Segni, sogni, meditazioni


Catalogo della mostra di Claudio Parmiggiani, Acqua e fuoco. Fantasia su temi rossiniani, a cura di F. Mancini, Galleria Franca Mancini, Pesaro, agosto-settembre, 2009.


 

Non credo che si sia un altro messaggio da trasmettere che il segno, la traccia del nostro passaggio bruciante
(C. Parmiggiani) *

1.

Addentrarsi nella tacita teatralità della mostra di C. Parmiggiani, alla Galleria Franca Mancini, è l’occasione di una duplice esperienza. Quella di un segreto e della tensione di una domanda, ma anche l’invito alla meditazione e un’iniziazione al silenzio.
È quanto ci aspettiamo da un artista tra i più introversi ed appartati, schivo fino al rifiuto di partecipare alle proprie mostre o all’occultamento della sua firma, ma la cui opera lascia un’indelebile traccia di riverbero e fading. Anche le sue opere “pubbliche”, realizzate o solo progettate, sono sotto il sigillo del segreto, per via di seppellimenti e dispersioni.
Lo ricordo bene, fin dalla sua installazione, Porto sepolto (1993), con cui ho iniziato la mia direzione dell’ Istituto Italiano di Cultura a Parigi. CP è un pittore che non fa solo pittura, ma crea tra oggetti inanimati una complicità più profonda del loro uso abituale e della loro usura di senso. Gli oggetti, che isola e tratta, non illustrano concetti, prendono valore nella loro installazione, dove si trasformano in idee. Nei termini stessi dell’artista, è il “segno di una urgenza”, l’urgenza di “un contatto fisico con l’idea”. In questa mostra, CP dispone le sue nere barche verticali, i suoi gessi colorati e decorati, i suoi quadri di farfalle, come una serie esoterica e variopinta di crittogrammi, una scrittura emblematica e geroglifica – che mi ricorda il poema di Yeats, Una visione.
Alla sottintesa domanda che suscitano, non sembra che CP ingiunga delle risposte; richiede una assonanza discreta: sollecita una visitazione senza rivelazioni. Come se tutta la sua opera fosse accompagnata dal gesto “arpocratico” del silenzio, l’indice sulle labbra (Chastel). Gli basta forse una meditazione: non una proposizione che esprima immediatamente dei pensieri, ma uno stimolo protratto sulla immaginazione e sul sentimento. Un esercizio “spirituale”, “una convinzione che fa parte di una visione, un misticismo senza fede”.

2.

CP dice, a volte, di accontentasi di una “pura presenza” alle sue opere. Non si sottrae però al giudizio e nutre la convinzione – rara e condivisibile – che spetti allo spettatore formularlo e non agli autori. Uno spettatore critico, che non si fidi delle interviste e risponda all’invito con una propria ri-meditazione.
L’artista, che è CP ritiene con sconsolata ragione, che pochi o nessuno guardi davvero le opere esposte e che, all’osservazione, si preferisca l’osservanza a convenzioni estetiche e di mercato. Osservare infatti è mestiere difficile: farlo da sotto, con ammirazione o dall’alto con sufficienza teorica? O di fronte, senza scordare che il velo non sta sulle opere ma sui nostri occhi?
Il semiologo, che sono io, è interessato a quanto di cecità c’è in ogni visione. Ha quindi un occhio di riguardo per chi crede ai segni e al loro senso – significato e direzione. Come CP, che è un vero “semioforo”, portatore di segni, simboli ed emblemi: “In attesa di un segno assoluto”; “i segni […] della vita segreta e commovente delle cose”; “il segno silenzioso di un passaggio”… Ricercatore di una semiotica pura (G. Deleuze), per cui il senso non è stasi ma procedimento.
Il percorso di lettura che propongo mette a disposizione le opere – pittura e/o scultura – a partire dalle quattro grandi barche nere, per passare poi ai due gessi colorati e terminare con i quattro quadri screziati da ali di farfalle. Sono opere che, per contrasto o analogia, portano già con loro un fondo di memoria. Quindi, senza convocare l’intera opera di CP e senza pretese di significati ultimativi, cerco di leggere le sole opere in mostra, costruendole come un unico testo (letterario, perché no?) . Come se fossero le schegge di quel “labirinto di vetri in frantumi” (che – dice CP- è “il mio emblema“), tenute insieme da una “logica di sogno”, la quale ribalta l’uso notturno dei materiali della vita desta. È quest’ultima invece che viene investita dal fuori tempo onirico. “L’opera prende corpo dal buio alla luce”. (Ricordate gli strani orologi senza tempo di CP?; le sproporzioni degli oggetti?; “i colori del sogno: volto azzurro, uovo nero, sangue verde”?)
Solo tenendo conto di tutto questo, possiamo porci l’altra domanda: la connessione con il Guglielmo Tell di Rossini, che di questo “testo” è molto più d’un pretesto.

3.

Nella scelta e nelle esemplificazioni di questa mostra rossiniana, le figure contano più delle sostanze espressive. La materiologia – non il materialismo – di CP è stata lungamente commentata, come la sua allergia al virtuale: per lui “lingua è dentro la materia”: “carta, tela, legno terra fuoco e fumo”. Io aggiungerei i corpi sottili della polvere, che possono cancellare i contorni delle cose oppure lasciarne la traccia al negativo e come per sottrazione (v. le sue note De-locazioni).
Resta invece da esplorare il valore semiotico del suo vocabolario visivo, la lista di elementi che, per lui, “appartengono alla vita”: “violini, scarpe, libri, stracci appesi, uova, corna di cervo, nidi di uccelli, scarpe, carte del cielo strappate, sangue, pelli di serpente, foglie, barche, che qualcuno ha definito simboli“. Io aggiungerei altro: pelli di animali, coltelli, ecc. ma voglio fermarmi nella mostra, davanti alle (i) barche, ai (ii) gessi colorati, ai quadri con (iii) farfalle, collegati, nello spazio della Galleria, da rapporti di analogia e differenza.
Con un caveat preliminare: non si tratta di figure mimetiche del mondo (figurative), ma di elementi che per il loro trattamento, collocazione e disposizione rinviano di un “altro” piano di senso (figurale), a un significato misterioso.

(i) Barche / Arche.
Le quattro imbarcazioni intrise di nerofumo, sono barche di fiume, lunghe, piatte e, a differenza di quelle di mare, simmetriche. Sono barche da trasporto – merci, passatori e passeggeri – legate all’immaginario biografico di CP , che le ha utilizzate spesso – per es. in Porto sepolto (v. Castagnoli) – stivandole di oggetti geometrici – come i giocattoli imbarcati di alcuni quadri di A.Savinio. Le barche allora portano con sé il loro spazio, trasformando la superficie su cui sono collocate in un’acqua immaginaria.
Ma le barche della mostra sono come tirate in secco, sfruttando la loro struttura leggera che le fa ruotarle facilmente su loro stesse per scolare via l’acqua infiltrata all’ interno. Conservano, agli occhi del visitatore, il ruolo mediatore che occupano dell’immaginario marino – da Ulisse a Caronte. Tuttavia, se collocate all’orizzontale possono orientarsi in tutte le direzioni, disposte verticalmente puntano verso il cielo. Non trasportano, prendono il senso monumentale e funebre di una consacrazione e di una memoria. Da barche si trasformano in Arche.
Ad uno sguardo più attento, la loro apparente simmetria appare sottoposta da una doppia dissimilazione, come si potrebbe trovare in una quartina di versi. Le due imbarcazioni esterne, come le ali di una enorme farfalla notturna, sono appoggiate alla parete, e così una delle due centrali, mentre l’altra è sospesa, a poca distanza da terra. Entrambe sembrano scolare due piccole pozze di liquido, nera la prima e rossa la seconda. E poiché sono rovesciate in modo di mostrare il loro interno, queste barche sembrano versare sangue da grandi corpi aperti e squarciati. Come in un sogno di CP: “mentre il sole sorgeva rosso nell’alba versavo una tazza di sangue in un prato verde”. Sangue del colore però, con la sua nera ombra – – non il colore del sangue. Ombra del colore, anche, così come il fumo è l’emorragia della fiamma.
Che sia una parafrasi visiva e un obliquo rinvio alla battaglia lacustre del Guglielmo Tell, che con la sua freccia mette una fine sanguinosa alla tirannide? Avremmo potuto trovare, in luogo di questa installazione, una barca spezzata che versa, e non scola, il colore? Oppure: la liquida macchia d’inchiostro è il nero lago della battaglia o il lucido specchio di un pianoforte?

(ii) Gessi dipinti e statue parlanti.
I volti delle “statue” non sono ritratti: rappresentano sempre lo stesso viso. Non sono neppure tracce o reliquie, frammenti tragici o ironici di perdute totalità: sono privi di storia e apparentemente muti, come manichini metafisici. Senza il compiacimento di alcuna nostalgia classica, senza il facile piacere di essere tristi.
Nature morte o, come preferiva de Chirico,” silenti” , queste teste potrebbero essere sostituite dall’universale ritratto della Vanitas, che è il cranio.
CP sa però destarli ai pensieri e agli interrogativi di un presente fuori tempo. Il bianco, il non-colore dei gessi, diventa, come una tela, un supporto da colorare e dipingere. Pitture scolpite, le teste colorate di nero entrano, scrive CP, “in dialogo con l’ombra”. “La luce sul volto della statua non parla della statua ma della luce”. “Ho accostato una lampada spenta al volto di una statua e vi ho aggiunto col colore una luce, una luce che non proviene da nessun luogo”. Gli oggetti, lampade, farfalle o i coltelli, sono collocati “sul colore, non necessariamente sulla statua o sul suo volto”. I muti calchi, una volta colorati e decorati, si esprimono per metafore e sineddoche, raccontano storie e svolgono argomenti. Pensano e sognano: hanno da dire e da ridire.
Forse di che cantare. Sono, per il visitatore della mostra, un’allusione alla prova narrativa in cui l’arciere mira al bersaglio collocato sul capo del figlio? O il recitativo dell’opera rossiniana che traduce obliquamente il lontano racconto di armi e di musica, di passioni civili e familiari: il Guglielmo Tell?

(iii) Farfalle: psiche e fantasma.
Le farfalle attraversano da tempo l’immaginario emblematico di CP. Sciamano dal celebre quadro di Dosso Dossi (1530?), in cui Giove è ritratto mentre le dipinge. Preso dall’incanto dei colori, sordo alle voci del mondo, il re degli dei, seduto davanti ad una tela e nel pieno esercizio della sua arte, è difeso da Ermes, che con gesto arpocratico, ingiunge il silenzio ai personaggi e agli spettatori.
(Il riferimento ad opera e persona non è affatto casuale).
L’effigie della farfalla attrae CP per la sua variopinta simmetria, per la sua piattezza, per la sua attrazione fatale alla luce delle lampade. Non è certo il solo – penso a C. Costa e ai suoi abbeveratoi per farfalle, a J. Schnabel e al suo film Lo scafandro e la farfalla.
In CP però la farfalla prende un senso quasi etimologico di “psiche”, l’anima ed indica un percorso d’ animazione e “spiritualità”.
Per resistere alle facili letture, direi che le farfalle di CP non hanno molto a che vedere con l’anima, nell’accezione cristiana. Somigliano piuttosto alle antiche psuchai greche dei morti, che, per Vernant, erano “fantasmi fatti di ombra, sogno e fumo”. La psiche, essere aereo e alato, “è un niente, un vuoto, un’inafferrabile evanescenza, un’ombra”; “il rivestimento di un vuoto, il velo illusorio gettato sul non essere” (Vernant). Solo il platonismo, pagano e cristiano, invertirà il suo ruolo, attribuendo alla psiche tutto il peso di una realtà metafisica, mentre il corpo diventerà l’immagine, somigliante ma illusoria, che accompagna l’anima nel moto irregolare di un’ effimera, umana peripezia, la vita.
Le farfalle di CP percorrono a ritroso questa traiettoria: esse sono gli eidola, doppi e simulacri di una “ectoplastica”, una fenomenologia degli spiriti. Le stele delle grandi barche funebri, – spalancate come ali di farfalle notturne – o le erme dei gessi colorati, sono tracce che restano al posto di chi è volato via. La psiche-farfalla di CP , screziata di colori, è una forma fisica dell’ombra; le ali sono i segni e la memoria che iscrivono l’assenza nella presenza. Fantasmi che lasciano sull’alone scuro dei quadri le tracce irreparabili di un passaggio luminoso.

4.

Lingua come pietra,
pietra come pane,
pane come sangue,
sangue come spirito,
spirito come lingua

(C. Parmiggiani)

Esplicita è la vena poetica di CP per cui “la poesia è voce dell’immagine”. Ma possiamo dire che anche nelle sue immagini tace, classicamente, la poesia. I colori e le forme gli spazi e i volumi della mostra sono presi da una stesso dispositivo poetico: hanno una loro scansione o prosodia: un parallelismo di rime e di assonanze topologiche e cromatiche.
Questa poeticità è un terzo occhio (ed orecchio) che ascolta (e vede) oltre la distinzione tra pittura e scultura. CP non è solo un iconoclasta: vuole librarsi del formato-quadro per aprire una finestra luminosa sul mondo. Dice di sé; “un pittore che non fa della pittura” e uno scultore di “antisculture, il negativo della forma”. Affermazione radicalmente contemporanea, dunque, al di là dell’astratto e del figurativo, che convive con la rivendicazione di una tradizione di misura letteraria (da E. Villa a Yeats) o pittorica (da Guercino, Ribeira o Morandi). Senza rinunciare alla meraviglia e al mistero.
Ha davvero un senso imprigionare il suo progetto nelle maglie allentate della storia dell’arte? Come post-simbolista, post-metafisico, post-poverista o post-concettuale?
Preferirei assegnarlo ad una dimensione non tragica – come lui forse vorrebbe – ma Orfica: più esoterica e soterica, più misteriosa e salvifica. CP suona i suoi violini colorati davanti alla nera- rossa bocca dell’Inferno, per richiamare la farfalla-Euridice?

5.

Ma quello che io ti ho a ricordare de’ volti, è che tu consideri in quelli come in diverse distanze si perdono diverse qualità d’ombre, e solo restano quelle prime macchie, cioè della incassatura dell’occhio ed altre simili, e nel fine il viso rimane oscuro, perché in quello si consumano i lumi.
(Leonardo, Trattato della pittura, parte 3, 461)

Il ricordo che ho CP è legato al suo famoso autoritratto d’ombra. A questo nero specchio di Narciso, aggiungerei, dopo questa mostra, quello del suo antropomorfo “Faro d’Islanda”.
L’ombra come operatore di sparizione e promessa di luce e colore. Fading, obliterazione del soggetto e anticipazione di una somiglianza a venire.
Veniamo ora al Guglielmo Tell.


Note

  • Tutte le citazioni si riferiscono a Parmiggiani C., Stella, sangue spirito. torna al rimando a questa nota

Bibliografia

Castagnoli, P. G., “Porto Sepolto”, sta in Parmiggiani C., Gloria di Cenere, Alllemandi, Milano, 2007

Chastel, A., Il gesto nell’arte, Laterza, Roma, 2008

Deleuze, G., Cinema 2: l’immagine-tempo, Ubulibri, Milano, 2004

Didi-Hubermann, G., Sculture d’ombra, Electa, 2009

Fabbri, P., Transcritture di Alberto Savinio: il dicibile e il visibile, Il Verri (Parola / Immagine), Milano, n. 33, 2007

Grenier, C., Parmiggiani, Catalogo della mostra al Collège des Bernardins, Actes sud, 2008

Nancy, J.-L., Coeur ardent/cuore ardente, Mazzotta, Milano, 2002

Parmiggiani, C., Stella, sangue spirito, Nuova Pratiche ed., Parma 1995, (ora in Ed. Actes Sud, 2004)

Vernant, J. P., “Psiche: doppio del corpo o riflesso della divinità?” sta in AA.VV., Tra mito e politica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1998

Yeats, W. B., Una visione, Adelphi, Milano, 1973

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