si mescolano inestricabilmente alle membra della nudità femminile. Per A. Martini “Fonte d’estasi oggi è un limone quanto una Venere”, e c’è chi lamenta, ancor oggi, che si possa fare più attenzione all’Asparago di Manet che ai suoi nudi.
Il Nudo continua tuttavia a rappresentare uno sfondo, un riferimento alluso o rimosso, per menzione ironica o/e travisamento formale. Picabia, oltre agli espliciti rinvii alle riviste erotiche, eleva a dignità di Nudo la sagoma di una Candela elettrica d’accensione (1915), che porta la scritta “for ever”, presentato come il “ritratto di fanciulla americana in stato di nudità”; oppure intitola un quadro astratto di danza IDNUE, giovane americana (1913), dove riconosciamo l’anagramma di “Isidora Duncan NUE (nuda)”. Man Ray nel 1929, intitola per contro la foto solarizzata d’un classico Nudo, Primato della materia sul pensiero!
I tratti distintivi del Nudo accademico sono puntigliosamente visitati dalle avanguardie, travisati e trasposti sul piano formale, decostruendo il modello della rappresentazione fino a “presentare l’irrappresentabile”: del Nudo, oggetto d’idea, non si possono più dare esempi o simboli; è ridotto in stato di nudità, smitizzato e smimetizzato. Oltre il Nudo si ricerca un nuovo corpo, che il “futurista” Arthaud chiamava “corpo senz’organi”, su cui trapiantare nuovi sensi e significati altri. Gombrich ritiene che sia perduta così, al di là di ogni relativismo culturale o strategia di rappresentazione pittorica, l’irripetibile risultato dell’assoluta Bellezza.
Il gesto di più radicale denudamento del Nudo classico spetta tuttavia a Paul Klee. “Come l’uomo, anche il quadro ha uno scheletro, dei muscoli e una pelle. Si può parlare di una particolare anatomia del quadro. Un quadro che ha per soggetto un ‘uomo nudo’ non va raffigurato secondo l’umana anatomia ma secondo quella del quadro”. L’anatomia umana della “bella nudità” è riassorbita nell’anatomia del quadro. Il Nudo ideale perde il suo mitismo e con esso la capacità di raffigurarne le peripezie e le trasformazioni (violenza, sorpresa, pudore, ecc.). Dà luogo allora al nudo-motivo o alla nudità fortuita, viene interiorizzato, neutralizzato poi disarticolato o dissolto secondo le leggi della pittura. Il quadro diventa un simulacro che esorcizza, attraverso la propria sintassi, ossessioni fantasmatiche preesistenti; può comunicare solo per ideogrammi l’esperienza della nudità o rinunciare ad esprimerla.
Ma la nudità si è ulteriormente dislocata: da Cézanne ai futuristi il punto di fuga non sta più nel quadro ma nell’occhio di chi guarda. Ora, lo sguardo sul Nudo ideale non portava eccitazione o repulsione – è possibile il desiderio carnale della Venere di Botticelli? Era la nuda Venere del Guercino che additava l’osservatore alla sguardo e alla prospettica freccia di Cupido (Venere, Marte, Amore). Ricettore passivo, bersaglio impassibile o eventualmente estatico d’una rivelazione ontologica, anche l’occhio era Nudo. Lo sguardo che porta invece sulla nudità contemporanea – nella cacofonia delle arti e nell’estesia “univisiva” del quotidiano – ha (ri)trovato le sue virtualità ambivalenti.

Ecce Olympia

Entriamo in un mondo nuovo e il sipario si leva sull’Olympia
(G. Bataille)

Ritorniamo a questa svolta troppo annunciata nel lungo racconto del Nudo. Con un principio epistemico di precauzione. Le pretese rotture estetiche si rivelano spesso pieghe, inflessioni e accentuazioni. Anche gli operatori di trasformazione non appartengono ai repertori delle discipline più innovative e recenti, ma, come nella rivoluzione scientifica del Seicento, in quelle più antiche e consolidate, come l’astronomia.
Per entrare nel “mondo nuovo” dell’arte, l’operatore è proprio ed ancora il Nudo. “Pare che debba fare un nudo. Ebbene ne farò uno…”, diceva Manet. E per giungere all’Olympia, Gombrich scandisce così “la logica evolutiva” del “grande passo nella lotta di liberazione dell’arte dall’artificiosità accademica”. Dopo “l’allontanamento progressivo dal freddo ideale di Ingres, La grande odalisque del 1814, il colorismo patetico e pittoresco di Delacroix apparve come la prima sfida (Donna con pappagallo del 1827), il realismo addirittura brutale di Courbet (lo scomparso Nudo sdraiato) come la seconda fase della rivoluzione”. Poi venne l’Olympia.
La mutazione di questo quadro, se tale è stata, porta sul Nudo prototipo, mediato dalla rappresentazione classica di Tiziano. E sull’ideale stesso della Bellezzza, fissata da Ariosto nell’11° canto dell’Orlando Furioso (v. 67-241): “dirò insomma ch’in lei, dal capo al piede,/quant’esser può beltà tutta si vede”. Descrizione di un Nudo che Tasso, nel suo dialogo sulla bellezza, il Minturno, definiva canonica. Nessuna necessità di uno Zeusi che “tante belle nude insieme colse: e che per una farne in perfezion/da chi una parte e da chi n’altra tolse/non avea da torre altra che costei,/che tutte le bellezze erano in lei”. A lei sarebbe spettata la mela di Paride nel celebre giudizio sulla Nuda bellezza.
Sul modello più consolidato del Nudo si compie la mutazione “sediziosa” di Olympia. Per Gauguin la pittura comincia con Manet e per Bataille la distanza dal contemporaneo Meissonnier non era diversa da quella tra Meissonnier e Picasso. È la decostruzione dell’edificio maestoso del Nudo come totalità intelligibile, che Manet compie introducendo un disordine della posa e un’indifferenza del soggetto. Nonostante il vecchio vocabolario della fisionomia e la grammatica classica della composizione, il cambiato mitismo (da Venere a prostituta) e il mutamento delle forme (la sinuosità baudelairiana), alterano irrevocabilmente il senso del Nudo. Come osserva Leiris, “Olympia, come la poesia moderna, è […] la negazione dell’Olimpo, […] del monumento mitologico, e […] delle convenzioni monumentali”. Nella luce fredda della riscoperta nudità, le possibilità latenti della pittura si riaprono a nuove e indefinite complessità. Il nudo esce dall’intemporalità per ritrovare una cruda presenza, non per il suo enunciato figurativo ma per il dispositivo della sua enunciazione. La luce proviene dall’esterno, dallo spazio davanti alla tela e rende attore lo spettatore. Ma lo sguardo provocante di Olympia (i personaggi di Ariosto e di Tiziano abbassavano gli occhi) è fisso su di noi (come i nudi di Rubens o di Guercino): denudano il nostro sguardo, ci rendono responsabili del desiderio o del rifiuto della visibilità e nudità di Olympia. La quale “è visibile ai nostri occhi perché siamo noi a renderla nuda. Ogni spettatore si trova dunque implicato in questa nudità. Ecco come una trasformazione estetica può provocare uno scandalo morale”. Il riso degli spettatori alla prima esposizione del quadro, marcava per Bataille il rinnovo della nuda bellezza. La stretta di un nuovo nodo che stringe lo sguardo all’immagine: Merleau Ponty ha profondamente compreso che ormai non potremo più “sognare di vedere le cose ‘tutte nude’ perché è lo sguardo stesso a avvolgerle e a vestirle della propria carne”. E aggiungeva: “Come accade che avvolgendole, il mio sguardo non le nasconde, anzi che le svela velandole?”
La nuda Olympia conserva “tutta l’asprezza di quei frutti acerbi che non matureranno mai” (Delacroix) e forse per questo è stata ed è l’oggetto di innumerevoli riscritture. Gauguin ne ha dipinto numerose variazioni in cui la forza magica del “barbarismo” naturale prende il posto del Nudo iscritto nella civiltà “decadente”. Sappiamo, dalle sue lettere del 1892, che la posa erotica, lo stile d'”arte selvaggia” e i colori non naturali alludevano alla inedita presenza di forze segrete e a religiosi timori (Belting).
Anche la Moderna Olympia di Cezanne (1872-3, che segue quella del 1870), è una variazione su Manet che procede alla dissoluzione del Nudo. Il quale vi è solo accennato: non corpo ma massa rosa di carne, senza la netta sagomatura degli altri elementi del quadro. Quest’Olympia non è fatta per catturare gli occhi: lo spazio, che ricorda Delacroix, è costruito in modo ascensionale e a partire dal tappeto e attraverso la nuda carne, conduce in alto e sul fondo dove si conclude la tensione ascensionale che era caratteristica nel Nudo. Giunti in questo luogo tuttavia non vi troviamo nulla: “l’occhio scivola lungo il nudo informe e non è trattenuto, si sposta per meglio vedere e si trova fuori e lontano dal centro del quadro”. (Subrizi)
Ma il riferimento a l’Olympia non cessa: continuerà ancora quando i quadri saranno come objets trouvés, nature morte che conservano solo come traccia la memoria dell’arte. Come la serie di T. Wesselmann, Great american nude (1962), dove un’Olympia e un Matisse scampano le nudità dalla pornografia solo per la posa “artistica” e la citazione.

Nuda Veritas e vera nuditas

L’arte europea ha fatto una fissazione sul nudo come la sua filosofia una fissazione sul vero
(Jullien)

Meglio, è il vero stesso a essere nudo: la radice metafisica del Nudo si offriva come nudità dell’essere. La persistenza di questo modello ideale sopravvive contraddittoriamente nel nuovo trattamento. L’opera di Klimt – pittore visionario ma anche filosofo moderno (Altenberg) – è esemplare dello sforzo di mantenere la tensione allegorica nelle nuove forme della rappresentazione del corpo. Nella frontalità della figura bidimensionale della sua Nuda Veritas (1898, nella mostra) e nello specchio che porta, Schorske invita a leggere insieme la minaccia del corpo femminile e la costruzione esplicita d’una rinnovata mitologia speculativa. “Essa leva lo specchio allo sguardo dell’uomo moderno, mentre i simboli primaverili sbocciano ai suoi piedi, ad esprimere la speranza della rigenerazione”. E più ancora nell’Igea del 1901, dipinto per l’università di Vienna: qui “la trasformazione antropomorfica del serpente offre alla serpe una coppa di latte perché si disseti con il suo fluido primordiale. In tal modo Klimt proclama la unità della vita e della morte, l’interpenetrazione della vitalità istintiva e della dissoluzione personale”.
Ma la novità del significante formale impedisce l’assunzione dei nuovi significati proposti. Il trattamento non canonico del nudo femminile offerto e proteso o di un corpo gravido susciteranno un sentimento di indecenza collettiva che storna il significato filosofico verso un contenuto a forte carica sensuale ed erotica (si veda il Pesce d’oro, 1901-2). In Igea il senso dei corpi nudi che vanno alla deriva nello spazio avvinghiati o isolati, senza alcuna comunione fanno sì che “l’esperienza psicofisica individuale della sensualità e della sofferenza risulti avulsa da ogni base metafisica o sociale. L’umanità si perde nello spazio”. Nel tentativo mancato di ritrovare nel nudo una nuova mitosofia – uno Schopenhauer, si è detto, mediato da Wagner -, Klimt mantiene e ridefinisce alcuni motivi del lessico figurativo del corpo idealizzato. Il ruolo pittorico dei capelli che coprono parte della Nuda Verità (ma si veda anche Sangue di pesce 1898 o Serpenti d’acqua 1904-7) non ha nulla di accessorio. È un tratto saliente della raffigurazione del corpo velato e della gerarchia complessa dei suoi involucri.

La veste e il velo

Nella storia del Nudo l’epidermide della figura racchiude il corpo, ma lascia trasparire l’incarnato o si apre sull’interiorità fisica. La pittura, diceva Diderot è un sentimento della carne, che può essere avvolta, come da una seconda pelle, dai gesti e dalle pose delle membra (soprattutto le mani), dalla chioma, dal trucco e dall’ornamento, dal velo e dalle vesti (o le armature). La forma “nuda” è veduta e intraveduta, le sue proposizioni di “verità” espresse o modulate. M. Perniola ha segnalato come le culture filosofiche che riflettono i pensieri del corpo abbiano assegnato alternativamente i valori di verità al nudo (la grecità) o all’abito (l’ebraismo). La teoria delle veste è quella stessa del nudo. Essa può essere supplemento oppure manifestazione dell’identità (intima a o sociale); il nudo per contro può essere l’esatta espressione di sé o la semplice spoglia d’una mente o di un’anima. (Per Gregorio Magno “il corpo era l’abbominevole veste del’anima”; per gli gnostici la verità è vestita; fino a R. Barthes per cui “la veste è l’involucro liscio di quella materia coalescente di cui è fatto il mio immaginario”)
Un ruolo singolare per la presentazione filosofica della Nuda Veritas lo ha rivestito il Nudo velato: quello maschile (come il Cristo morto e velato nella cappella Sansevero di Napoli) ma soprattutto quello femminile che è onnipresente (per il grande esploratore della nudità, Clark, l’erotismo sta nel velo).
Il Velo infatti ha forza di metafora filosofica ed estetica. È un dispositivo retorico, comparabile a quello che separa il senso letterale dai tropi, che servono ad abbellirlo o a tradirlo. Il velo è “figura” che nasconde o lascia trasparire la verità. Simulazione sofistica da togliere e strappare per guardare in faccia il vero-nudo oppure, e al contrario, unico accesso ad una verità altrimenti inaccessibile. (Per Warburg, ad esempio, l’accesso al corpo si fa attraverso il velo). Nella tradizione del Nudo, questa Verità, come abbiamo visto, non era dell’ordine della natura, ma dell’ideale culturale, mentre, nella formulazione di Hegel, il significato spirituale abita nel velo (o nell’abito) che nasconde la bella nudità naturale. Per questo Huysman invitava a non guardare i nudi del Louvre ma quelli, chiusi nei vestiti, che incontrava nelle flâneries cittadine. Per altri infine, come Kant o C. S. Pierce, il velo è un “indumento di cui non ci si può mai spogliare completamente, ma soltanto scambiare con un altro più diafano”. Il corpo Nudo della Verità non può essere raggiunto, ma solo avvicinato asintoticamente, aumentando indefinitamente la trasparenza.
Quanto alla tradizione che va da Heidegger a Derrida, l’effetto di senso risiede nel processo stesso di svelamento, in un moto alternante simile a quello dell’estetica manierista. Il nudo è solo una stazione d’arresto in questo andirivieni. “Nel levare il velo l’avvenimento non consiste in ciò che viene mostrato: la cosa messa a nudo, il sesso scoperto, il fallo. L’evento è […] l’operazione della rivelazione, il momento in cui il velo non è abbassato né alzato, il tempo in cui accade il sollevarsi del velo. Ciò che conta non è l’alternativa rivelare/velare, la verità come aletheia. Non è il velo che vela né la cosa velata, bensi l’evento della rivelazione nella performatività che gli è propria. È questo l’evento che toglie il fiato […] l’anacronia, la differenza all’opera nell’opera” (Derrida).
Il velo non è parergon, l’accessorio della bella nudità, perché non c’è più un centro di verità e di riferimento nel corpo. Come la veste e la chioma, il velo è un operatore di movimento che animava il Nudo archetipo.
Ma per la modernità artistica, come nella leggenda di Zeusi, il velo è dipinto e non è più possibile toglierlo. È parte costituitiva del senso del nudo, come osserva Derrida – contro il Kant della Critica del giudizio – dando l’esempio della Lucrezia di Cranach col suo velo, collana e pugnale. Il Nudo è diventato impossibile, come dice Belting a proposito di Duchamp: “l’arte è una robe de la marié, velo di sposa che non si può spogliare. O perché non c’è che il velo, cioè l’arte soltanto, o perché c’è qualcosa al di là dell’arte, di cui essa non è che indumento”.

Transizioni 1: la pelle

Una storia della rappresentazione del corpo nudo come operatore di verità e di bellezza dovrebbe raccontare i movimenti che portano dalla veste al corpo (spoliazione o messa a nudo) e dalla pelle alla carne (effrazione o scorticamento). Come fa la Riforma e il Manierismo. Oppure partire dalla carne intima per mostrare come si incorpora e poi si adorna, si vela e si riveste. Come fanno la Controriforma e il Barocco. Ricostruire insomma i moti rappresentati o impliciti che conducono dall’esibizione al pudore fino al completo occultamento. Oppure a partire da questo, il processo della mostrazione, fino alla sfrontata esibizione.
Sulla frontiera di questi movimenti sta la Pelle, membrana somatica pronta a trasformarsi in velo o in veste, come accade nella moda contemporanea. “La pelle non si definisce come ‘nudità’ ma come zona erogena: medium sensuale di contatto e di scambio, metabolismo di assorbimento e di escrezione. Questa pelle porosa, bucata, orifiziale non chiude il corpo – solo la metafisica l’istaura come linea di demarcazione corporea – ed è negata a profitto di una seconda pelle non porosa, senza essudazione o escrezione né calda ne fredda (è ‘fresca’, è ‘tiepida’: a climatizzazione ottimale), senza grana né asperità (è ‘dolce’, è ‘vellutata’), senza un proprio spessore (la traparenza della ‘tinta’), soprattutto senza orifizi (è ‘liscia’). Funzionalizzata come un rivestimento di cellophane. Tutte queste qualità (freschezza, elasticità, trasparenza, uniformità) son qualità di chiusura” (Baudrillard).
Oppure sulla pelle, come affiorare della carne viva, si disegna una tensione del tenero, una semiotica di gonfiori e svuotamenti che segnalano i moti della carne. “Il tessuto si piega e si spiega, la pelle si corruga, s’adatta, insiste sugli organi, contiene i complessi itinerari che li legano; non è sede degli organi di senso, la pelle li mescola come una paletta; il tatuaggio della donna nuda allo specchio è simile alla tavolozza di Bonnard” (Serres). Il trascolorare dell’incarnato, dalla vitalità alla malattia e alla morte, è quello che per Leonardo segnava, nel paragone delle arti, la superiorità della pittura sulla scultura. Non è un caso se nella sua devastante ironia verso tutti gli aspetti della tradizione figurativa, Duchamp abbia inguainato di pelle di porco il grande calco – che è un contro-nudo – di Etant donné… (1946).

Transizioni 2: dalla veste alla carne

È in Bataille, nell’Erotismo e nell’analisi dei grandi quadri erotici (Les larmes d’Eros), che meglio si manifesta la transizione che conduce dalla veste al seminudo poi al nudo integrale, per stabilire una comunicazione autentica. “L’azione decisiva si chiama denudamento. La nudità è la negazione dell’essere chiuso in sé, la nudità è uno stato di comunicazione”. Lo svelamento è rivelazione: può andare ben oltre la pelle – che è vestigio della veste – e cercare nella sua effrazione e tortura (ferire, amputare, scorticare) l’accesso ad una verità incorruttibile di cui la carne è il velo. È il complesso di Marsia o di S. Bartolomeo – con la sua spoglia che è etimologicamente Spaltung, fenditura. È un motivo attivo nello splendore dei nudi suppliziati dei martiri cristiani, sul cui sereno corpo ideale s’iscrive invano la crudele legge terrena. Mentre quel Nudo sacro doveva trasfigurare ora, come accade nella Body Art, l’intento è sfigurare il modello ideale da ogni pretesa trascendente alla bellezza e alla verità. Rompendo lo specchio del Nudo estetizzato e socializzato, Gina Pane o Orlan testimoniano un primitivismo della nudità: cercano il grido primario in un mondo di flussi e di connessioni. Ma questa volontà d’effrazione violenta non fa emergere una utopia somatica innocente, ma un nuovo corpo mitico degradato. Sono, come si è detto, le ultime convulsioni del corpo simbolico prima del suo assorbimento nella virtualità (Jeudi).
Della svestizione che conduce alla scoperta della carne astratta e profonda – quella crudità che è già in Courbet – un inaspettato testimone è S. Dali: “nell’arte dell’abbigliamento […] femminile le geodetiche hanno una parte più importante, una parte imperiosa, condizionate da quello che si chiama l’armatura di un tessuto. L’arte stessa di un tessuto è apparentata con una branca della matematica superiore. Passando dall’abito al muscolo abbiamo dei nuovi esempi di geodetiche. Passando dai muscoli alle ossa, dalla superficie al volume, incontriamo le ‘linee di inviluppo’ di pressione e di tensione”. Per finire con la presentazione della carne nei nudi femminili della pittura preraffaellita, che Dalì preferiva a Botticelli, “troppo vicino alla carne viva del mito per attingere alla gloria estenuata, magnifica e prodigiosamente materiale” di questi “fantasmi carnali dei ‘falsi ricordi’ d’infanzia […] carne gelatinosa di tutti i più colpevoli sogni sentimentali”.

Transizioni 3: dalla carne alla veste

Questo percorso radicale che spoglia via via ogni involucro fino all’inattingibile intimità è quello tradizionale della messa a nudo. Il passaggio attraverso la forma si presenta qui come un’impronta. Ma, osserva Perniola, ne esiste un altro che è inverso al primo e parte dalle impulsioni più segrete che lottano per manifestarsi progressivamente: dalla carne alle membrane somatiche agli involucri sensibili – calori, odori, ecc., fino alle sue protesi ultime – veli e vestiti. Un procedimento magistralmente teorizzato nella “semiotica impulsionale” di Klossowski. “Che io faccia di questo denudarsi un motivo pittorico significa che devo simulare […] una forma di palpabilità visiva. La nudità allora è anch’essa un indumento. È la sua propria veste”. Il fantasma dei più profondi desideri ha la regia degli involucri in cui s’avvolge: vestendosi di carne, coprendosi poi di pelle, di sentori, di vesti. “Non è un gioco di spoliazione dei segni verso una ‘profondità’ sessuale, ma al contrario un gioco ascendente di costruzione di segni” (Baudrillard). Come le tonache vibranti, pelle e luce, che coprono i corpi in estasi dei santi barocchi: valga per tutti la S. Teresa di Bernini, il corpo misterioso e glorioso che persegue la cultura occidentale, non si cerca per introspezione, si trova per estrospezione. Nella pratica classica della pittura non si cominciava forse col disegnare il nudo per poi vestirlo? E nelle pratiche attuali di chirurgia estetica non si è forse passati dalla scorticatura e l’ablazione al gonfiabile?
Penso agli autoritratti nudi di E. Schiele, dove l’angoscia profonda della morte e del desiderio che è ad essa legato non è affatto sublimata. Per entrare in sé stesso il soggetto del quadro deve espellere fuori da sé i moti informi che lasciano nel derma la traccia anomala delle escrescenze e della pelosità. Corpo paradossale in cui “il bell’involucro della pelle sparisce sotto la pressione fantastica degli organi e soprattutto del sesso” (Jeudi). Penso ai vestiti esposti da Boltanski, alla spoglia olfattiva che esalano, come ricordo e allegoria dei corpi denudati dell’Olocausto. Penso ai nudi di Bacon e alla caratterizzazione magistrale di Deleuze: “c’è ancora, certo, una rappresentazione organica, ma si assiste in modo più profondo ad una rivelazione […], che fa sgretolare o gonfiare gli organismi e i loro elementi, impone loro uno spasimo, li mette in rapporto con delle forze, o con una forza interna che li solleva o con delle forze esterne che li attraversano, o con la forza eterna d’un tempo che non muta, o con le forze variabili d’un tempo che scorre”.
L’arte moderna raggiunge per questa via un risultato paradossale: “La nozione stessa di nudo è la neutralizzazione – un compromesso estetico sociale – d’un fatto primitivo e violento; è contro questa neutralizzazione che sono insorti i temperamenti più sovversivi della pittura moderna. Strano risultato: la loro insurrezione ha distrutto quel che volevano liberare” (Klossowski).
Ma scegliendo questo percorso l’arte occidentale contemporanea raggiunge alcune caratteristiche della cultura figurativa cinese classica. Qui il corpo è fin dall’inizio pensato in modo vitalistico; non è oggettivato, ma nasce dall’incontro con l’esperienza; non è forma anatomica, eroicamente impressa nella carne, ma un processo energetico, regolato dal ritmo della respirazione. Non si decompone quindi in oggetti parziali, secondo la nostra pratica del disegno: la presentazione allusiva dell’interiorità è devoluta proprio alle ondulazioni delle vesti che ne segnalano la vitalità. Un irraggiamento della risonanza interna, atmosfera che somiglia più all’odorato che alla visione (Jullien).

Gli arti e le forze

Questa inversione di prospettiva, dall’interiorizzazione alla esteriorizzazione, ci lascia pensare il nudo della pittura e della scultura moderna come uno spazio di forze fuori dall’equilibrio, luogo di tutte le deformazioni e metamorfosi. I moti intimi della carne – diastole e sistole – sono sottoposti a ogni modo di distorsione ritmica: dalla contrazione al rilassamento, attraverso la tensione e la distensione. L’immobilità stessa è rappresentata come uno sforzo intenso di attesa o come negazione tensiva del movimento, paralisi. Al di là della distinzione tra figurativo e astratto questo ritmo decorativo darà al nudo un avvenire sperimentale.
Una dimostrazione magistrale è offerta da Rodin e Bacon.
In Rodin persiste il Nudo, sotto il segno d’una bellezza assoluta. Non è però la forma modello che s’incarna compiutamente, spegnendo così la vita mutevole e metamorfica della materia, ma l’emanazione inesauribile e mai finita d’un corpo naturale. In Rodin è il movimento che costruisce una nuova monumentalità del corpo nudo, attraverso la trasmutabilità d’un continuo scivolamento. Divenire che rende sensibile l’interna vitalità, comparabile “al fattore musicale della lirica e […] al contenuto di pensiero della poesia” (Simmel). Anche la costruzione dei corpi nudi attraverso repertori di parti preformate, ma senza vero raccordo tra loro, non è compositiva nel senso tradizionale (come nella Porta dell’inferno, 1880-1917). Ciò che conta infatti non è il montaggio degli arti, ma la resa delle forze interne, che si traducono in una frenesia a vuoto, un brusio di moti febbrili, in cui ogni azione è irrisolta e ogni desiderio inappagato (Varnedoe).
Quanto a Bacon c’è poco da aggiungere e ancora molto da apprendere nella lettura di Deleuze. Che non si limita a descrivere le acrobazie della carne e l’atletismo dei nudi, ma scava nell'”impressione che il corpo si ponga in posture particolarmente manierate, che pieghi sotto lo sforzo, il dolore, l’angoscia” (si veda nella mostra Study for the Human body).
Impressione che è certo possibile reintroducendo una storia e una figurazione posturale, ma che impedisce d’inferire, a partire dalle passioni nominabili, le forze invisibili che agiscono sulla figura rappresentata. Forze di isolamento, deformazione, dissipazione, accoppiamento, riunione e separazione, forze che domandano nuove sensazioni e nuovi modi di vedere. Soggiacente all’organismo modello che il Nudo organizza, sta un Corpo Senz’Organi d’arthaudiana memoria, che l’arte riveste con successivi trapianti, sperimentazione aperta di corpi possibili. Si può giungere, volendo, alla somiglianza che non è però la molla della percezione ma un risultato tra molti. Klee affidava al titolo la decisione se il suo quadro rappresentasse un nudo, un viso o un fiore. La linea di Matisse per contro ha fatto sì che le sue donne nude (Il nudo rosa, 1935) – sarcasmo dei contemporanei – “se non lo erano immediatamente lo sono diventate; Matisse ci ha insegnato a vederne i contorni non nel senso fisio-ottico ma come nervature, assi d’un sistema di attività e di passività carnali” (Merleau-Ponty).

Volti, paesaggi, nature morte

La rimozione non è una scomparsa. Le qualità del nudo sono transitate ad altri generi e temi della storia della pittura che è sempre un errore isolare, come il ritratto, il paesaggio e la natura morta.
Mentre il nudo canonico neutralizzava l’espressività del viso, si potrebbe dire con Klossowski che “la reminiscenza della nudità femminile nella fattura traduzionale del nudo compie una funzione analoga a quella della somiglianza nel ritratto”. Il sentimento di nudità s’esprime nella fisionomica del volto – e riflette forse lo sguardo del pittore (penso allo stato di veglia nei nudi delle Due amiche di Courbet). Tutto il viso si denuda o tutto il corpo si fa viso. Può diventare un ordine di ragioni mutuate dal Nudo modello oppure è il corpo ad esprimere la mobilità passionale delle facce.
Si può affacciare o sfacciare il corpo. O coprire i volti dei nudi offerti con una maschera primitiva, come fa Picasso nelle sue Demoiselles d’Avignon (1907). Lo stesso si potrebbe dire per il paesaggio: il corpo spogliato e isolato può disporsi in una ideale Nudità o integrarsi nel contesto naturale. Raggiungendo, ancora una volta, la pittura cinese, dove il paesaggio porta il segno fisiognomico dei personaggi vestiti.
Anche la muta, assente presenza dell’Olympia, è stata confrontata ad una natura morta, non diversa dai tableaux vivants che erano un topos d’atelier. Ma è in Cézanne che questo spostamento ha lasciato la traccia più profonda. Sembra che egli abbia detto a Renoir: “Io dipingo nature morte. Le modelle mi spaventano”. Meyer Shapiro ha mostrato limpidamente come la natura morta del grande pittore francese abbia le fattezze e il tenore erotico della nudità femminile. Dopo le prime prove (tra cui Cinque bagnanti – in mostra – e Donna nuda, ma anche Baccanale 1875-76 e L’eterno femminino 1875-77), Cézanne dipinge una Leda con cigno (1886), “un esempio clamoroso di disinnesco di un tema sessuale mediante la sostituzione di una figura con oggetti di natura morta”. Nell’ultima parte della carriera del pittore assistiamo al passaggio dalla rappresentazione del corpo a quella dell’oggetto, mutazione destinata a un grande avvenire. Ma lo sguardo carezzevole del pittore sulle sue mele non può essere frainteso: è ancora il gesto di Paride, nel suo giudizio sui Nudi divini. Quanto al nudo di Yagwidha nel Sogno (1910) del doganiere Rousseau, esso distribuisce in tutto il paesaggio le sue forme: il seno alla luna, la sinuosità dei fianchi ai serpenti.

L’occhio di fauno

… nel campo scopico lo sguardo è al di fuori, io sono guardato, cioè sono quadro
(Lacan)

Sappiamo cosa pensasse E. Zola – nei suo Salons del 1864 – del famoso quadro di Gérôme, Frine davanti all’Areopago (1961, due anni prima dell’Olympia), che pure aveva impressionato Cézanne e Degas che ne fecero degli schizzi. Ne riconosceva le capacità tecniche e culturali, la fedeltà archeologica, il modo d’accentuare la nudità col gesto di pudore (“una donnina sorpresa mentre si cambia la camicia”). Ma lo interessavano soprattutto le passioni espresse dei vecchi giudici dell’Areopago, che osservavano la nudità “come un ragout“, con un palato da puro consumo. Qui Zola faceva appello, senza moralismi, ad un nuovo ideale di perfezione che dominerà la modernità: denudare l’occhio. Ma come dire oggi, con linguaggio puro, l’impura verità del nudo, se si è spenta la parola del mito? Per Foucault bisognerebbe scrivere con la prosa d’un Atteone scampato alla vendetta di Diana!
Nel genere canonico del nudo, all’astrazione del modello suppliva la presenza d’un’istanza testimone, incaricata del desiderio e dell’erotismo, delegata dell’osservatore reale, nel testo stesso della rappresentazione. Lo scoperto infatti non è ancora lo svelato. E il nudo di Gérôme non era più il Paradiso dei sensi quale esce dai letti di Tiziano, ma l’eros quotidiano che sarà di Toulouse Lautrec, Degas e Gauguin.
Il corpo ideale della ninfa diventa desiderabile sotto gli occhi del Satiro. “Il nudo in sé” – per Klossowski – “appartiene ad una concezione borghese della pittura; accademicamente isolato esibisce solo il residuo d’un fantasma isolato dal suo contenuto. Ci vuole quindi un testimone perché dietro allo stereotipo della ‘bella anatomia’ si provi un poco del traumatismo originario di cui è la replica”. Al servizio della pulsione scopica, troviamo la tradizione biblica e quella classica, con le sue varianti mitologiche: Gige e la moglie del re Candaule, Diana e Atteone, Galatea e Polifemo, Pigmalione e la statua, ma anche Susanna e i vecchioni, Davide e Betsabea, S. Sebastiano e S. Marta. L’erotismo si costituisce nel voyeurismo: gioco di attrazione, ma anche di repulsione quando il nudo è portatore dell’oscenità e del disgusto – il sileno, Noé, la vecchia malvissuta – che presuppone tutta la bellezza che nega. Senza bisogno di psicanalisi – le cui letture dell’arte dimostrano sempre troppo – la censura è il miglior testimone permanente dell’efficacia erotica.
Il contratto di sguardo che propone il nudo classico – spesso privo di pupilla – è costantemente sovvertito dall’occhio del fauno che può essere interiorizzato dalla nudità stessa, com’è il caso del “pudore” di Frine o della frontalità di Olympia. E può lasciare traccia nella forma stessa del corpo o della carne desiderata. Valéry comparava la Grande Odalisca di Ingres ad uno strano plesiosauro, allevato per il piacere. Nei nudi di Bellmer, anagrammi di carne ottenuti con la permutazione di tutte le membra, anche la rotula ci guarda. Persino l’ermafroditismo latente dell’arte neoclassica e contemporanea è una traccia della reversibilità dello sguardo desiderante (si veda nella mostra Erna, 1930, di K. Hubbuch).
L’arte contemporanea cerca la poliscopia, ci presta un occhio polivalente. Molti infatti sono i modi per velare, filtrare, o distogliere questo sguardo d’Atteone o di Gige con i suoi cliché erotici, la sua pornografia della sensazione. Allontanando definitivamente l’osservatore sul fondo, come nelle Grandi bagnanti di Cézanne (1906) o costruendo uno sguardo che ci osserva non da uno spazio simulato, ma dal quadro stesso come le Demoiselles d’Avignon. O rinviandolo ironicamente al mittente, come nella performance di Nam June Paik intitolata TV bra for living scultpture, 1969, dove una nuda Charlotte Moorman portava sul seno due monitor che restituivano lo sguardo al voyeur (Belting).

La posa della modella

la nudità della donna è più saggia dell’insegnamento del filosofo
(Max Ernst)

Dietro l’occhio dell’artista sta un pensiero del corpo e tra l’occhio e la nudità “reale” c’è stato a lungo – e c’è ancora – l’atelier, con le sue figure retoriche: il calco e la modella.
Fino a Rodin, che per primo ha lasciato i suoi modelli muoversi liberamente – amava disegnarne i corpi in moto, con tratti rapidi senza guardare il foglio – la modella ha tenuto la posa. Ha offerto il corpo come emblema dell’opera che rappresenta il corpo dell’arte.
La posa idealizza il corpo, impedisce la messa a nudo e permette il passaggio al Nudo. La sua immobilità e la durata temporale facilita l’apprensione globale e sospende la percezione del dettaglio. E soprattutto cancella o in ogni caso perturba l’occhio che spoglia, la veduta voyeurista: “nella visione d’un corpo nudo, il soggetto che guarda si nega davanti al darsi d’un corpo obbiettivato come opera d’arte” (Jeudi). Anche lo sguardo astratto della modella diventa quello, neutralizzato, della fascinazione autoerotica.
La relazione incessantemente tematizzata del pittore alla nudità della sua modella è paradossale e talora parodistica. “Vietandosi di accarezzare la donna […] il pittore andrà simulando a lungo quella carezza sull’immagine della donna che andrà delineandosi poco a poco” (Butor). Tra ricerca dell’intimità reale (si vedano gli schizzi pornografici di Hayez) e la rappresentazione finale idealizzata, tutte le posizioni sono possibili. Come il nudo di Courbet in Atelier del pittore: allegoria reale (1855), dove la modella non è in posa e guarda, da dietro, il paesaggio rappresentato o il pittore che lo dipinge. O l’olio di Picasso, Il pittore e la sua modella (1914), in cui il pittore è appena schizzato, mentre la modella interamente dipinta “si spoglia invano per lui davanti al cavalletto” (Belting). O la Conversazione platonica (1925) di F. Casorati, in cui gli sguardi reciproci del pittore e della modella sono velati dall’ombra, lasciando l’osservatore come unico destinatario dello splendido corpo in posa. O il misterioso quadro con lo stesso titolo di C. Schad, 1927, dove il diafano – trasparenza e opacità – si trasferisce sul corpo nudo del pittore che ci guarda.

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Per A. Danto, l’arte contemporanea ha declinato tutte le forme possibili; è pervenuta così alla più completa indiscernibilità intellettuale e alla rinuncia – post-storica – all’idea di progresso e d’appropriatezza al suo tempo. Lasceremo la risposta a De Chirico.
Il nudo e barbuto Odisseo degli autoritratti del ’21 e del ’24, ci fissa indicando dietro di sé. La tentazione è forte – e c’è chi non ha resistito – di attribuirgli le parole di E. Schiele nel suo Diario. “L’arte non può essere moderna. L’arte ritorna eternamente all’origine (urewig)” (Clair). Ma non è così. Lo sguardo che ci è rivolto vede dietro di noi la storia con le sue rotture che ci sono ormai nascoste. Noi scorgiamo invece, dietro l’Odisseo pittore, il futuro che gli è negato, ma che lui può additarci. Quello di una navigazione nell’arcipelago delle forme a cui introducono le nuove tecnologie e la ventilata minaccia di una perdita del corpo? Difficile a dirsi. Notiamo solo che l’opposizione non è tra il corpo delle mode, sovrainvestito di tratti simbolici, né quello ingenuamente naturista del nudismo. Il virtuale, con la sua leggerezza e plasticità, aumenta la libertà, il gioco e l’esperimento con i simulacri del corpo. Come l’arte, la tecnologia digitale accentua l’emergenza d’una virtualità corporea.
Chi guarda il quadro di De Chirico deve comunque attraversarne la nudità per giungere al gesto sospeso. Molta pittura di nudo prende e prenderà senso in questo cenno indeciso che insieme designa, invita e tace. Tutte le immagini portano scritto più in là, scrive Montale.


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