PolliceVersus


Da: E|C, rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici on-line, 2008.
Nota a Elio Franzini, I simboli e l’invisibile. Figure e forme del pensiero simbolico, Saggiatore, Milano, 2008.


Ogni Libro, si sa, contiene un Antilibro che replica e ribatte al primo in forma esplicita o sottintesa.

È il caso de I simboli e l’invisibile, di Elio Franzini, estetologo milanese che ci propone numerosi pensieri sulle “figure e forme del pensiero simbolico”. Nel sommario del Libro, l’autore si propone “una fenomenologia del simbolico” e “l’arte e le forme del simbolico”. Quindi di “attraversare il simbolo” e i suoi stili con una particolare attenzione allo statuto dell’immagine – dalle pratiche iconoclaste fino agli artisti della modernità.

Nello stile che è proprio al discorso filosofico, il Libro si interroga sul tragico, sul dionisiaco e sulla povertà della bellezza. Per questo evoca un rumoroso “dialogo di morti”: da Plotino a Merleau Ponty, da Diderot, Rousseau, Goethe fino ad Hegel, attraversando Kant, Nietzsche e Cassirer, fino a Husserl e Valéry. Quanto alle arti, suscita insieme Carpaccio e Klee, Leonardo e Wagner, Cézanne e Malevic. E quant’altri.

L’Antilibro invece obbedisce a due figure retoriche latenti e quasi invisibili: una “strettoia” ulipista: la Liponimia e un raro tropo: l’Anacronismo.

(i) Liponimia
In un Libro dedicato allo spirito che guida l’umano verso una ricerca di senso, ci si potrebbe aspettare un riferimento purchessia, anche erratico ed erroneo, alla Semiotica, disciplina dei segni per gli uni e, per altri, dei sistemi e processi di significazione.
Ebbene no! Con un impegno degno di una contrainte dell’OULIPO, il termine non appare mai nelle duecentottanta folte pagine del Libro. Si tratta evidentemente di Liponimia, una variante del lipogramma proposta da G. Perec, nella quale ci si obbliga ad evitare l’impiego di certi nomi. Una Sparizione, che anziché riguardare una lettera, porta sul livello lessicale: come scrivere un romanzo d’amore senza usare mai la parola “sentimento”.
Per la precisione il vocabolo “semiotico” appare, ma solo come aggettivo in cinque rare occorrenze e “Semiologia” figura a pagina 229, nell’Epilogo: un’hapax che nulla toglie all’impegno e all’acribia profusi nel mantenersi al di fuori dal problema.
Nel profluvio simbolico troviamo – rari Nantes – una ventina di occorrenze della parola “Segno”, talora attribuiti a personaggi raccomandabili come Lessing (segni visibili, naturali, arbitrari), Goethe (segni estetici), Herder (segni manuali), Deleuze (segni liberi). Ma si tratta di caratterizzazioni insignificanti come in Formaggio, Arte : segni informativi – polisituazionali e univoci – e segni comunicativi – unisituazionali e polivoci (pag. 60). O di semplici sinonimi di simbolo: per Boileau il segno infallibile del sublime è il simbolo (pag. 214).
Oppure si tratta di antonimi. A differenza del simbolo il segno è “incapace di sormontare la difformità tra espressione e significato” (pag. 150). Il simbolo infatti è un segno qualificato il cui “senso è irriducibile ad un semplice ed univoco codice” (pag. 67); il simbolo è “gioco che non si riduce a scambi tra segni linguistici e contingenti forme di vita” (pag. 235). Insomma il Simbolo va accuratamente dis-occultato da “visioni semiotiche” (pag. 55).
Il tropo liponimico è condotto da Franzini fino al punto da imporre qualche strettoia al pensiero semiotico. Peirce – citato, con Croce, “più per evitare equivoci verbali che per convinzione teoriche” – viene accreditato non già dell’arcinota tripartizione segnica tra indice, icona e simbolo, ma di “tre tipi di simboli: iconici, motivati e immotivati” (pag. 60). È il gioco delle tre carte, ma contrainte obblige!
Insomma la Semiotica e la linguistica, discipline ingrate, non sono annullabili, cioè per dirla coi giuristi, suscettibili di discussione e di effetti non opponibili a terzi in buona fede. Sono nulle e non avvenute. Vi sono risparmiati, nell’indice analitico, linguisti e semiotici come Saussure o Eco, Lévi-Strauss, Hjelmslev, Barthes, Greimas, Benveniste o Lacan. Neppure R. Thom, anche se nel Libro si discetta a dovizia di morfogenesi del simbolo.

(ii) Anacronismo
La Sparizione semiotica dal pensiero del simbolo è scrupolosamente condotta, ma comporta una figura retorica inattesa. L’Anacronismo, tropo della inconsistenza cronologica, anacoluto temporale impiegato dalla letteratura fantastica e in generi desueti come il dialogo tra morti (e vivi) di epoche disparate.
Questa figura Antilibresca provoca però qualche danno collaterale: incripta o sottace alcuni dei risultati più interessanti del pensiero semiotico nelle arti e nella filosofia. Non solo teorici dell’arte come Gombrich e Shapiro, interessati più di Hauser e Arnheim alla semiotica. Ma soprattutto filosofi che vanno da Merleau Ponty (Signes, 1960) a Ricoeur, ispirato dalla semiotica narrativa, fino ad Apel. Una sorte particolare tocca a Deleuze, pur ampiamente citato nel Libro. Sparisce il suo progetto di una “Semiotica pura” descrittiva del reale, la sua complessa tipologia di segni visivi, tra cui il diagramma, la riarticolazione segnica dell’Etica di Spinoza, e cosi via.
Franzini mette a tacere anche la voce “Simbolo” dell’Enciclopedia Einaudi, vol. 12, 1981 (oggi in Semiotica e filosofia del linguaggio, Einaudi, Torino, 1984), dove Eco ha proceduto a una disanima accurata della polisemia del termine. Riprendiamone qui la conclusione: “… dietro ad ogni strategia del modo simbolico, esiste a legittimarlo una teologia…”. E ancora: ” Un modo produttivo di guardare semioticamente ad ogni apparizione del modo simbolico è: da quale teologia è legittimato?
Quella che anima il Simbolo e l’invisibile ci è indicata da una spia testuale. Franzini si appella alla “realtà estetica e al senso spirituale” (pag. 114), a partire da un testo di Baudrillard, Le complot de l’art, 1997, che denunciava l’ironica dittatura delle immagini e dichiarava “nulli” i prodotti sentimentali e pubblicitari della commedia dell’arte contemporanea. Realtà e Spiritualità sono però l’ultimo dei pensieri “semiotici” di Baudrillard. Nel Complot de l’art, afferma: “Quando il Nulla affiora nei segni, quando il Niente emerge nel cuore stesso del sistema dei segni, questo sì che è l’evento fondamentale dell’arte. L’operazione poetica consiste proprio nel far sorgere il Niente dalla potenza del segno – non la banalizzazione o l’indifferenza del reale, ma l’illusione radicale”. E questa è la “strategia fatale dell’immagine”.

Nel Libro troviamo infine una prolungata allegoria. Si tratta dello “sguardo del cane” che, nel quadro di Carpaccio a S. Giorgio degli Schiavoni di Venezia, punta verso l’alto, nella stessa direzione ispirata e metafisica del Santo teologo. Il cane è un animale che per Platone ha “un tratto, oserei dire, veramente filosofico” (Repubblica, II, 375° – 376b): mite con gli amici e feroce con l’estraneo. Abbiamo capito! Il semiologo è guardato in cagnesco! Che resti fuori dall’uscio dell’estetica del simbolo, ma attenzione! Anche il cane rischia come Talete, di cadere nei pozzi di senso, privo com’è di adeguate osservazioni linguistiche e semiotiche.
Suvvia! Presti orecchio il filosofo al latrato semiotico1 del suo cane monocolo!


Note

  1. Sta in U. Eco, Dall’albero al labirinto. Studi storici sul segno e l’interpretazione, Bompiani, Milano, 2007, “Latratus canis”, § 4. torna al rimando a questa nota
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