A passion veduta: il vaglio semiotico


Da: Isabella Pezzini (a cura di), Semiotica delle Passioni, Società Editrice Esculapio – Progetto Leonardo, Bologna, 1991, pp. 159-189.


 

Ogni segno sembra morto. Chi gli dà la vita?
(Wittgenstein)

Una postfazione non è un rinfaccio. È semmai una dedica alla ricerca a venire, quella che attendiamo e che anch’essa, presto, sarà stata. La maggior parte dei contributi che precedono e che proseguiamo portano e/o si riferiscono ad una semiotica della passione nell’ambito della scuola hjelmsleviana e greimasiana. Un ambito che non è un vaso chiuso – alcuni testi qui accolti lo provano -, pur se accentua alcuni tratti idiomatici rispetto ad altre discipline della significazione (Fabbri-Sbisà 1980; 1985). Il che non va senza riserve. L’epistemologia ha messo a fuoco da tempo le pecche e i poteri del mantenere una «tensione essenziale» entro i paradigmi di ricerca; l’incommensurabilità è il corrispettivo e lo scotto di ogni idioma interdefinito. D’altronde nel panorama attuale della semiotica – eclettico e parrocchiale, sparpagliato e cosmopolita – questa incommensurabilità viene spacciata per incalcolabilità e il calcare le tinte di una fisionomia rischia la pratica settaria e gruppuscolare.
Con qualche caveat – perché la torre d’avorio non si faccia Babele – ci proponiamo di trasporre l’idioletto greimasiano: «semantica delle passioni (o delle emozioni)» in altri invasi teorici e metodologici. Speriamo che, come ogni traduzione, quella tra regimi discorsivi arricchisca le proposizioni ad quem quanto quelle ab qua e ci proponiamo di (I) tratteggiare uno spazio di nozioni e concetti; (II) tracciare un campo, scosceso certo, dove azione e passione, emozione e ragione, manipolazione e comunicazione si lascino dar senso. Questa proposizione serve da proposta di lavoro in vista d’una disciplina generale dei sistemi e dei processi di significazione – cioè d’una semiotica a vocazione antropologica – e da presagio per una metodologia delle scienze umane (Greimas 1976).
Così facendo questa disciplina si trova a valutare e a selezionare, comparare progetti, risultati e portar doni di rilevanza. Già Chomsky aveva supposto una meta-grammatica per valutare l’efficacia interpretativa e descrittiva delle grammatiche particolari. Oggi, in altra temperie – più semantica e pragmatica, più testuale e discorsiva – è ragionevole chiedersi se i condivisi assunti che abbiamo additato consentano o non un’apprensione comparativa delle «semiotiche passionali». È questione di criteri: (I) l’incremento d’intelligibilità descrittiva – la semiotica ha vocazione empirica – (II) la capacità di selezione (esclusione e riserve) e d’integrazione (iscrizione e interdefinizione) delle nozioni e delle intuizioni «interessanti» della speculazione filosofica e del savoir (faire) mondano – la semiotica è una gerarchia di relazioni.
La semiotica di discendenza hjelmsleviana – per la sua cura della interfaccia tra filosofia e primitivi teorici, tra questi e i costrutti di metodo, tra questi ultimi e le procedure descrittive del linguaggio oggetto – è una candidata con ragionevoli referenze. È un vaglio teorico e uno scandaglio euristico: per le altre semiotiche e gli assunti delle scienze del linguaggio e discipline della cultura; per se stessa, almeno per la interdefinizione della propria definizione. Potrà quindi, di passata, nettare le proprie stalle di Augia. Un piumino non basterà.

1. Il segno di Giano: cognizione e cultura

La ricerca sulla dimensione passionale rende necessaria l’integrazione di un’anomalia nel paradigma razionalista e ridisegna le mappe di discipline separate: la linguistica – in particolare per le componenti prosodiche, semantiche e retoriche, la psicologia e l’antropologia cognitive. Se c’era stato un relativo silenzio sugli aspetti fenomenologici e comunicativi della emozione negli studi culturologici (sulla cultura come insieme di significati), ora la tendenza si è invertita. La speculazione e la ricerca sui regimi e le vicende passionali si ripropone in rapporto ai nuovi paradigmi della razionalità e del fare, del cognitivismo cioè e della teoria dell’azione. Nella cornice cognitiva, il passionale non si iscrive più come ricusazione o riserva, come protesta verso i determinismi della programmazione o dell’inconscio; ma come difficoltà interna della speculazione cognitivista che eccede continuamente verso una dimensione di cultura pubblicamente osservabile. Così come la credenza non si oppone al pensiero, ma si propone di urbanizzare la provincia rappresentazionale e logica esponendola al problema dell’agire sensato e all’interagire tattico e strategico. Alla semiotica, cui non può estendersi la chiamata di correo nello studio dell’azione e della passione, conviene d’accompagnare questi mutamenti. Le andrebbe reso il ruolo metodologico di intercessore tra il significato del linguaggio naturale, una logica (cognitiva) e una logistica (strategica).
Nel quadro esplicito di una «semiotica culturale delle emozioni» (Lutz-White 1986:423) – dove si affrontano le tendenze universalistica e positivista e quella relativista e interpretativa – il semiotico intravede delle convergenze tra un’analisi semantica in termini di «idee chiare e distinte» (Wierzbicka 1986), un uso cognitivo ed «esperienziale» delle metafore (Lakoff 1980); un’attenzione alla tipologia dei contesti situazionali (Nissenbaum 1985); una «etno-teoria delle emozioni» (Lutz, in Holland-Quinn 1987) e la loro omologia con la ricerca greimasiana. Additeremo quindi alcune affinità tra modelli – la scatola d’attrezzi dell’attuale ricerca sulla significazione – più per moltiplicarne la diversità che per replicare l’uniformità: come partite di scacchi che cominciano e finiscono con la stessa serie di colpi, presentando sulla scacchiera configurazioni identiche, ma che, ad ogni fase intermedia del processo ineluttabilmente convergente, ammettono un numero infinito di varianti.
Suggeriremo poi che dalle diverse prassi descrittive e dalle confliggenti ipotesi teoriche sulla passione emerge – come dal ri-allineamento d’un campo magnetico – un’apprensione più processuale e contestuale, più interpersonale e culturale della significazione. Per rompere il codice delle emozioni è in corso un superamento dell’analisi linguistica abituale non riducibile alla opposizione semantica/pragmatica. Il nuovo compito è ricostruire una teoria delle emozioni soggiacente alle semiosi manifestata; non bastano quindi i «test di nominazione e discriminazione» e l’analisi deve farsi translinguistica: oltre il lessico, l’enciclopedia e la frase sta l’analisi del discorso (argomentazioni, metafore, narrazioni, ecc.) che si attaglia al nuovo oggetto. Anche la tipologia semiotica è costretta a complicarsi se non a completarsi; per esprimere il senso dei sentimenti dovrà farsi carico dei sensi, dell’estesia e rivedere le relazioni (arbitrarie e motivate; simboliche e semi-simboliche) tra piani d’espressione e piani del contenuto.

1.1. La prima opposizione tra gli approcci è in termine di una semantica dei tratti vs una semantica dei prototipi

Lakoff ad esempio ritiene errate le teorie del significato per cui le passioni sono concetti complessi, analizzabili da una rinfusa di primitivi indecomponibili e preferisce far uso del concetto di «prototipo» con riferimento alla teoria della categorizzazione di E. Rosch. Si tratterebbe di gestalt fondate sulla esperienza, a cui identifichiamo le variazioni di senso, non perché condividono un insieme prestabilito di proprietà definitorie, ma in quanto ostentano una sufficiente somiglianza di famiglia. Se c’è una chiave del senso, questa non risiederebbe in una analisi semica per tratti distintivi, ma nella supposizione d’un mondo semplificato con accadimenti prototipici (v. Fillmore e la frame semantics); ovvero – per chi preferisca i robotici tours de force dell’intelligenza artificiale – in scripts, «sequenze stereotipe di eventi familiari agli individui» (Abelson) interconnessi in temi più ampi che ne orientano gli esiti o gli scopi. Lakoff preferisce distinguere tra schemi proposizionali e «schemi iconici» a carattere gestaltico-visivo che servono da quadro ai primi e di cui metafore e metonimie sono i «campioni» linguistici. Nel suo orientamento retorico recente, egli specifica appunto alcune «frasi fatte» della lingua inglese strutturate in metafore emozionali quali ad esempio l’amore (1980:67): amore è forza fisica (elettromagnetica, gravitazionale); è un paziente; è follia; è magia; è guerra ecc. Riserviamo l’analisi di una passione specifica, l’anger, alla sezione Dies irae. Noteremo per ora due tratti dell’approccio tropico-figurale: (I) la connessione delle metafore passionali fino a costituire un percorso sintagmatico descrittivo dello svolgimento di una passione, (II) il superamento della teoria integralista dei prototipi: in effetti come le metafore sono articolazione di più metonimie, i prototipi sarebbero composti superficiali scomponibili in unità più semplici (tipicità, stereotipi, esempi salienti, ideali ecc.) ricombinabili in modi diversi di complessità e di semplificazione.
Per Wierzbicka, invece, la ricerca antropologica attuale di una «nuova scienza – una scienza delle emozioni» se mira alla «indagine di emozioni fondamentali, innate e universali è prossima alla ricerca di concetti fondamentali («primitivi semantici») egualmente innati e universali» (1986:584). Dopo aver constatato l’inutilità di fondare la classificazione su una sola lingua e sottolineato l’impossibilità di uno studio lessicale contrastivo1, Wierzbicka suggerisce, in una prospettiva interdisciplinare e interlinguistica, che l’intento di stabilire emozioni umane universali può farsi solo con un metalinguaggio semantico indipendente dalle lingue. Per questo costrutto semantico, la cui consistenza psicologica e filosofica andrebbe verificata da un confronto interculturale delle passioni, propone un ritorno alla pratica filosofica (Descartes e Pascal) e linguistica (la grammatica di Port Royal) quale si trova specificata – la linguistica è filosofia fatta con altri mezzi – nella semantica linguistica di A. Boguslawski (1970). La ricerca degli universali linguistici dell’emozione è collegata ad una lista di elementi ipoteticamente indefinibili (o quasi indefinibili, Apresjan), «atomi del pensiero» raccolti a formare un dizionario di metalinguaggio semantico e riscontrabili in tutte le lingue naturali2. Ad esempio alcuni termini di lingue del Pacifico (v. poi Lutz, in Holland-Quinn 1987) che potremmo etichettare nel campo della /malinconia/ e del /disgusto/ potrebbero essere descritti in termini di «volere, sapere, sentire, pensare» (1988:98) e l’insieme di predicati sarebbe disposto secondo proposizioni sintagmaticamente orientate. Il /disgusto/ viene dunque notato:

X è disgustato (da ciò che Y ha fatto):
X percepisce che Y ha fatto qualche cosa che X pensa sia cattivo
X pensa qualche cosa di cattivo su Y a causa di questo
X non vuol dover percepire tali cose
X sente perciò qualcosa di cattivo simile a quello che uno sente quando ha qualcosa nella propria bocca che ha cattivo sapore e quando uno desidera causare che questo qualcosa abbandoni la sua bocca (1986:590).
Con tali modelli Wierzbicka prova a caratterizzare il modo con cui culture diverse lessicalizzano (o no) porzioni del campo semantico condiviso e apre un ambizioso cantiere di verifiche delle ricerche etnolinguistiche (su nozioni quali vergogna, imbarazzo, paura). Al di là della semplificazione palmare, scotto di ogni confronto troppo esteso, riterremo qui la proposta di una struttura minima di proposizioni tra cui le modalità hanno un ruolo di rilievo; l’esigenza della strutturazione sintagmatica; l’emergenza delle dimensioni estesica e intensiva e l’importanza (inavvertita) della dimensione intersoggettiva. Vanno però occultati, se non smarriti, alcuni aspetti determinanti della semantica prototipica e tropologica: il carattere comunicativo (non solamente oggettivo o soggettivo) della comprensione, gli aspetti culturali (non meramente mentali) del significato, la-possibilità d’innovazione emotiva. Altri sembrano più attenti.
Per Lakoff in una semantica «esperienzialista», «la verità dipende dalla comprensione che emerge dall’agire del mondo»; quindi «la comprensione emerge dalla interazione, dalla costante negoziazione con l’ambiente e con le altre persone» (1982:254). Per lui la descrizione richiede gestalt basate sull’esperienza e proprietà interazionali, «determinanti per appurare una sufficiente somiglianza di famiglia» (ibid.:145). D’altra parte la verità relativa al sistema concettuale è verificata e trasformata da esperienze comuni all’interno di una lingua (o più) e di una cultura (o più). La cultura, prototipo e dizionario di prototipi, si tramuta con l’uso di quella «razionalità immaginativa» che è l’essenza della metafora: «le metafore dunque possono essere appropriate perché sanzionano azioni, giustificano inferenze e ci aiutano a stabilire degli obiettivi» (ibid.:164) ed è determinante per la stessa comprensione dell’esperienza del mondo fisico3. Proprio la metafora passionale (l’Amore è un’opera d’arte fatta in collaborazione) con il suo reticolo coerente di fitte implicazioni4 mostra la qualità di un «riverbero che riattiva e connette i nostri ricordi delle passate esperienze d’amore e ci serve da guida per quelle future» (ibid.:162). In un sistema concettuale come il nostro in cui l’atteggiamento epistemico verso gli aspetti emotivi della passione (amorosa in particolare) non paiono mai sotto il controllo degli animali, questa metafora, insistendo su i tratti di OPERA, CREAZIONE, PERSEGUIRE GLI SCOPI, COSTRUZIONE, AIUTO, ecc. fornisce l’intelaiatura per esperienze passionali «fuori codice»; ne sottospecifica alcuni aspetti; tracima fuori dai prototipi – dagli stereotipi – fino ad acquisire lo statuto di verità, guidando le passioni a venire in accordo con la metafora.

1.2. L’altra opposizione tra gli approcci divide una semantica cognitiva dei prototipi da quella culturale degli schemata (tropi, inferenze e narrazioni)

In quest’ultimo senso, I’etno-teoria passionale (Lutz-White 1986) muove, appunto, verso un quadro cognitivo più articolato dei sistemi culturali di denominazioni e di atteggiamenti passionali. Per far questo è costretta a riesaminare alcuni presupposti e conseguenze della teoria cognitiva in cui iscrive il proprio progetto (la conoscenza culturale è un ammontare organizzato di significati con capacità generativa) e che finisce per esorbitare.
L’antropologia cognitiva mantiene infatti il programma cognitivista già tracciato da W. Goodeough «quel che deve sapere un soggetto per essere il membro attitolato e accettabile di una comunità» (v. Fabbri 1968) ma sposta l’accento da una intelligibilità linguisticamente specializzata ad una conoscenza condivisa («la cultura è un dispositivo di modelli di conoscenza condivisa dai membri di una comunità volta alla comprensione del mondo e dell’agire e del patire in esso»), attiva ed efficace. Mutazione di taglia, che integrando i risultati della linguistica sugli atti di parola e la dimensione conversazionale, mette a fuoco non il solo rapporto conoscere-dire, ma l’intelligibilità come fare, entra cioè nel vivo di una «forza direttiva» volta ad esiti intersoggettivi d’azione e di passione. Riassorbita la scissione (etnocentrica?) del dire e del fare, i modelli culturali non esprimono o schermano l’esperienza, la interpretano, ne traggono inferenze, valori ed esiti. Decidono dell’idea culturale di cosa «conta» come conoscenza5. Questi ragionamenti, soluzioni di problemi, valutazione di comportamenti propri ed altrui e, in particolare, la dimensione passionale, eccedono l’armamentario della intelligenza artificiale (le chunk lists) come lo strumentario dei prototipi; li mantengono come segnali piantati in un territorio ma che ne indicano un altro.
Le teorie della A.I., per quanto ne sappiamo, si limitano a postulare liste provvisorie di passione e decurtano i loro «copioni» (scripts) semplificati d’ogni dimensione interattiva. Come Schank , che accanto ai suoi (discussi) primitivi di azione – atomi di senso che si comporranno nelle molecole inferenziali – prevede qualche primitivo di stato. E non è un caso se, – si ricordi l’opposizione greimasiana tra essere e fare – troviamo la /gioia/ e la /sorpresa/ ecc. tra questi primitivi inanalizzati e non interdefiniti (Schank-Kass 1986). D’altronde lo studio dei contesti etnografici e le analisi filosofiche e pragmatiche più avvedute impongono delle revisioni, seppure implicite, alla deliberata accettazione dei modelli: come l’uomo non è un «meccanico processore d’informazione», così la passione non si riduce alla cognizione dell’emozione, al «pensare sul sentire». A partire dalla nozione di schema proposizionale di Hutchins («uno schema è quindi una forma o una sagoma da cui possono trarsi un numero di proposizioni largo a piacere», 1980:292) che concatena inferenze tra eventi, istanziate da occorrenze specifiche e variate, C. Lutz ricostruisce una «teoria passionale» soggiacente al vocabolario Ifaluk (Micronesia) delle emozioni. «I concetti emozionali dell’Ifaluk sono le unità fondamentali di un sistema etnoteorico che informa la comprensione di eventi salienti»6 (1983:294). Queste non sono riconosciute come primitivi concettuali, ma come complessi di significato in forma di schema. Inoltre non descrivono stati interni del soggetto ma portano iscritta una definizione situazionale delle relazioni tra gli attori sociali ed il mondo. Nella descrizione gerarchizzata dei suoi «schemata»: (I) se Evento X, allora Emozione X; (II) se esperiamo l’Emozione X, allora compiamo l’atto Y; (III) se esperiamo l’Emozione X, allora un altro può o potrebbe esperire l’Emozione Y; (IV) se esperiamo l’Emozione X allora possiamo in seguito esperire l’altra emozione Y, – l’etnologa trova la doppia valenza del senso e la relazione tra azione e passione e di nuovo l’azione («emozione e azione sono intimamente legati»). Le parole di passione sono i vettori dei valori e degli esiti d’azione, non si limitano a implicarli e/o segnalarli; il significato di questi segni «chiave» non è il solo senso-conoscenza ma il senso-direzione, la gerarchia di salienze che intima i fini e i valori. Il volto di Giano della passione guarda all’atto che la provoca e all’agire che ne consegue, è attraversato da sequenze di passioni (da composizioni derivate di schemi), ma soprattutto mira ad altri volti simili al suo. Con questi, inter-soggettivamente e intra-praticamente si danno gli esiti di attribuzione con cui i lemmi passionali producono, chiariscono e approfondiscono i motivi del fare. Ci intendiamo e ci misconosciamo parlando ad altri; con essi negoziamo la sussunzione di una «fattispecie patemica» ad una denominazione passionale. L’appropriatezza di questo «vocabolario di motivi» (Wrigh MilIs 1963) è stipulata (per contratto e per conflitto) in senso semantico, secondo schemi soggiacenti che inquadrano le conoscenze, e pragmatico, in riferimento agli altri ed ai contesti.
Un’ermeneutica della parola selvaggia ci aiuta quindi a cogliere ch’è nel contesto, culturale per giunta, che troviamo e possiamo trasmetterci il senso (la complessità e l’ambiguità) della passione, non nella definizione che ne espande la denominazione. Il costrutto del prototipo, conoscenza condivisa ed organizzata a sua volta in sequenze di eventi prototipici, non basta. Bisogna scendere da questi mondi semplificati e logicamente respirabili, ivi comprese le scepsi greimasiane7 e i copioni e i temi della A.I., e pervenire ad una definizione relazionale e culturale degli eventi e dei processi passionali8.
Per quanto l’obiettivo ecceda l’occasione, vorremo ricordare che questo è il senso della ricerca di H.F. Nissenbaum sulla semantica delle emozioni, condotta non in termini di lessicologia o di atteggiamenti proposizionali, ma sulla falsariga del modello situazionale di Barwise-Perry. Una ricostruzione degli approcci filosofici (da Hume e Kenny, Rorty, Salomon, Arnold e Wilson) la porta a riconoscervi un carattere essenzialmente individualistico «senza riferimento centrale a fattori che gli siano esterni» (1985:84); una visita dei verbi di sentimento – sommaria e limitata alle passioni «attive» – la persuade invece che le «emozioni sono astrazioni di modelli relazionali di eventi già di per sé relazionali» (ibid.:145). La spiegazione delle emozioni del soggetto non risiederebbe, come l’analisi grammaticale e filosofica hanno spesso preteso, nella relazione diretta d’oggetto. Gli oggetti dell’emozione sarebbero costituiti da aspetti eterogenei d’episodi emotivi sulla cui salienza i soggetti in interazione appuntano I’attenzione9. È il «focus», non l’oggetto, il punto eterogeneo e variabile intorno a cui si sviluppano gli eventi costitutivi dell’enunciato passionale e le sue relazioni alle proprietà del contesto. Queste sequenze di eventi (tra cui pensare, agire, sentire) sono diversamente focalizzate in funzione dei diversi «ruoli» (noi diremmo: attoriali) e questo spiegherebbe l’effetto emotivo di mutamento delle fissazioni di rilevanza (si pensi alla gelosia) e in genere «la capacità magica di trasformazione del mondo» (Sartre). Queste relazioni emotive variabili (noi diremmo: patemi), divengono intelligibili in interazione con i fattori contestuali che entrano a far parte della definizione delle passioni.
A dispetto delle divergenze d’intento e dell’originale apporto attenzionale, gli esiti di Nissenbaum non sono incongrui rispetto alle citate ricerche d’antropologia cognitiva. Partecipano della più generale triangolazione che, dalla definizione di ordinati mondi cognitivi di proposizioni tenuti assieme da intelaiature semplificate di presupposizioni implicite, conduce a dichiarati assunti di semiotica culturale. L’esempio della /collera/ Ifaluk (song), segna parziali convergenze con l’analisi greimasiana10 ma le aggiunge una specifica valenza «intrapatica»: (I) il malfare di una persona porta alla collera giustificata (song) di un altra, (II) song può condurre la persona incollerita a rimproverare chi si è mal condotto, (III) il rimbrotto causa timore e ansietà in chi lo riceve; ne consegue che (IV) il song di qualcuno causato dal malfare di un altro ingenera in quest’ultimo timore e ansietà.
Ammesso che l’intelligibilità mutuamente condivisa si articoli, per la necessaria riduzione di complessità, in «sceneggiature prototipiche iscritte in mondi semplificati di modelli culturali intersecati e intrecciati ed applicabili a campi cognitivi diversificati» (Quinn-Holland 1987:35), di cui il lessico culturale è una tra le possibili manifestazioni, resta il fatto che solo i quadri culturali possono dare spessore di valori ai «temi» di Schank, fornire al «concatenarsi causale» di accadimenti ricompresi in un modello (Abelson) la loro qualità narrativa, garantire l’apprendimento necessario a creare le attese condivise la cui violazione ci irrita tanto. La passione è medio e messaggio di socializzazione11.
Queste caratteristiche astratte servono come punti di partenza d’un riferimento comparativo e non come constatazione a priori o finali su cause universali d’esperienze emotive. La semiotica culturale non intende conoscere se o no delle passioni decontestualizzate siano le stesse o identiche in culture diverse, ma piuttosto come si dia senso all’accadere vitale; la modalità singolare con cui senso culturale e strutture sociali sono connesse e iscritte in queste caratterizzazioni.
Allora, la reciprocità così messa in luce ci fa uscire dal paradigma individualista – espressione e catarsi di stati interni; ci conduce, dalla modalità del volere soggettivo, alla reciprocità di prospettiva legata alla strategia e al potere. Come abbiamo già visto in Lutz (in Holland-Quinn 1987), se con l’azione suscitiamo la passione, con la passione manipoliamo azioni e passioni proprie e altrui. C’è una retorica patemica (Bailey 1983) che, oltre all’inventio e alla dispositio dei prototipi, oltre alle inferenze e le figure, si serve non di solo di segni12 ma d’atti passionali suscettibili di trasformare le posture interattive, cioè le competenze modali degli attori sociali – com-passionali o contrapassionali – in funzione di momenti sociali più o meno rigidamente fissati e più o meno attivamente stipulati13.
Le emozioni socialmente negoziate e validate diventano un idioma culturale per trattare il problema collettivo del potere e delle relazioni sociali e quello individuale dell’«ethos» culturale. Definite come un modo d’azione, le passioni si fanno costruttori e comunicatori attivi di strutture sociali, rendono intelligibile una razionalità strategica non puramente logistica. C’è una socializzazione e c’è una politica delle passioni, come ognun sa, che crea i contesti e le strettoie per canalizzare l’agire sociale: «gli attori comprendono le emozioni come mediatrici dell’azione sociale: sorgono all’interno di situazioni sociali e comportano implicazioni per il pensiero e l’azione futuri. L’intelligibilità emozionale allora non è vista come somma di formulazioni astratte e simboliche – non è “pensare sul sentire” quanto somma di pensieri necessariamente connessi a situazioni sociali ed esiti di valore a cui danno forza e orientamento morali» (Lutz-White 1986:419).

1.3. Sensi e metafore

Pur oggi per ispiegare i lavori della mente pura ci han da soccorrere i parlati poetici per trasporti dei sensi.
(Vico)

C’è un altra dimensione in cui le ricerche «passionali» eccedono il frame cognitivo da cui ci fanno cenno. Esse portano alla luce l’irriducibile peso della componente gestaltica ed estesica: dalle sensazioni fisiche (D’Andrade 1974; 1987:142-3) legate alla propriocettività e al supporto dei sensi, necessarie ad ogni descrizione adeguata dal lessico emozionale, dei gerghi in particolare14, fino alla somma di sensazioni cinestetiche che accompagnano la dominante visuale delle metafore, le «immagini-schema» in Lakoff. L’aptico e il patico risultano intimamente allacciati. Ma i segni della emozione non sono isomorfi a quelli di altre semiotiche: lungi dall’essere arbitrari, essi segnalano una coalescenza delle carni del mondo e del soggetto che spetta alla analisi disimplicare. D’altra parte neppure il linguaggio è esterno ad un mondo che si limiterebbe a descrivere. Se si accetta l’ipotesi di Greimas (1970), le due macro-semiotiche del mondo naturale e del linguaggio naturale – luogo di manifestazione di altri sistemi modellanti secondari, d’altre semiotiche – sono così imbricate che le figure di espressione, i significanti del mondo si ritroverebbero come figure di contenuto del linguaggio, del suo significato. Un modo per dire, con rigore, quello che Lakoff deve bricolare: «l’idea che la metafora sia solo un fatto che riguarda il linguaggio e può […] solo descrivere la realtà, proviene dalla convinzione che ciò che è reale è totalmente esterno […] come se lo studio della realtà fosse appunto lo studio del mondo fisico» (Lakoff 1983:167). Per provare invece l’aspetto creativo della metafora e la sua efficacia «magica» è d’uopo riconoscere che «tutta la nostra esperienza è completamente culturale […] noi facciamo esperienza del nostro “mondo” in modo tale che la nostra cultura è già presente fin nell’esperienza stessa» (ibid.:76).
D’altra parte, per Greimas, nella tipologia interna dei segni costruita hjelmslevianamente per correlazioni di piani, un posto eminente spetta ai segni non immotivati o semi-simboli. Si tratta di semiosi «molari», di cui l’iconismo è un prototipo, che manifestano la correlazione di categorie dei piani del contenuto e dei diversi canali dell’espressione. Ora, per Lakoff, proprio le metafore emozionali sarebbero caratterizzate, sul piano visivo e spaziale almeno, da una qualità semi-simbolica: infatti «alcuni dei concetti fondamentali sulla cui base i nostri corpi funzionano come /su-giù/, /dentro-fuori/, /davanti-dietro/, /luce-buio/, /caldo-freddo/ […] sono meglio delineati di altri». Ma, per lui, le nostre esperienze emotive – fondamentali quanto la nostra esperienza spaziale e percettiva – sarebbero meno esattamente delineate di queste; diversamente dalla percezione «nessuna definita struttura concettuale emerge direttamente dal funzionamento emotivo stesso. Dal momento che vi sono sistematiche correlazioni tra le nostre emozioni come la felicità e le nostre esperienze sensori-motorie (come la posizione eretta), queste formano le basi dei contenuti metaforici di orientamento (come CONTENUTO è SU)» (1983:76-77). Il /Su e Giù/ spaziale si presentano quindi come categorie suscettibili di apparire in «metafore emergenti” con cui concettualizzare le emozioni in maniera più esatta e collegarle ad altri «concetti emergenti» esplicitamente connessi alla propriocettività, quali /salute, vita, controllo/ ecc. (ibid.:154). Pur limitate alla visione e alla topologia, le ipotesi di Lakoff, se collegate alla creatività metaforica, allo schema come struttura di dipendenze sintagmatiche interne, delimitano una «razionalità immaginativa» (Lakoff, 1983:214) e contribuiscono, in modo inatteso, a dimostrare che la semiosi semi-simbolica è suscettibile di svolgere un ragionamento figurativo (Greimas 1983). La metafora dell’emozione, a suo modo, pensa – e in modo non tautologico. Sviluppando nuovi riferimenti tematici a partire da tratti figurativi non focalizzati, producendo nuove correlazioni tra categorie semi-simboliche, l’operazione tropica offre alla interpretazione il destro di comprendere più di quanto «essa dica».

Questa pista è un creodo, via obbligata della ricerca attuale:
(I) Anche se non del tutto soddisfacenti, gli esperimenti di sinestesia tra colori ed emozioni nulle culture Machiguenga (Perù amazzonico) o Maya (D’ Andrade-Egan 1974; Johnson A. e al. 1986) servono a dissipare alcuni luoghi comuni. L’applicazione del differenziale semantico (Osgood) che postula dimensioni universali del significato affettivo, anche se non dà accesso al senso dei termini passionali, prova che gli assi di Valutazione (buono-cattivo), e Potenza (forte-debole), segnalano similarità sorprendenti quanto alle associazioni metaforiche presso culture diverse. Inoltre pare che queste dimensioni connotative si correlino significativamente a tratti cromatici, soggiacenti ai colori, quali ad esempio la saturazione e la brillantezza. Detto altrimenti, le connotazioni emotive del cromatismo, culturalmente variabili ed irriconoscibili nelle traduzioni termine a termine, si farebbero semi-simbolicamente, per categorie dell’espressione e del contenuto soggiacenti al piano della manifestazione.
(II) È, a nostro parere, il vantaggio rispetto a ricerche di semiotica passionale «neuroculturale», in cui l’identificazione delle emozioni è condotto identificando un gruppo di universali emotivi (gioia, sorpresa, paura, rabbia, disgusto e tristezza) a partire da identiche configurazioni di movimenti dei muscoli facciali (Ekam 1984). Ci lascia perplessi questo affect program: un sistema biologico pre-definisce i modelli di ciascuna emozione e gli stessi modi di espressione mentre la cultura interviene soltanto nella differenziazione degli attivatori e nella prescrizione di regole di manifestazione… Si potrebbe partire dalle passioni che comportano componenti culturali consci e in cui chiara è la rilevanza culturale, verso casi più complessi, piuttosto che postulare presunti universali fisiologici a cui aggiungere della cultura in più (Rosaldo). Senza entrare nel merito, osserviamo – sul piano del contenuto – l’armonia prestabilita della lista passionale (d’eredità darwiniana) che serve per la ricerca più che essere oggetto di ricerca e – sul piano dell’espressione – la mancata analisi delle espressioni facciali, la non integrazione in sistemi di segni linguistici e gestuali più vasti che, insieme, tolgono all’ambiziosa ipotesi attendibilità semiotica e interesse culturale.
(III) È il campo della «semiotica comparativa delle vocalizzazioni umane» (Fónagy 1987), dalla grana della voce degli avventi e della prosodia, che si presta meglio a riflettere alla passione iscritta nel linguaggio15 e alle sue semiosi semi-simboliche. Non è banale ripetere che il linguaggio è un insieme stratificato e sincretico di segni di diversa natura (discreta e analogica) e che la prosodia è voce almeno quanto è gesto, «gesto fonico» (Bolinger 1987). D’altra parte il suo piano di significato non è né l’informazione cognitiva né la segmentazione grammaticale ma «i modi, emozioni, atteggiamenti che sono patrimonio del discorso» e in particolare la massa timica, l’asse passionale16. E se non è davvero agevole separare l’espressione delle emozioni e degli stati affettivi dagli atti linguistici e dai contrasti grammaticali con cui logici e linguisti hanno tentato di confinare i loro interessi per l’intonazione «è altrettanto sicuro che, poiché nessun enunciato umano può darsi interamente senza emozione, non si può mai esser certi di quando comincia la “grammatica” di un enunciato e di quando cominci la sua emozione» (ibid.:203). Non c’è enunciato neutrale, esistono solo delle neutralizzazioni.
Ma in ogni caso, che si faccia della prosodia (probabilistica, analogica e graduale) l’estremità di un continuo che ha il suo altro capo nella discrezione sintattica; che la si sovrapponga o no come un «differenziatore emozionale» (Scherer 1984) autonomo su di un fondo grammaticale prestabilito; che si opti o non per l’esistenza di una dimensione emotiva autonoma (Bolinger), rimane possibile isolare alcuni tratti comuni. Gli studi più attendibili si accordano nel riconoscere al segno motivato della prosodia, la natura di «ideofono» (Lieberman), cioè una specie di metafora somatica che, ad esempio, correla semi-simbolicamente categorie espressive come /su-giù/, /alto-basso/ a categorie aspettuali quali /sospensione-conclusione/17 ma anche a vere configurazioni passionali come /interesse cordiale-indifferenza e noia/. D’altra parte anche le qualità della voce, il /tremolo/ ad esempio o il /falsetto/, opposte al /recto tono/ possono segnalare l’/eccitazione vs. la depressione/, oppure /emozione incontrollata/ opposta a quella /controllata/. Non si tratta quindi di significanti fissi da correlare a un sistema di emozioni prestabilite.
Per Fónagy, che generalizza il dispositivo alla semiotica musicale, il lessico emotivo fornisce solo le marche mal definite e instabili per una superficiale tassonomia di partenza. Va de-costruito per enucleare una struttura – compositio e dispositio – e seguire un processo patemico. «Le emozioni si manifestano sotto forma di una performance drammatica», attraverso una proiezione spaziale, laringea e buccale, che traduce spazialmente – per ascesa e discesa di tono – i cambiamenti di frequenza e le variazioni – in aumento o diminuzione – della quantità o della tensione della massa vibrante. Questa «mimica» può esprimere, come ogni gesto, diverse batterie di modalità18 con le loro esalazioni, le passioni (Fontanille) ma anche universali semantici quali /vita-morte/. «La curva melodica sarebbe l’icona di una curva vitale (nasce e muore)»: se angusto è ciò che s’accresce, l’angustia suggerisce, per riduzione della gamma melodica, «l’immagine di un corpo che si rannicchia». Ad un’«intonologia» – che ha lineamenti comuni alla prossemica e alla cinesica – spetta lo studio delle modulazioni del segnale (come gli accenti19, l’allungamento delle vocali tematiche, ecc.), cioè l’esame delle tracce fonico-vocali della presenza e delle trasformazioni passionali. In effetti il valore emotivo non è intrinseco alla fonazione, ma a trasformazioni di modulazione cui corrispondono le mutazioni e gli accavallamenti del piano patemico (la fluctuatio di Spinoza). Esisterebbe quindi accanto agli stereotipi fonopatemici , un «modulatore» che opera a livello discorsivo per turbare l’uso comune in vista della trasformazione e della produzione di nuovi effetti patemici. Si tratterebbe, per Fónagy, della produzione di vere metafore melodiche attraverso una torsione del sistema dei tratti fonetici20 distintivi di una lingua data – quali ad esempio le manipolazione della palatizzazione e della glottalizzazione o della nasalizzazione – che producono effetti semi-simbolici con categorie semantiche quali /piccolo-grande/ e /buono-cattivo/ ma anche /annoiato-eccitato/ o /paziente-sdegnato/. Queste modulazioni – curve melodiche e moti tonali che creano e dissolvono omonimie e sinonimie foniche – trovano una corrispondenza sul piano della modulazione semantica delle configurazioni passionali (i facets di Scherer 1984), si integrano all’uso comune, trovano posto in una memoria grammaticale, dando luogo a metafore fisse e rimodellabili con una «deformazione coerente» socio- o idio-lettale.
La natura semi-simbolica del processo passionale che la prosodia offre sembra un «campione» di buona generalità, ma richiede, per il convincimento, la verifica di un’applicazione passionale. L’empirico nell’esperienza è l’a posteriori: il dato, ed è incompleta ogni teoria dell’esperienza che definisce solo le condizioni a priori. Già Kant chiamava dogmatica ogni proposizione che non dà il caso e non fa conoscenza.
Proponiamo quindi una verifica, con /collera/.

2. Dies irae, il cuore nero

Il campo semantico della collera potrà servirci da exemplum. Bestia nera dell’etica, presente in ogni tastiera fondamentale delle classificazioni patemiche, l’ira ci interroga da sempre sulla possibilità dell’azione: come è che la volontà dissennata può tendersi fino alla rottura che innesca l’azione? come regolare l’impulso nel quadro dell’agire talora assennato e fin razionale?
Una lunga scepsi filosofica ha usato questa pagliuzza nell’occhio raziocinante come lente d’ingrandimento21: qui ci attraggono piuttosto le analisi semantiche degli antropologi e una venturosa coincidenza tra l’idioma greimasiano e quello cognitivo esperienzialista di Lakoff. In ambo i casi, la descrizione di un lessema o d’una sequenza omologata di metafore, indipendentemente dai principi generali e dalle specificazioni idiosincratiche, perviene alla costruzione comparabile d’una «sceneggiatura prototipica» o di una «configurazione passionale» disposta in serie di dipendenze sintagmatiche narrativizzate.
Greimas, alla sua maniera, scompone il lessema /colère/ e ne «spiega» la definizione lessicale: «violento malumore (scontento) accompagnato da aggressività» (Petit Robert). Precisa il ruolo (presupposto) dei sentimenti d’attesa (I) semplice, che porta sulla relazione Soggetto/oggetto, e (II) fiduciaria che investe la relazione intersoggettiva (la collera è attivala da un /dover far essere/ disatteso dall’altro, o da se stessi percepiti come altro). Insiste poi sul modo con cui, escluso ogni programma di pazienza, il Soggetto di stato, tradito nelle attese, avverte l’offesa come manque, in termini proppiani, e si impegna energicamente alla sua liquidazione. Intende rivalersi nella vendetta in vista di un nuovo equilibrio passionale o della distruzione dell’altro, oppure perdonare. Il Soggetto di stato si attiva, cioè si converte in Soggetto del fare. Anche Lakoff, cui fa specifico riferimento la ricerca etno-cognitiva di Lutz, ritiene necessaria una «struttura concettuale dell’emozione – l’anger – che dia adito ad una larga varietà di inferenze non triviali» (Lakoff-Johnson 1980:195 tr. it.). Il suo approccio non è lessicologico ma enciclopedico: raccoglie le espressioni retoriche del Roget Thesaurus (oltre 300), ne riconosce la natura metaforica e metonomica e ne propone una riorganizzazione concettuale. Isola (I) una metafora principale e centrale, «altamente produttiva» (Anger è calore) nelle sue versioni fisiche: solide (Anger è fuoco) e fluide (Anger è il calore di un fluido); la pone poi in rapporto al corpo, contenitore di una emozione che lo attraversa, lo altera e talora l’eccede. Individua poi (II) altre metafore centrali secondarie (Anger è follia; è un avversario; una bestia pericolosa ecc.) e (III) varie metafore minori, varianti che cospirano insieme ad un modello cognitivo – prototipo (P.A.S.)22, dotato di una dimensione temporale, o meglio di una sceneggiatura disposta secondo una successione regolata di sequenze. All’intersezione dei tratti di una «ontologia dell’anger» (entità, predicati, eventi)23 e i principi di un modello culturale (anglosassone, per cui l’anger è pensata come entità separabile), il PAS è suddistinto in 5 sequenze che ricombinano tre attanti (vittima, agente della retribuzione, autore del danno) e due eventi (offesa e retribuzione). Si avrà allora 1. Evento offensivo, 2. Rabbia, 3./4. Tentativo e poi Perdita di controllo, 5. Retribuzione24.
Metafore e metonimie realizzano (obliquamente, a dire di Greimas) sequenze o segmenti di una o più sequenze della tipificazione che tutte le sussume come varianti. Con un esplicito passo avanti rispetto a Lakoff dell’80, il PAS diventa un parametro semantico di correlazione delle metafore e ne caratterizza il meccanismo apparentemente erratico in un quadro concettuale e narrativo. A partire da ciascuno dei punti di dispatching possono svilupparsi le altre sequenze, la /pazienza/, di cui sarebbe interessante completare l’analisi tropica ad integrazione di quella della collera25, o la /vendetta/, sequenza spesso prescritta dalle culture in modi di procrastinazione ritualizzata che la avvicina alla pazienza26. Un esempio tra gli altri dell’integrazione tra approccio categoriale (collera vs pazienza) per opposizioni di tratti semici e quello sintagmatico, cioè l’iscrizione delle sequenze di percorso in giunture gerarchicamente appropriate27.
Le convergenze appena rilevate non stupiscono: la semantica generativa ha influito su Greimas di cui è noto peraltro il risoluto atteggiamento antropologico28. Ma decisivo è stato l’abbandono da parte di Lakoff della letterarietà definitoria («l’ontologia dell’Anger è fatta di metafore», 1986:218) e l’introduzione di quel che Greimas chiamerebbe un livello figurativo, attentamente scrutato. Le «metafore di livello base», per Lakoff utilizzano alcuni concetti di fondo (fluido, calore, fuoco, fardello)29 più ricchi di esperienze empiriche, più suscettibili di inferenze figurative che non altri tratti semantici più astratti (come intensità, forza, controllo ecc.). Chi ricorda (già, chi?) le analisi lévi-straussiane sulle qualità sensibili30 e quelle greimasiane sui ragionamenti figurativi non stupirà che (per Lakoff) le metafore e le metonimie «fondanti» praticano, en bricoleuses, le nostre conoscenze di campi familiari e strutturali, compongono il nucleo della ontologia dell’anger e ci guidano a comprenderne il senso e nell’inferire nuovi significati. Quanto a lui, Greimas tradurrebbe il calore e il suo opposto in «passioni del corpo» che, in seguito, per trasposizione metaforica designano una «passione dell’anima», un patema stricto sensu articolando la coppia di universali semantici /vita/ vs /morte/, categoria poi sottoposta a notazioni aspettuali di duratività e di tensività (Greimas 1986). Su questo piano la melanconica ad esempio si oppone alla collera, per i tratti di /duratività/ vs /puntualità/, di /distensività/ vs /intensività/. Il passaggio del vaglio semiotico a ordito più serrato, ci lascia i tratti necessari al costrutto di un simulacro metalinguistico di generalità sufficiente alla comparazione d’occorrimenti lessicali (intra e infralinguistici) in cui la collera appare isolata o mescolata ad altri sentimenti per la produzione di passioni miste31.
Colère gallica e Anger anglosassone si candidano allora a quel primo, pertinente saggio di traduzione antropo-linguistica del lessico passionale che solo una preliminare formulazione semantica può consentire32.
È quanto prova ad esempio Wierzbicka (1988), che, ricordiamolo, propone di caratterizzare gli universali linguistici delle emozioni a partire da un dizionario di metalinguaggio semantico composto di elementi minimi, non ulteriormente definibili ma interdefiniti, quali pensare e sentire (nel senso di provare) e – con parziale coincidenza con le modalità greimasiane – volere e sapere. Le applicazioni alla collera, passione ipercodificata in molte culture33 ha attirato l’attenzione di Wierzbicka che propone di esplicitare il termine song che, in una lingua in cui l’equivalente di anger sembra mancare, C. Lutz rende /collera giustificata/. Wierzbicka propone la sequenza concettuale (semantica profonda) di song: (I) X pensa: Y ha fatto qualche cosa di male e Y non deve fare tali cose, (II) X prova perciò un sentimento malvagio, (III) X vuole fare perciò qualcosa, (IV) X vuole che Y sappia che ha fatto qualche cosa di male e che non lo faccia più. Per quanto riguarda invece la collera: (I) X pensa: Y a fatto qualche cosa di male; non voglio che Y faccia cose simili, (II) X prova per questo un sentimento malvagio verso Y, (III) X vuole fare per questo qualcosa di malvagio ad Y. Mentre song in (II) suppone che Y sia oggettivamente colpevole, anger presume un desiderio soggettivo piuttosto che un giudizio oggettivo. Quindi in (III) anger è orientata verso un agente causale, mentre in song il sentimento ostile è privo d’oggetto determinato o è tutt’al più una specie di collera indiretta, rivolta all’evento causale, non a chi l’ha prodotto. Ne discende che mentre il desiderio d’una azione retributiva negativa (vendetta o altro) nell’anger ha un destinatario «mirato», nel song si presenta con manifestazioni transitive (recriminazioni, smorfie, ecc.), ma soprattutto riflessive (rifiuto del cibo, tentativi di suicidio, ecc.). Si trasmette cioè in via indiretta un oggetto-sapere volto a manipolare il destinatario-offensore (e altri membri, se non tutta la comunità) perché, senza violenza fisica, abbia vergogna (metagu è una risposta passionale di rispetto, onta e timore – allo «sdegno», song, dell’adirato) del suo fare, se ne scusi e non si ripeta. Oggetto di questo scambio retributivo allusivamente proposto è una controprestazione passionale e non pratica. Se l’analisi è attendibile, l’Ifaluk opta per regolare la impulsione aggressiva (la prima delle tre sequenze analizzate da Greimas) controllando il senso di rivolta; esibisce, quando non se le infligge, le proprie «ferite», somatiche e simboliche piuttosto che trarre un riequilibrio di piacere dalla sofferenza dell’altro. Lo scopo, noi diremmo etico, sembra quello di mantenere a ogni costo il quadro fiduciario che l’infrazione alle attese ha incrinato. Questo atteggiamento, condiviso da comunità primitive fortemente integrate34, risponde meglio alla definizione italiana di collera che può «consistere in un prolungato, tacito sdegno verso il colpevole»35 che non la colère francese studiata da Greimas che si avvicina di più alla nostra ira.
Per contro, la /collera/, nella cultura Kaluli (Papua, Nuova Guinea) contrassegnata da una economia della reciprocità, si trova iscritta nel ciclo delle prestazioni reciproche: se c’è perdita allora c’è una legittima pretesa alla controprestazione. La collera, qui è passione affermativa della soggettività in rivalsa della sua competenza negata (v. ad esempio la rabbia provocata dalla menzogna, anche «a fin di bene»: ci sentiamo negati nel nostro valore!); ma è anche una «figura del pathos» con particolare forza retorica e manipolativa in un sistema di transazioni simboliche strettamente proporzionale ed egualitario (Schieffelin 1983).
Anche gli Ifaluk, d’altronde credono ad una responsabilità diretta di chi causa con passioni (e con azioni) le passioni altrui (i legami diadici come song/metagu sono appresi nell’infanzia sotto forma di schema), e quindi ne fruiscono, pragmaticamente, per ricategorizzare i ruoli sociali: «la pretesa ad una indignazione giustificata è simultaneamente una pretesa ad una posizione superiore rispetto a chi ha errato» (Lutz 1986:297). Lo stesso può dirsi delle credenze culturali sulla /collera/ usate nella comunità tahitiana per regolare il comportamento corretto tra parenti: le emozioni sono dunque «medium e messaggio di socializzazione» (ibid.:260)36. Sono notazioni impressionistiche allo stadio attuale della ricerca su modelli emic culturali e linguistici (usati simultaneamente e in opposte direzioni dai linguisti e dagli antropologi) per giungere alla «conoscenza (passionale) culturalmente condivisa e organizzata in sequenze prototipiche di eventi messe in atto in mondi semplificati» (Holland-Quinn 1987:24). Oltre alla carenza di ricerche concrete, anche il metodo è in causa. L’uso dei prototipi rischia di creare per ogni cultura una urdoxa passionale, se non un codice di tratti, un repertorio di stereotipi e rendere inintelligibile l’aspetto labile, fluttuante, graduale delle passioni, la loro stipulazione intersoggettiva. D’altra parte, come determinare il numero degli «atomi semantici» di cui parla Wierzbicka (50 o 100?) o la estensione delle configurazioni molari? su quale ripiano situarli dell’edificio metodologico, che articola teoria, metodo e descrizione? Ritengo che il vasto cantiere in costruzione dell’approccio greimasiano consenta, nell’uso del vaglio semiotico di lasciar brillare, nella ganga dei vari approcci, qualche parcella di verità.
Se nella rielaborazione lessematica della colère francese scorgiamo più nitidamente la componente concettualmente astratta e le venture della fiducia intersoggettiva (la sua dimensione contrattuale e morale), in Lakoff, dov’è a fuoco la componente conflittuale, le metafore lasciano filare una alchimia di fluidi in transizione di fase, un immaginario bachelardiano di fiamme e di vapori: «Emotional affects are understood as phisical effects» (1987:205). Come Ekman (e contro Schachner) per cui i termini universali della collera non contravvengono mai alle impulsioni fisiologiche: temperatura della pelle e ritmo dei battiti cardiaci, Lakoff ritiene che il modello culturale che dà forma e senso all’anger non è (cognitivamente) arbitrario, ma in relazione semi-motivata alla nostra «carne». Gli sembra che questa semiotica incorporata delle sostanze e le figure gestaltiche del corpo «recipiente», sottoposto a tensioni e catastrofi esplosive, sono le matrici di rielaborazione e d’invenzione metaforica e metonimica. L’idioma hjelmslevian-greimasiano e la semantica cognitivo-esperienzialista preconizzano entrambe e – parzialmente realizzano – la correlazione delle due macro-semiotiche – linguaggio naturale e mondo naturale – iscrivendo come semantica del primo (le figure del contenuto delle lingue) le figure espressive (materiche e gestaltiche) del secondo. La passione, quella collerica almeno, si esprime in una semiosi singolare: il semi-simbolismo, alle cui qualità (correlazione per categorie dei piani del contenuto e dell’espressione) abbiamo più sopra accennato. In questo quadro vanno apprezzati i risultati di Fónagy sugli schemi prosodici che realizzano «la varietà e l’unità d’atteggiamenti che la parola “collera” riassume» (1983:127). Per Fónagy il lessico emotivo è intrattabile: «segreto collettivo», pugno d’etichette per atteggiamenti infinitamente variati, non può dirci nulla della struttura semantica. È la voce – la mimica proiettiva delle intonazioni -, il gesto vocale che «rivela» le composizioni passionali. A differenza del fonologo, che le riduce ad «emphatica» (Jakobson), il prosodista segue le variazioni tensive delle corde vocali e le trasformazioni della massa vibrante per tradurle in cambiamenti di tono. Questi ultimi, come abbiamo visto, non sono percepiti come mutamenti, talora finissimi, di frequenza e di tensione, ma come «movimenti spaziali di salita e di discesa». Questa proiezione spaziale (forse riduttiva della dimensione propriamente musicale37 insita nelle nostre voci38, questa «danza tonale» (in tedesco Tonbewegung e in ungherese hanglejtés) se non è riducibile al gesto condivide tuttavia con questo – e con le metafore interpretate da Lakoff – la semimotivazione, cioè il carattere semi-simbolico. I metodi di «sintesi della parola» segnalano ad esempio quale tratto distintivo dell’/aggressività/ (una delle componenti della collera) la curva melodica angolare «una linea melodica diritta, rigida, e interrotta a intervalli decisamente eguali in sillabe (fortemente} accentuate, da scarti bruschi…». Questo schema, stabile nel corso di sequenze verbali anche prolungate, esprime con eguale intensità la medesima collera. «I bruschi salti melodici arrivano più o meno alla stessa altezza e costituiscono un piano virtuale non meno rigido del livello tonale di base». La regolarità e la rigidità di questa «curva febbrile» si oppone in modo significante, per Fónagy e per gli studiosi di emozioni tonali, alle altre intonazioni di base: /gioia/ e /tenerezza/ e alla loro proiezione spaziale. La melodia ondeggiante della tenerezza corrisponderebbe a moti lenti, graduati, rotondi come carezze mentre la collera appunto è tutta rigidità contratta, scarti bruschi e rapidi proferimenti: in una matrice di correlazioni categoriali sono questi i tratti discriminanti di un ritmo, rabbioso, di conflitto opposto al ritmo, tenero, di contatto. Tra queste parole di forza e di protezione, la /gioia/ con gli scarti delle sue curve, compone i tratti sonori dell’apprensione collerica e di quella tenera. «Il moto melodico è saltellante, capriccioso, imprevedibile, la gamma dei cambiamenti di frequenza è ancora più larga della collera. La gioia riflette dunque dei moti vivissimi, molto irregolari, volteggianti, un’aspirazione dinamica verso l’alto (la gioia ci dà le ali)» (ibid.:124-125). Per Fónagy la differenza tra i gesti melodici della /gioia/ e della /collera/ starebbe nell’organizzazione; i movimenti anarchici e senza fini della /gioia/ sarebbero di segno opposto alla /collera/, dotata questa di regolarità perfetta e d’una rara padronanza degli apparati fonatori. Sarebbe possibile e forse conveniente abbozzare una matrice di tratti del significante prosodico (angoloso/rotondo, rapido/lento, regolare/irregolare, alto/basso, ecc.) e additarne la validità generale per la semiosi grafologica, fisiognomica e cinesica, ma Fónagy volge piuttosto il suo interesse ad una substruzione del campo semantico. A noi interessa che, prima di appurare le basi fisiologiche e statuire sulle pulsioni (esseri mitici, diceva Freud), egli si provi ad abbozzare alcuni tipi di collera secondo la loro semiosi semi-simbolica. L’incontro riconosce che il modo da lui descritto incorre solo in «accesi» dibattiti (scientifici ad esempio), e che si danno altre varianti: (I) quella volontaria (la collera fredda), (II) gli scatti collerici immediati ed escandescenti, (III) quella in cui lo sbottare violento segue una ritenzione preparatoria, (IV) la collera domata, in cui è colui che pare dominato dalla collera a dominarne l’espressione39.
Si impone a questo punto il raffronto tra gli schemi prosodici e la «sincope» semantica che caratterizza, per Greimas, il ritmo del contenuto nella definizione della colère. Condotto dai due moti correlativi (e diversamente gerarchizzati) dall’affermazione del sé e dalla distruzione dell’altro, il soggetto irato esacerba il suo poter fare e si getta nell’azione prima d’aver definito uno schema d’azione (la distribuzione paradigmatica degli attanti, la concatenazione sequenziale), prima di aver «preso il tempo» di un programma. Sappiamo poco di questo istantaneo, catastrofico passaggio dall’essere al fare: come può il soggetto non riconoscere il misconoscimento della propria competenza, negare il ripudio delle sue attese, riassumersi e ritrovare una nuova relazione fiduciaria? Già Sartre aveva escluso, come troppo corta, una spiegazione in termini di topologia delle emozioni (la rottura di forma e la ricostruzione d’una altra forma)40. E neppure l’interpretazione cognitiva, paradigmatica della collera ci sembra sufficiente. La lettura somatica e semiotica (metaforica e semi-simbolica) – la coalescenza di passioni del corpo e dell’anima – segnala che lo «specifico» della collera è non l’innegabile uso «razionale» ma, direbbe Collingwood41 la «breve follia», in cui il soggetto «dà di fuori»: fuor di sé e fuori dalla relazione fiduciaria intersoggettiva. Ad una spiegazione in termini di concetti deve assommarsene una di percetti e d’affetti. Nell’istante «fuori tempo», in cui il corpo si fa senso e gli stati d’animo stati di sostanza del mondo, la collera agisce come un attore autonomo sul soggetto che si spiega come un campo di variazioni euforiche e disforiche. Qui, tra estesie – calori, sbiancamenti, ecc. – si operano le conversioni tra gli spostamenti dell’affetto della massa timica, le ri-categorizzazioni modali e, secondo Greimas (1983:86), i passaggi tra le categorie semantiche /vita/ vs /morte/. Momento estetico ed ex-statico in cui le regole non hanno più gioco (nel senso in cui un meccanismo, «i gangheri» ha gioco) e il disagio del soggetto diviene prossimo alla «mania» e all’ispirazione42; luogo parabolico, dove si eccedono i limiti del paradigma attraverso le innovazioni metaforiche «fondamentali», le sinestesie, il semi-simbolico somatizzato. In questo spazio transizionale, soggetto e oggetto (l’asse della quéte) diventano reversibili, e così la relazione di ascendenza tra destinante e destinatario (l’asse della comunicazione). Nella crisi fiduciaria l’intersoggettività si fa inassegnabile quanto la soggettività. E mentre gli oggetti stessi diventano opponenti, il soggetto può trovarsi anche un altro destino, cioè una nuova struttura di destinazione. L’affetto è divenire. Nel lampo dell’ira c’è un doppio presente dove siamo a un tempo ciò che siamo e ciò che saremo (senza saperlo ancora); possiamo lasciarci andare, perderci (l’ira può prolungarsi in follia), oppure aver paura della nostra collera, dell’assenza di controllo, ripiegare sulla pazienza e il risentimento ma, anche, instaurare un altro contratto fiduciario, decidere altrimenti di quel che valga il valore. Una catarsi per uscire da una analitica e per trovare una diagnostica43.
È quanto accade nel programma di pazienza: al termine d’ogni stato d’ira c’è una pazienza che ne segna la fine e attiva la volontà d’azione, anche la più eccessiva (per questo possiamo arrabbiarci «a freddo»). Certo l’ira minaccia la volontà nella sua stessa origine e identità, tuttavia nella disforia dell’attesa mancata si impone una irresolvibilità del contratto: siamo tenuti all’altro (per Collingwood la passione è l’esperienza irrecusabile del non-io). Ma per impegnarsi ci vuole un disimpegno. Per passare dalla /frustrazione-scontento/ all’/aggressività/ nella microsequenza iscritta nella serie principale che porta dalla insoddisfazione alla rinuncia e/o alla vendetta (Fontanille 1986), è necessario ritrovare una pur minima distanza, un gioco tra il soggetto e un’istanza metasoggettiva. L’«estrema passività che si muta però disperatamente in atto e speranza […] passività di subire che è tuttavia ancora, la signoria» (Levinas). Questo disimpegno – «né impassibilità di una contemplazione che sorvola la storia, né impegno definitivo nella sua oggettività visibile. Le due posizioni si fondono» (1971:244 tr. it.) – troverebbe nella estrema, irrevocabile disforia del patire, la possibilità di una esistenza che non mette l’accento su di sé. Nella sincope della pazienza si ricompongono i frammenti del mondo infranto delle attese e «la volontà passa ad una vita contro qualcuno e per qualcuno» (ibid.:245): oltre l’egoismo l’esperienza della delusione e del dolore restaura o instaura i termini di un conflitto e di un contratto prima ancora di conoscerne i programmi44.
Questo processo si fa nel presente dell’ira la cui puntualità non deve fare illusione: è qui che si aprono i possibili e si rinnovano le disposizioni. Per Levinas «non si unisce un istante all’altro per formare il presente. L’identità del presente si fraziona in una inesauribile molteplicità di possibili che sospendono l’istante. E questo dà senso alla iniziativa – che non può essere paralizzata da niente di definito – e alla consolazione» (ibid.:243).
Per comprendere l’attivazione del soggetto è necessaria una semiotica del tempo e la lunga storia filosofica delle ricette di controllo dell’ira, così utile a ricostruirne le componenti semantiche e le giunture sintagmatiche, è là per provarlo. Non servono i concetti e neppure bastano gli interventi estesici (Aristotele ad esempio pensava che l’acqua fredda fosse consigliabile); si deve «procrastinare», prendere tempo. E questa manipolazione della temporalità che garantisce la permanenza del soggetto, dei suoi contratti e dei suoi conflitti, nella /pazienza/ come nella /vendetta/. Greimas ha indicato nei sistemi di riparazione (fisico morale) vendicativa il nucleo centrale di regolazione passionale (il /perdono/ è vendetta senza sanzione) e il ruolo della /giustizia/ che subordina il volere e il poter-fare del soggetto a una componente cognitiva (la modalità del sapere) regolata da un destinante-giudice. Sarebbe interessante integrare al saper-fare semiotico le conoscenze del sistema vendicatorio in sistemi socialmente regolati; per ora basti notare, che procrastinazione e messa a distanza (il raffreddamento estesico) non sono ottenute a nome di una razionalità cognitiva ma col meccanismo paradossale di prescrivere il sintomo, di costringere alla /vendetta/ che si vuol controllare. Con i riti della manipolazione temporale, con la soppressione della spontaneità in cui il soggetto è costretto al sapere sulle proprie azioni, la passione è giocata contro se stessa. D’altra parte ritroviamo nell’obbligo della /vendetta/ un tratto generale della teoria dello scambio che, regolata da una massima omologa a quella dell’incesto: «non ti vendicherai di coloro che hai l’obbligo di vendicare», ci lega intersoggettivamente «ad uno schema di reciprocità che apre la via alla riconciliazione e alla pace». E inoltre…
Le nostre osservazioni e suggerimenti sulla collera non hanno ragion d’andar oltre; tracciano un canovaccio, recapitano un biglietto d’invito (o un cartello di sfida) ad allargare gli spiragli delle paratie semiotiche in vista delle scienze umane. Con un ovvio (?) caveat. Il gioco delle distinzioni semiotiche non mira ad alcuna identità antropologica (teleologicamente trascendentale); vuol interrogare la passione, tra le lingue e le culture, per far apparire l’alterità e l’esteriorità; il suo pedale d’accompagnamento, il suo bordone è «che siamo differenza, che la nostra ragione è differenza di discorsi, la nostra storia differenza di tempi, il nostro io differenza di maschere» (Foucault).

3. Coda

Il fatto supremo di un soggetto esistente è la passione, e la verità si pone in rapporto alla passione come un paradosso.
(Kierkegaard)

La semiotica non è più agli albori ed è tempo per il giudizio. Non condividiamo quanti ritengono che «the recent history of semiotics has been of simultaneous institutional succes and intellectual bankrupcy» (Sperber-Wilson 1986:7), e potremmo forse rovesciare il pronostico per una ricerca cognitiva priva di dimensione patemica. Chi vedrà, vivrà.
Ma gli esiti passionali suggeriscono qualche scia e forse qualche rotta nel campo della (I) storia semiotica, (II) della comunicazione e (III) delle razionalità.

(I) Ci invitano a dar ragione ad Eco quando cerca oltre la rottura saussuriana la teoria del segno. È certo che l’inerente superstizione discreta e fonologizzante, cioè il paradigma strutturale, riduce i segni emotivi ad un coacervo di tratti soprasegmentali ed enfatici. Ed è altrettanto certo che la speculazione pre-critica sui segni saprà ritrovare un sapere fuori programma. Ma dobbiamo anche dare (se non torto) ragione di Eco quando mantiene una nozione (peirciana) di segno come rinvio; cioè lo stesso segno informativo e arbitrario che ha permesso la rottura saussariana e ne è complice, grazie l’esclusione della componente emotiva.
Perché il gesto storicizzante non sia pura forclusione dei risultati della ricerca – getti galline dalle uova d’oro con l’acqua della vasca da bagno – vanno acquisite quelle tipologie di segni e quei processi di significazione che, nel quadro strutturale, integrano la conoscenza passionale. C’è anzi da fare una storia dei segni motivati e/o semi-simbolici (gesti e intonazioni, fisiognomica e grafologia) e delle loro epistemologie, cioè dell’atteggiamento culturale, variabile nello spazio e nel tempo verso di essi (Lotman). E non la storia delle sole teorie (teoréin è contemplazione) ma del pràttein del poiéin, cioè delle teorie implicite nel saper fare di diversi regimi testuali (danza, musica, arte verbale e visive ecc.). Condividiamo la posizione di Geninasca in questo volume. Compito della semiotica non è descrivere testi per far intervenire après coup teorie (multi)causali e (onni)esplicative (metapsicologie, o altro), ma dis-implicare dalle semiosi manifestate le teorie implicite da ri-figurare.

(II) Porre la passione in rapporto all’azione, ritrovarvi l’implicazione estesica del corpo proprio (Ricoeur)45, significa, come abbiamo visto, insistere su quel momento impulsivo, in cui, per Kant, si passa «spontaneamente» all’azione, «attacco» (e «stacco», come nella musica o nella danza) in cui le morfologie di senso si fanno processi, cioè sintassi. È agogia (agogé) che decide della scansione delle composizioni patemiche e attanziali; mentre il pensiero ci fa spettatori – e blocca l’azione, la passione è scaturigine del principium individuationis formativo del carattere: instaura la durevolezza e orienta gli atti di volizione. Ma il soggetto non è solo in causa. Come spiegare altrimenti le forze direttive, l’acquisizione dei modelli di socializzazione e così via? Il sistema emozionale ha una funzione semiotica ad un tempo interna ed esterna; intermediario tra corpo e rappresentazione. Come il volto di Giano, le passioni sono volte verso il pulsionale e il somatico da un lato e verso il discorsivo e l’intellettivo dall’altro. Anello, di malcerta forma, tra una comunicazione interna e una funzione sociale di comunicazione. «La comunicazione emotiva verte su sistemi di opposizioni corporali: tensione-distensione (muscolare), chiusura-apertura, caldo-freddo, destra-sinistra, alto-basso, utilizza i ritmi temporali, le opposizioni spaziali del corpo, li ritualizza e li trasforma in segnali» (Gentis 1980:110). Come ha notato Lorenz, la ritualizzazione è già un atto comunicativo che opera la «decantazione semantica» delle pregnanze biologiche, le riorienta e le modifica in funzione delle prime solidarietà sociali; è «organico socializzato», transizione tra una regolazione biologica, una pulsione e una condotta già mediatizzata, socializzata, che agisce per il mezzo dell’informazione.
I segni motivati o semi-simbolici, «forme bipolari, schemi senso-motori composti di coppie d’opposizioni di paia contrastate» (Pagès:207), sono segnali ad uso interno dell’organismo (apprezzamento, amplificatore analogico, ecc.) per orientarlo e disporlo, in funzione di una comunicazione sociale; sono tracce a valore di segnale «l’emozione non prepara all’azione in generale, ma a quel tipo d’azione in particolare che è l’azione attraverso l’intermediario altrui, quella che s’indirizza ad altri quanto all’attore stesso» (ibid.:156).

(III) L’opposizione azione/passione (insieme a quella tra coinvolgimento e distacco nell’azione) sposta, forse dissesta l’afosa opposizione tra passione e ragione – tra prisma e spirito, cristallo e fumo. È un gesto di cui va, altrove, misurato l’arco. Ci basti rimarcare che I’«apprensione» di un senso diverso dalla «comprensione» non permette soluzioni di facilità. Sono tali, ci sembra (I) le estensioni degli sviluppi in campo epistemologico o (II) l’iniezione frettolosa sul tronco semiotico di modelli biologici ed analitici.
(III.I) Della reductio ad cognitionem fa parte l’assunto per cui avere un’emozione è imporre un frame di una situazione in cui si trova coinvolti, inquadrarla in termini di «paradigm scenario» e disporsi verso una certa interpretazione e una reazione ad essa. Il numero delle emozioni sarebbe quindi indefinito, variando solo la capacità di inquadrare l’esperienza e le azioni in sceneggiature paradigmatiche (De Sousa). Chiaro è l’intento di preservare la natura razionale del processo patemico e interessanti alcune conseguenze. Questa razionalità non è solo cognitiva ma strategica. Mentre la componente cognitiva fissa la salienza degli oggetti e i percorsi ottimali per raggiungerli – una razionalità sintagmatica e narrativa delle scelte di valore e del loro perseguimento -, strategici sono il confronto e la scelta tra inquadramenti paradigmatici appropriati a cui sussumere la «fattispecie», cioè la descrizione circostanziata dell’evento. Strategica sarebbe poi la modalità di transizione tra emozioni, in cui il soggetto investe le proprie azioni e il volere (e non il solo giudizio e neppure la credenza). «Se Sartre ha ragione e scopo della passione è la trasformazione magica, allora la razionalità è strategica» (De Sousa).
L’estensione al campo ora aperto della ragione scientifica, non può bastare. Si impongono subito altri concetti che fanno derivare i primi: la credenza e il valore, il desiderio e la sua aspettualizzazione, l’efficacia e non la verità. Non è buona guerra risolvere il passionale come problema di rompicapo, come anomalia del paradigma epistemico. Ci vuole un salto percettivo analogo a quello che per Kuhn è metafora del passaggio di paradigma; il riconoscimento tra le carte da gioco, sperimentalmente manipolate, che alcune picche sono rosse e che i cuori sono neri. Non si vive di sola episteme e irrazionale è ogni definizione ristretta della razionalità. Ma per dar corpo ad una razionalità allargata – anche per Greimas il cognitivo è inestricabile intreccio di fili razionali e passionali – non bastano «livelli di razionalità» ben composti e contemplati una volta per tutte da fiat filosofici. Se mai, il riconoscimento delle modalità passionali di «apprensione» del senso fanno intravedere una diversa tipologia semiotica (semi-simbolica) e un differente regime discorsivo (parabolico-analogico), un pensiero parallelo più simile a quanto siamo abituati a rubricare come l’estetico (il sublime ad esempio). E più generalmente additano, da lontano ammettiamolo, una teoria dell’agire comunicativo in cui i tipi di razionalità sono dispositivi (e traduzioni) di discorsi. Teoria culturale e antropologica che prende, se non le distanze almeno un certo agio, rispetto ai tableaux vivants delle sceneggiature e alle nature morte dei contesti. Come pensare altrimenti una intelligenza sagace, accorta, tempestiva, capace di senso e di sensatezza (opportunità), di una (ap-com)prensione opposta al «comprendonio» artificiale?
(III.II) D’altronde sembrano votati all’insuccesso i tentativi di introdurre la pulsionalità nella base semantica della teoria greimasiana (Petitot) senza aver posto la questione preliminare delle configurazioni patemiche. Collocando il pulsionale, a nome di una metapsicologia qualsivoglia, nelle strutture profonde della componente semantica46 si finisce per accantonare i risultati ottenuti e già detti, ridurre a sintomi di superficie i composti patemici e occultare le proprietà strategiche del (dis-)accordo intrapatico, cioè lo sviluppo negoziato e interpersonale del processo passionale. Torneremo su questo punto, che si serve qui solo per illustrare, ancora ed infine, la valenza passionale per il vaglio dei modelli semiotici.

4. Invio

La ricerca sulle passioni, che ha contraddistinto i primi anni ’80 – chiasmo o bordone all’epistemologia cognitiva – presenta sconscendimenti e lunghe ombre. L’indagine sul senso e sui sensi dovrà integrarne gli esiti, schiuderne il «portento», tensione e prospettiva della ricerca: farsi «patemica» e sagace, impegnarsi a dare il caso e a far conoscenza. Né è tempo di rifondatori, né di liquidatori. Non c’è prima fiamma – filosofica, psicoanalitica, ecc. – nascosta nel cavo della mano e molte scatole nere della mente si rivelano vasi di Pandora. La conoscenza che conta è quella aperta su futuro e il metodo quello – lentezza e precisione da sonnambuli – con cui costruiamo castelli di carte.
C’è bisogno di sperare per crederlo?


Note

  • Testo apparso originariamente in Fabbri-Pezzini (a cura di) 1987. torna al rimando a questa nota
  1. Un ottimo esempio della circolarità delle definizioni dell’«amour» nel Petit Larousse (1972) in Wierzbicka (1988:88,97). torna al rimando a questa nota
  2. Eccone una lista: io, te, qualcuno, qualcosa, questo, voglio-non voglio, sento-risento, immagino, una parte, il mondo, divenire, sapere, posto, tempo (e forse) buono-cattivo. torna al rimando a questa nota
  3. «Ciò che è reale per un individuo come membro di una cultura è il modo con cui quest’ultima modella la sua esperienza del mondo fisico. Dal momento che gran parte della nostra realtà sociale è compresa in termini metaforici e che la nostra concezione del mondo fisico è parzialmente metaforica, la metafora gioca un ruolo assai significativo nel determinare ciò che è reale per noi» (Lakoff 1982:168). torna al rimando a questa nota
  4. L’amore è lavoro, è attivo, è una esperienza estetica, è unico in ogni sua realizzazione, è espressione di ciò che sei; richiede cooperazione, dedizione, compromesso, disciplina, pazienza, valori e scopi comuni, sacrificio, comunicazione istintiva, una estetica in comune, la più grande onestà; implica responsabilità comuni, creatività; ha valore in sé, ha bisogno di investimenti; regolarmente si accompagna a frustrazioni; non si può ottenere applicando una formula; può essere passeggero o duraturo, crea una realtà; richiede la più grande onestà; riflette il modo in cui tu vedi il mondo; produce, da sforzi comuni, una soddisfazione estetica comune. torna al rimando a questa nota
  5. In questo senso v. soprattutto Eco. torna al rimando a questa nota
  6. In modo raccolto D’Andrade (in Holland-Quinn (a cura di) 1987) specifica le divergenze tra modello occidentale e modello Ifaluk delle passioni. Tra l’altro l’indistinzione tra desideri e intenzioni, la fusione di pensiero e sentimento in un unico metatermine – «nunuwan»; la netta evidenza del ruolo interpersonale della passione, il suo carattere di malattia, ma senza implicazioni allucinatorie e senza terapeutica catartica e così via. torna al rimando a questa nota
  7. Per una critica dei prototipi asettici di situazioni comunicative in Grice v. l’analisi del «mentire», Sweeters in Holland-Quinn (a cura di) 1987. torna al rimando a questa nota
  8. V. in Geertz la descrizione esemplare della «paura di scena» (stage fright) nella cultura Balinese dove l’apprensione che caratterizza le situazioni formali è resa intelligibile dalla struttura etica della personalità, cioè dal nesso tra meozioni individuali e valori collettivi – v. il segreto dei nomi propri, l’uso dei soprannomi ecc. – e dalle puntigliose regole cerimoniali dell’etichetta. torna al rimando a questa nota
  9. Già Descartes, il più passionale dei razionalisti, aveva definito la passione come il «punto di vista» sull’azione da parte di chi ne subisce gli effetti. Il legame semantico tra passivo e attivo, in senso linguistico, era già posto e pronto ad essere dimenticato. Ma vedi oggi le applicazioni del punto di vista e dell’empatia in sintassi (Kuno-Kurabuki). torna al rimando a questa nota
  10. V. più oltre, 2. torna al rimando a questa nota
  11. Era, se n’è fatto cenno, la posizione di Lakoff; ma non è superfluo osservare che solo le strettoie di codice di una comunità possono limitare o orientare la proliferazione delle metafore innovative. torna al rimando a questa nota
  12. Si ponga mente tuttavia alla tipologia dei «segni di legame» quei modi di contatto prossemico e gestuale che hanno lo scopo di manifestare le relazioni passionali tra due o più soggetti, e la cui infrazione provoca altrettanti effetti passionali (Goffman). torna al rimando a questa nota
  13. Per una ricostruzione di questa retorica del pàthos, le componenti modali del potere e le differenti pressioni sociali alla manifestazione o all’interdetto dell’agire appassionato – sulla vergogna e la rabbia in particolare, v. Schieffelin 1983. torna al rimando a questa nota
  14. Per questi «pensieri incorporati» (Rosaldo) v. ad es. il /gusto/; la descrizione del /disgusto/ in Wierzbicka; al ruolo del tatto nel lessico Esquimese (Briggs), e più particolarmente, la /collera/ v. 2. torna al rimando a questa nota
  15. Si rifletta alla respirazione e ai suoi correlati affattivi: la /speranza/ è letteralmente respiro. torna al rimando a questa nota
  16. Diderot: «l’immagine dell’animo è resa dalle inflessioni della voce, sfumature successive come un arcobaleno». Salons, 1767. torna al rimando a questa nota
  17. Oppure categorie aspettuali dell’espressione come /compiuto-incompiuto/ ad atti linguistici come /asserire-interrogare/. torna al rimando a questa nota
  18. Per una indicazione esplicita d’intonazione modale v. Fónagy (1986:313) e si pensi ad es. a quelle veridittive: messaggi autentici, confidenziali, ecc. torna al rimando a questa nota
  19. V. il classico accento detto «d’insistenza» in francese. Solo o in combinazione con l’accento normale (tonico) se prende posto all’inizio di parola si chiamerà (I) affettivo o patetico: insiste allora su parole valorizzate, sta sulla prima consonante e indica /esasperazione e impazienza/ oppure (II) antitetico o intellettuale che porta sulla prima vocale e oppone due termini per asserire uno. V. in Duprilz 1980: l’entrata «Accent». torna al rimando a questa nota
  20. Anche i margini e i vuoti di un sistema fonologico dato, insieme ai tratti di un altro sistema, possono essere impiegati ai fini dell’espressione patemica. torna al rimando a questa nota
  21. Dalla psicanalisi risalendo ad Aristotile, che assegnava all’orgé, /la collera/, il primo posto nella Retorica e, sembra, nel perduto Trattato delle passioni. Per l’uso regolato delle passioni (la greca metropateia) nella costruzione e l’assoggettamento della soggettività, v. Foucault. torna al rimando a questa nota
  22. Per il suo «prototipo-sceneggiatura» Lakoff s’ispira esplicitando alla sceneggiatura-paradigma di De Sousa. torna al rimando a questa nota
  23. Solomon si serve, nella stessa ottica, di altri parametri (direzione, scopo, focus, distanza, desiderio, potere, oggetto, criteri, status, valutazioni, responsabilità, intersoggettività, strategia, mitologia) solo parzialmente, anche se significativamente, coincidenti. torna al rimando a questa nota
  24. Non ci sembra causale che tra i suoi primi saggi Lakoff si interrogasse su una lettura generativa di Propp. torna al rimando a questa nota
  25. È attendibile, per alcune metafore «centrali», un riscontro con inversione di segno: il liquido si farebbe ghiaccio, il colore raffreddamento, la bestia pericolosa diverrebbe mite e così via. torna al rimando a questa nota
  26. Come fa notare Di Bella 1987, la vendetta è piatto freddo, ed ha sovente il volto mite dell’amico. torna al rimando a questa nota
  27. Si tratta dell’integrazione di due metodi di cui la linguistica ha dato l’esempio: quello praghese (paradigmatico) e quello danese (sintagmatico) del fonema. È il metodo di Rosaldo che per interpretare il termine liget – tradotto con /anger/ – ne esplora i vari usi nei contesti sociali fino ad identificare riflessivamente la ricerca con il suo stesso fare etnografico. torna al rimando a questa nota
  28. Ci basti qui accennare ad uno spinoso problema della semantica per prototipi. I 18 casi non prototipici di /anger/ nel testo di Lakoff segnalano che è incarnato difetto della stereotipia il produrre «scarti» che una analisi semantica più articolata saprebbe ridurre ed omologare. torna al rimando a questa nota
  29. Il francese e l’italiano sono fitti d’esempi: mosche e mostarde che salgono pizzicando al naso, rapidamente come il latte; gangheri e staffe da cui si esce mentre si va in bestia ed in escandescenza, e così via. torna al rimando a questa nota
  30. Lévi-Strauss riprendeva qui la distinzione tra qualità primarie e secondarie del XVIII sec., nel quadro di una fenomenologia. Il Pensiero selvaggio è dedicato a Marleau Ponty. torna al rimando a questa nota
  31. V. l’esempio di dépit: «chagrin mélé de colére, du à une deception personelle, un froissement d’amont propre» (Petit Robert). torna al rimando a questa nota
  32. Un campo semantico d’applicazione è la ricerca etimologica. Qui è la semantica che, nei casi ambigui, decide e valida la scelta dell’etimo. Ad esempio nel caso del termine spagnolo sana /collera/ invece delle proposte «insania, smorfia: cattivo sangue», Malkiel opta per «burlarsi o canzonare». È però evidente che gli etimi suggeriti appartengono a luoghi diversi del percorso collerico: «canzonare» è la rottura offensiva delle attese, mente l’escandescenza, la smorfia (è lo stesso termine degli Ifaluk di Lutz) si situano nella sequenza successiva di reazione propriocettiva e di esibizione comunicativa all’offensore. torna al rimando a questa nota
  33. A Tahiti ad esempio si parla poco di /tristezza/ là almeno dove noi ce l’aspetteremmo, mentre si incontrano numerose varietà di /collera/ con una complessa terminologia e fraseologia (Lévi). torna al rimando a questa nota
  34. L’atteggiamento verso la collera e i suoi segni potrebbe essere un tratto culturale discriminante per le epistemologie culturali. Si veda Briggs e la denegazione della comunità Eschimo che pretende di non andar mai «su tutte le furie», oppure A. Johnson el al. (1986:674): a causa dello /spavento/ che incute la collera può codurre ad una anticipazione di violenza: «per i Machiguenga – tribù dell’Amazzonia peruviana – una persona in collera è così spaventata da temere di essere uccisa per anticipazione della violenza che potrebbe causare». Altre culture sopravvalutano il furore guerriero: è etimologicamente possibile che «bravo» venga – nei suoi doppi sensi – da robidus, /furioso/. torna al rimando a questa nota
  35. Collera: violento turbamento dell’animo, di breve o lunga durata, insorto per reazione a un torto subito o a una grave mancanza altrui, che può manifestarsi con atti e con parole o consistere in un prolungato tacito sdegno verso il colpevole (Treccani). Ira: sentimento (per lo più) improvviso e violento che, provocato dal comportamento di persone, da fatti, circostanze, avvenimenti tende a sfogarsi con parole concitate, talvolta con offese, con atti di rabbia e di risentimento, con una punizione eccessiva o con la vendetta contro chi, volontariamente o involontariamente, l’ha provocato (Treccani). torna al rimando a questa nota
  36. Par ragionevole constatare un carattere assai generale – violazione di un codice di attese e risposte – che serra «in modi importanti e complessi /indignazione/ e /timore/ tra gli Ifaluk; /rabbia/ e /vergogna/ tra gli Ingolot e i Tahitiani; /furore/ e /ammirazione/ tra i Kaluli (Lutz-White 1986:416). torna al rimando a questa nota
  37. Nelle tipologie dei segni musicali condotte sullo schema peirciano (Dowling-Harwood) l’indice – associazione condizionata – non è specificamente musicale e il simbolo sembra limitato alla posizione sintattica nel fraseggio allo scopo di creare o frustrare delle attese. È invece l’icona o il formato «iconico» che ha tratti semi-simbolici: cioè una correlazione di categorie tensive omologabili sul piano del significante e del significato: «Il fluire e il rifluire di tensione e di rilassamento in musica rispecchia la forma di tensioni e di rilassamenti propri dell’ambito emotivo». In questo senso, «la musica rappresenta la forma dinamica delle emozioni e non il loro specifico contenuto» (1986:183). Naturalmente ciò non è proprio alla musica ma a tutti i processi: perché non la danza, che per Coquet è la miglior metafora dell’enunciazione? torna al rimando a questa nota
  38. Borges azzarda che la parola è superiore alla musica, dato che la contiene. torna al rimando a questa nota
  39. Come si è letto: gli schemi prosodici riflettono dunque la varietà e la unità degli atteggiamenti che il nome collera riassume. Il che è vero anche per le altre emozioni (Fónagy 1983:127). Vengono avanzati quattro modelli di /collera/: (0) il caso normale caratterizzato da intervalli ridotti di tono; (I) lo scoppio di collera, con accento in fine di frase ed esplosione; (II) quello con accento principale all’inizio di frase – di preparazione allo scoppio; (III) quello a tono immobile orizzontale – collera dominata da carattere volontario e antagonistico, come negli ordini militari.
    Il passaggio del vaglio semiotico cattura intuizioni e descrizioni più fini: ad esempio le osservazioni di Freeman (1983:300-301) sui capi Samoani nel corso di tenzoni oratorie. Quando si arrabbiano diventano sempre più educati finché, raggiunte elaboratissime vette di cortesia e d’urbanità, precipitano nell’aggressione violenta. Sembra dunque che la collera prosodicamente controllata corrisponda al momento che precede la rottura: istante di alta regolazione interattiva che simula e tenta di mantenere le attese avverte della loro infrazione e minaccia l’innesco della sequenza seguente. torna al rimando a questa nota
  40. «Quando si tratta di porre in relazione il mondo e l’io non possiamo accontentarci di una psicologia della forma». torna al rimando a questa nota
  41. È sua, a nostro avviso, la più acuta attenzione a questo «specifico» dell’ira. Che viene dalla riflessione sulla sensazione e la loro intensità qualitativa (comparabile e non misurabile) e sulle tensioni emotive provocate dai contrasti di pensiero che possono condurre in casi estremi all’insania. Collingwood non è nuovo ad imprese semiotiche: si pensi al peso della sua riflessione sui fenomeni d’enunciazione (v. Ducrot). torna al rimando a questa nota
  42. Fureur: «folie poussant à des violences, délire de l’inspiré, passion sans misure créant un état voisin à celui de la folie» (Petit Robert). torna al rimando a questa nota
  43. Si pensi al furore dell’Aiace di Sofocle, alla sua de-voyance strumento di una più alta lucidità, «l’avventura della forza è sottesa da una avventura della conoscenza» (Starobinski 1974:48); o a Cuchullain, l’eroe delle saghe irlandesi che torna sotto le mura della città assediata, per mostrare al nemico la calma bellezza di un sembiante già sfigurato nell’úbris della battaglia; infine al fatto che il guerriero indoeuropeo, che la città purga costantemente del suo furore combattente, ha facoltà di innovare le categorie giuridiche, come il matrimonio (Dumézil). torna al rimando a questa nota
  44. Secondo Goffman noi parliamo fondamentalmente per non sembrare – e, aggiungeremmo, per non sentirci – pazzi. torna al rimando a questa nota
  45. Il corpo proprio è posto da Ricoeur come l’organo di mozione volontaria e come un campo di motivazioni, ma insieme rubricato sotto il segno dell’«involontario assoluto». Ci offre una «veduta di frontiera» indecidibile tra il soggetto e l’oggetto su di un organo non oggettivabile della percezione e dell’azione (1977:169-173). torna al rimando a questa nota
  46. Per Petitot: «… i semi della semantica fondamentale sono […] contenuti pulsionali e inconsci […] con cui il percorso generativo descrive […] il processo di soggettivazione» (Greimas-Courtés 1986:174-175). torna al rimando a questa nota

Bibliografia

ABELSON, R.
1975
«Concepts for representing mundane reality in plans», in D.G. Bobrow – A. Collins (eds.) Representation and understanding; Studies in Cognitive Science, New York, Academic Press.
BARWISE, J.
1986
«On the Circumstantial Relation between Meaning and Content», in U. Eco – M. Santambrogio – P. Violi (a cura di) 1986.
BARWISE, J. – PERRY, J.
1983
Situations and attitudes, Cambridge, Mass., MIT Press.
BAILEY, F.G.
1983
The tactical use of passions: an essay on power, reason and reality, Ithaca, Cornell Univ. Press. BERTRAND, D. (a cura di)
1986
Les passions. Explorations sémiotiques, Actes Sémiotiques – Bulletin XI, 39.
BEYM, R.
1986
«Phonetics and Emotion», Quaderni di Semantica I. 1.
BOLINGER, D.
1986a
«Intonation and Emotion», Quaderni di Semantica I. 1.
1986b
Intonation and its parts, Stanford Univ. Press.
BRIGGS, J.L.
1970
Never in anger: Portrait of an Eskimo family, Cambridge, Harvard Univ. Press.
BOGUSLAWSKI, A.
1970
«On semantic primitives and meanigfulness» in A.J. Greimas – R. Jakobson ecc., Sign, Language and Culture, The Hague, Mouton.
CASTELFRANCHI, C.
1988
Che figura. Emozioni e immagine sociale, Bologna, Il Mulino.
COLLINGWOOD, R.G.
1942
The New Leviathan, Oxford, Clarendon Press (trad. it. Milano, Giuffré, 1971).
D’ANDRADE, R.
1987
«A Folk Model for Mind» in D. Holland – N. Quinn 1987:112-148.
D’ANDRADE, R. – EGAN, M.
1974
«Colour and Emotion», American Ethnologist 1.
DE SOUSA, R.
1980
«The rationality of emotions», e «Self-deceptive emotions», in A.O. Rorty (a cura di) Explaining emotions, Berkeley, Univ. of California Press.
1987
The rationality of emotion, Cambridge, Mass., MIT Press.
DEVOTO, G. – OLI, G.C.
1971
Dizionario della lingua italiana, Firenze, Le Monnier.
DOWLING, W.J. – HARWOOD, D.L.
1986
Music cognition, London, Academic Press.
DUMÉZIL, G.
1969
Heur et malheur du guerrier, Paris, PUF.
DUPRIEZ, B. (a cura di)
1980
Gradus. Les procedés littéraires, Paris, 10/18.
ECO, U.
1986
«On Truth. A Fiction», in U. Eco – M. Santambrogio – P. Violi (a cura di) 1986.
ECO, U. – SANTAMBROGIO, M. – VIOLI, P. (a cura di)
1986
Meaning and Mental Representations, Versus 44/45.
EKMAN, P.
1984
«Expression and the nature of emotion», in K.R. Scherer – P. Ekmann (a cura di) 1984.
EKMAN, P. – LEVENSON, R.W. – FRIESE, W.V.
1973
«Autonomic nervous system activity distinguishes among emotions», Science 221 (4616).
FABBRI, P.
1968
«Linguaggio sociologico e semantica strutturale», Rassegna italiana di Sociologia IX. 2.
FABBRI, P. – SBISÀ, M.
1980
«Models for pragmatic analysis», Journal for Pragmatics IV. 4.
1985
«Appunti per una semiotica delle passioni», Aut Aut 208.
FABBRI, P. – PEZZINI, I. (a cura di)
1987
«Affettività e sistemi semiotici. Le passioni nel discorso», Versus, 47-48, Milano, Bompiani.
FÓNAGY, I.
1983
La vive voix, essais de psycho-phonétique, Paris, Payot.
1986
Fonetica ed emozioni, tavola rotonda (R. Beym, D. Bolinger, I. Fónagy, M. Ritchie Kay), in Quaderni di Semantica, 2.
FONTANILLE, J.
1986
«Le tumulte modal: de Ia macrosyntaxe à la micro-syntaxe passionelle», in D. Bertrand (a cura di) 1986.
FOUCAULT, M.
1984
Le souci de soi (vol. 2), L’usage des plaisirs (vol. 3), Paris, Gallimard (tr. it. Milano, Feltrinelli, 1986).
FREEMAN, D.
1983
Margaret Mead and Samoa, Cambridge, Harvard Univ. Press.
GEERTZ, C.
1973
«Person, Time and Conduct in Bali: An Essay in Cultural Analysis», in The Interpretation of Cultures, New York, Basic Books (tr. it. Bologna, Il Mulino, 1987).
GENTIS, R.
1980
Leçons du corps, Paris, Flammarion.
GOFFMAN, E.
1971
«Segni di legame» in Relations in Public, New York, Basic Books (tr. it. Milano, Bompiani, 1981).
GREIMAS, A.J.
1974
«Pratiques et langages gestuels», in Du sens l, Paris, Seuil (tr. it. Milano, Bompiani, 1974).
1976
Sémiotique et Sciences Sociales, Paris, Seuil.
1983
«La colère», in Du sens II, Paris, Seuil (tr. it. Milano, Bompiani, 1984).
1986
«De la nostalgie. Essai de sémantique lexicale», in D. Bertrand (a cura di) 1986.
1987
De l’imperfection, Paris, P. Fanlac (tr. it. Palermo, Sellerio, 1988).
GREIMAS, A.J. – COURTÉS, J. (a cura di)
1986
Sémiotique. Dictionnaire raisonné de la. théorie du language II, Paris, Hachette.
HOLLAND, D. – QUINN, N. (a cura di)
1987
Cultural Models in Language and Thought, Cambridge, Cambridge Univ. Press.
HUTCHINS, E.
1980
Culture and Inference: a Trobriand case study, Cambridge, Mass., Harvard Univ. Press.
JOHNSON, A. & O. – BAKSH, N.
1986
«The colours of emotions in machguenga», American Anthropologist 88.
JOHNSON, M.
1987
The body in the mind, Chicago, University of Chicago Press.
KUNO, S.
1987
Functional Syntax, Chicago, Chicago Univ. Press.
KUNO, S. – KARABUKI, E.
1977
«Empaty and Syntax», Linguistic Inquiry 8.4.
LAKOFF, G.
1987
Women, Fire and Dangerous Things, Chicago, University of Chicago Press.
LAKOFF, G. – JOHNSON, M.
1980
Metaphors we live by, Chicago, Univ. of Chicago Press. (tr. it. Milano, Espresso Strumenti, 1982).
LAKOFF, G. – KOVEKSES, Z.
1987
«The cognitive model of Anger inherent in American English» in D. Holland – N. Quinn (a cura di) 1987.
LÉVI, R.A.
1973
Tahitians: Mind and experience in the society Island, Chicago, Univ. of Chicago Press.
LEVINAS, E.
1980
Totalité et infini, La Haye, M. Niyhoff (tr. it. Milano, Jaka Book, 1980).
LUTZ, C.
1983
«Parental goals, ethnopsycology, and the development of emotional meaning», Ethos 11.4.
1986
«Emotion, Thought and Estrangement: Emotion as a cultural category», Cultural Anthropology, 1. 3.
1987
«Goals, events and understanding in Ifaluk emotion theory », in D. Holland – N. Quinn (a cura di) 1987:290-312.
1988
Unnatural Emotions, Chicago, University of Chicago Press.
LUTZ, C. – WHITE, G.M.
1986
«The anthropology of emotions», Annual Review of Anthropology 15.
MALKIEL, I.
1988
Prospettive della ricerca etimologica, Napoli, Liguori.
NISSENBAUM, H.F.
1985
Emotion and Focus, Center for the Study of Language and Information.
PETITOT, J.
1986
«Prégnance» in A.J. Greimas – J. Courtés (a cura di) 1986.
QUINN, N. – HOLLAND, D.
1986
«Culture and Cognition», in D. Holland – N. Quinn (a cura di) 1987:3-40.
RICOEUR, P.
1977
La Sémantique de l’action, Paris, CNRS (tr. it. Milano, Jaka Book, 1986).
ROBERT, P.
1967
Dictionnaire alphabétique et analogique de la langue française, Paris, Robert.
ROSALDO, M.Z.
1980
Knowledge and passion: Ilongot notions of self and social life, Cambridge, Cabridge Univ. Press.
SACKEIM, H.A. – GUR, R.C.
1978
«Lateral asymetry in intensity of emotional expression», Neuropsychologia 16.
SARTRE, J.P.
1938
Esquisse d’une théorie des émotions, Paris, Hermann (tr. it. Milano, Bompiani, 1962).
SCHANK, R. – KASS, A.
1986
«Knowledge Representation in People and Machines», in U. Eco – M. Santambrogio – P. Violi (a cura di) 1986.
SCHACHTER, E. – SINGER, J.
1962
«Cognitive, social and psychological determinants of emotional states», Psychological Review 69.
SCHERER, K.R.
1977
«Affektlaute und vocale embleme», in R. Posner – H.P. Reinecke (a cura di) Zeichenprocess, Wiesaden, Athenaion.
1980
«The functions of nonverbal signs in conversation» in R.S. Clair – H. Giles (a cura di) The social and psychological contexts of language, Hillsdale N.J., Erlbaum.
1984
«On the nature and function of emotion. A component process approach», in K.R. Scherer – P. Ekmann (a cura di) 1984.
SCHERER, K.R. – EKMANN, P. (a cura di)
1984
Approaches to Emotion, Hillsdale N.J., Erlbaum.
SCHIEFFELIN, E.L.
1983
«Anger and Shame in the Tropical Forest», Ethos («Self and Emotion») 11.3.
SOLOMON, R.C.
1977
The Passions, New York, Anchor Press/Doubleday.
SPERBER, D. – WILSON, D.
1986
Relevance, Communication and Cognition, Cambridge, Harvard Univ. Press.
STAROBINSKI, J.
1974
Trois fureurs, Paris, Gallimard (tr. it. Milano, Garzanti, 1978).
SWEETSER, E.E.
1987
«The definition of Lie», in D. Holland – N. Quinn (a cura di) 1987.
VERDIER, R. – POLY, P. – COURTOIS, G. (a cura di)
La Vengeance vol. 1 (1980), e vol. 2 (1986) a cura di R. Verdier; voI. 3 (1984) Vengeance et pouvoir en quelques societés extra-occidentales, a cura R. Verdier e J. – P. Poly; voI. 4 (1984) La vengeance dans la pensée occidentale, a cura di G. Courtois, Paris, Cujas.
WIERZBICKA, A.
1988
«L’amour, la colère, la joie, l’ennui – la sémantique des émotions dans une perspective transculturelle», Langages 23.89.
1986
«Human Emotions: Universal or Culture-specific», American Anthropologist 88.
WRIGHT MILLS, C.
1963
«Azioni situate e vocabolari di motivi», in Power, Politics and People, New York, Oxford Univ. Press. (tr. it. Sociologia e conoscenza, Milano, Bompiani, 1971).
Print Friendly, PDF & Email

Lascia un commento