Profezie


Con Omar Calabrese, Carte Semiotiche, Annali 2, dicembre 2014, pp. 150-180.


1. Far pipì sulla Storia.
Il “Progetto Pompei” secondo Renzo Piano

Durante una cerimonia svoltasi a Roma all’Accademia dei Lincei lo scorso 14 dicembre, l’Ibm ha consegnato al presidente Cossiga un monumentale lavoro dedicato ai “Giacimenti culturali”. Avvertiamo il pubblico che nell’occasione l’onorevole De Michelis non c’entra nulla: di lui e stato ripreso solo lo slogan (orribile) che paragona la cultura al petrolio in quanto ricchezza del Paese. Ci interessa invece attirare l’occasione su una delle quattro parti che compongono il lussuoso volume (le altre essendo firmate nientemeno che da Umberto Eco, Federico Zeri e Augusto Graziani rispettivamente sulla natura del bene culturale, sullo stato delle belle arti in Italia, sul loro valore economico).
La parte che ci interessa consiste in un progetto dell’architetto Renzo Piano, che di beni culturali se ne intende, avendo firmato il più controverso museo contemporaneo, il Beaubourg di Parigi. Piano ha tentato di “sistemare” uno dei “giacimenti” più importanti che ci siano in Italia, gli scavi di Pompei. E lo ha fatto secondo quattro idee che non ci sembrano da sottovalutare. La prima è che il visitatore di massa di Pompei in realtà non sa nulla della città distrutta nel primo secolo dopo Cristo. Tanto vale insegnargli allora qualcosa prima dell’ingresso, e con il linguaggio spettacolare dei media a cui è abituato. Ecco allora una sezione didattica, un teatro in cui si proietti un film sugli ultimi giorni pompeiani magari diretto da Spielberg, una selezione di copie mirabili dei principali capolavori (per altro pochi) ritrovati nel tempo. In altri termini: ecco un museo immaginario, che però funzionerà meglio di uno vero e non metterà a repentaglio i reperti.
La seconda idea è che Pompei è una città morta, e però è più viva di quelle vere, perché ci stanno in media 8 mila persone in condizioni disagiate (camminano, hanno fame, hanno bisogno di orientamento, devono fare pipì). Insomma, più di un agglomerato urbano reale Pompei ha bisogno di servizi. Che però è difficile fare, perché non si può intervenire, mettiamo, sulla Casa dei Vettii installandoci dei gabinetti come nulla fosse. Piano risolve il tutto incollando sul borgo reale una seconda struttura trasparente, in vetro, che aiuti il pubblico nei suoi bisogni, ma non cambi il paesaggio sottostante.
Quanto ai reperti (terza idea), non li si fanno vedere. A Pompei infatti, che era un luogo dove la vita quotidiana è stata improvvisamente bloccata in un istante perenne, le “cose” sono quasi tutte uguali e non dotate di valore artistico, ma storico. Per non sciuparle e tenerle per gli studiosi e per l’eternità, le si mettono in enormi contenitori-cassaforte, proibiti al turista e al passante. Saranno la imperitura memoria storica di una civiltà.
L’idea più bella è però la quarta. Sappiamo bene che gli scavi durano da più di un secolo e mezzo. Molti si lamentano perché non finiscono mai. Ma Piano dice: errore!, la verità è che gli scavi, come gli esami di De Filippo, non devono finire mai! Poiché quel che c’è più o meno lo si conosce già, il bello degli scavi è che essi rimangano costantemente in corso, e anzi siano messi in piena visibilità. Interessante per il visitatore non è riportare alla luce un mattone che è uguale alle altre migliaia. Ma mettere in luce il lavoro meraviglioso dell’archeologo. Et voilà: un grande serpentone trasparente e mobile “contiene” gli archeologi all’opera, e alcune strategiche passerelle mostrano all’inclito e al beota come si fa l’archeologia. Il vantaggio è grande, perché il pubblico potrà godere dello straordinario spettacolo di un evento scientifico nel suo farsi (un po’ come nei musei americani della scienza, dove si esibiscono esperimenti in corso).
Che c’entra tutto ciò con le profezie? Be’, a noi pare chiaro che il progetto immaginario di Renzo Piano mette in luce alcuni scenari futuri. Per esempio: che la cultura di massa può appropriarsi completamente di quella storica solo falsificandola e producendone dei simulacri più maneggevoli.
Oppure: che l’esigenza reale della divulgazione contrasta definitivamente con l’altra esigenza reale, quella di non buttare al vento un patrimonio esistente; e che pertanto, per rendere davvero di massa la conoscenza della tradizione, occorre passare per il paradosso di nascondere quest’ultima alle folle. E ancora: che il feticcio del patrimonio storico e della sua conservazione non può farci dimenticare che sempre di più sulla storia faremo pipì, e avremo bisogno di modernità. E infine: che oggi il bello del sapere non è più vedere un prodotto finito per ammirarlo, ma guardare dentro la scoperta per eccitare la meraviglia. Uno stupendo futuro di erotismo e pornografia culturale è alle porte, e per fortuna stavolta non è peccato.

(“Panorama”, 15 gennaio 1989)

2. Sette anni inutili.
Il fatidico ’92. L’apocalittico Duemila. E in mezzo…

Arrivano nuove avvisaglie sulla prossima fine del mondo. In un’altra occasione (“Panorama” 1179) ne avevamo intravisto dei segni spaziali, cioè il fatto che non si potessero più disegnare nuove carte geografiche dopo la confessione di Gorbaciov che le mappe sovietiche sotto Stalin erano falsificate. Questa volta i segni sono invece temporali: abbiamo l’evidenza che la fine del mondo ha persino una data, il 1992. A dire la verità, non ce ne saremmo neppure accorti senza la lettura di un bel libro di un semiologo sovietico, Boris A. Uspenskij, di cui l’editore Bompiani ha recentemente tradotto Storia e semiotica. Fra le pieghe del volume, quasi per caso, abbiamo notato un dettaglio: che nella Russia del Cinquecento tutti i libri, gli atlanti, le enciclopedie (se così si possono chiamare le descrizioni sui saperi esistenti in quell’epoca) non aggiungevano alcuna novità che oltrepassasse l’anno della scoperta dell’America. Quasi che il progresso della conoscenza si arrestasse a quell’evento fatidico che fu la scoperta di Colombo. Col viaggio delle tre caravelle, insomma, si credette che l’universo fosse compiuto, e se ne potesse attendere solo la fine.
Qualcosa di simile e oggi sotto gli occhi di tutti. Il 1992 sta assumendo lo stesso ruolo. Guardiamo i giornali. Pare che il mondo intero si appresti alla scadenza del centenario colombiano, nel quale saranno allestite le piu grandi esposizioni mai viste prima, con sede a Genova, Siviglia e Chicago. In Spagna, addirittura, la città andalusa conosce un fermento e un’attesa che non viveva più dai tempi degli arabi. Una commissione di saggi sta sperimentando l’allestimento della metropoli, un gruppo di esperti di comunicazione sta approntando una rete televisiva regionale, che si chiamera Canal Sur, e la stessa università locale verrà ingrandita per la bisogna. Per restare sempre alla Spagna, comunque, l’altra meta della nazione iberica lavora invece alle Olimpiadi di Barcellona, che si terranno nello stesso anno. E anche qui: opere sportive gigantesche porteranno la firma degli architetti più noti, da Gregotti a Foster; si rifaranno i musei (uno siglato da Gae Aulenti); si produrranno mostre dei massimi artisti moderni per l’occasione (Picasso, Dalì, Mirò, Gonzalez). E non è finita: se si prendono le pagine di politica ed economia dei quotidiani e dei periodici europei, si vedrà che una notizia su tre è accompagnata dal contrassegno del 1992, orizzonte comune dell’unificazione europea, atteso con un misto di speranza e preoccupazione. Speranza di un futuro migliore, paura in ciascuna nazione di non arrivare attrezzati e di farsi fregare dagli altri (bello spirito unificatore!). Un solo Paese fa differenza nel contesto europeo, la Francia. Per i transalpini, infatti, la fine del mondo conosciuto coincide con il centenario della Rivoluzione francese, cioè questo 1989, al quale si fa arrestare ogni ulteriore progresso dello scibile umano. Ma perché tanta importanza consegnata alle date fatidiche? La nostra opinione è che ciò sia omogeneo e funzionale al meccanismo di produzione dei media. I media hanno bisogno di oggetti simbolici, e niente meglio delle simmetrie involontarie degli anniversari (fine di decenni; secoli, millenni) si presta alla mistica del bilancio del passato o della previsione del futuro.
Riassumendo: il futuro pare arrestarsi fatalmente al 1992 e nessuno accenna a cosa accadrà il primo gennaio del 1993, data insulsa e di nessun interesse. Peraltro, dobbiamo profetizzare che dal 1993 avverra quel che è capitato quattrocento anni or sono nella Russia descritta da Uspenskij: si continuerà a parlare soltanto di ciò che il 1992 avrà provocato. E quanto durerà tutto ciò? Ma evidentemente fino alla successiva grande data fatidica, il 2000, che per il suo aspetto numerologico sarà ben più che una fine-secolo: sarà la scadenza della seconda Apocalisse. L’inizio del Terzo Millennio, infatti, non potrà che scatenare la rincorsa alle profezie millenaristiche, con l’ovvio corollario della prossima fine dell’universo. Ci rimarranno pertanto sette anni grigi e senza storia, nei quali probabilmente niente di notevole avverrà, schiacciati come sono dalla troppo ingombrante scadenza appena trascorsa e dal funesto cadere di un anno con tre zeri. Il trascorrere del tempo sarà fermato dagli eccessi del termine precedente e del termine successivo. A questo punto, allora, non ci resta che avanzare una modesta proposta, una riforma del calendario. Perché non abolire quei sette anni inutili, dal 1993 al 1999, e dal 31 dicembre 1992 passare direttamente al primo gennaio del 2000? Avremmo il vantaggio di iniziare subito il nuovo millennio con il segno della novità, senza quel grigio, oscuro, incerto limbo da attendere.

(“Panorama”, 29 gennaio 1989)

3. Dandy di questi giorni.
Dove va la pubblicità del futuro? Insegue Lord Brummel

Qualcuno, nei libri e sui giornali, sta cominciando a farci concorrenza. Vale a dire: sta cominciando a predire ogni sorta di futuro possibile. L’ultima profezia in ordine di tempo la leggiamo sul mensile dell’Alitalia, “Ulisse 2000”, quello che trovate gratuitamente nelle tasche degli aerei della compagnia di bandiera. Due personaggi di rilievo si cimentano nel predire come sarà la reclame del futuro. Uno è forse il più famoso creativo del mondo, Jacques Séguéla, francese, già noto per aver affermato che il solo terreno in cui lo slogan del ’68 “l’immaginazione al potere” abbia vinto è proprio la pubblicità. L’altro è un sociologo di Strasburgo, Abraham Moles, famoso soprattutto negli anni Sessanta per aver tentato di definire matematicamente che cosa sia l’estetica.
Le previsioni dei due esperti sono un po’ differenti fra loro. Dice infatti il “pratico” Séguéla che la pubblicità nel mondo occidentale non conoscerà declino. Anzi: eventualmente si estenderà in modo planetario anche a quei Paesi medio ed estremo orientali che ancora non la conoscono, e questo comporterà un ritorno di linguaggio e di immagini inusuali nei nostri Paesi. Inoltre, la velocità di comunicazione imporrà un cambiamento sempre più radicale di stile.
Vedremo per esempio la scomparsa dei messaggi che, pateticamente, ci dicono di comprare qualcosa, e alloro posto ci sarà una propaganda laconica, immediata, fatta di sensazioni ed emozioni, estetica (cioè puntata al bello) ed “estesica” (cioè puntata alla sensorialità). In questo senso, potremmo persino attenderci un ritorno del manifesto affisso sui muri, che è un “concentrato di comunicazione”. Il “teorico” Moles vede le cose quasi all’opposto. Lui, infatti, pensa che la pubblicità andrà scomparendo.
Con la crescita del mecenatismo, le aziende tenderanno a produrre direttamente gli eventi, piuttosto che reclamizzare prodotti. Con il diffondersi della televisione via cavo, la gente non accetterà più interruzioni pubblicitarie di programmi per i quali si paga. E persino il mondo pubblicitario sarà meno avido, quando si accorgerà che l’eccesso di comunicazione, minaccia la credibilità dei messaggi persuasivi.
Ebbene, in entrambi i casi siamo di fronte a due falsi profeti. Siamo certo d’accordo con Séguéla, soprattutto quando preannuncia l’avvento di una società (e pertanto di una pubblicità) laconica e libera da ogni funzionalismo.
Ma francamente questa non ci pare una profezia. È una constatazione. Dopo gli anni della reclame imperativa («Metti un tigre nel motore»), dopo quelli in cui si strizzava l’occhio all’arte («Chi vespa mangia le mele»), dopo quelli in cui, come diceva Jean Baudrillard, non si consumavano più prodotti ma la pubblicità dei medesimi (la “notte dei pubblivori”, “publimania”), siamo già in un’era in cui si inviano messaggi con sensazioni pure. Tocchiamo le cose con gli occhi, vediamo inebrianti profumi, guardiamo sapori prelibati, la vista si riempie di suoni.
La vita fatta di raffinate sensazioni ha un nome preciso. Si chiama “dandismo”, che non è solo sinonimo di “eleganza”, ma appunto è il compiacimento per l’edonismo fatto diventare moda. Ecco allora quale può diventare la profezia: ci stiamo avviando, proprio nell’era che tutti vogliono newtoniana e tecnologica, all’inseguimento di Lord Brummel.
E non è la haute couture a spingerei, e forse nemmeno la pubblicità: sono le comunicazioni a farlo. Non è forse vero che le nuove Grandi Firme dei giornali, della televisione, dell’editoria sono costituite sempre di più da dandy? E non è forse vero che programmi, supplementi, rubriche, best-seller puntano sul e divulgano il dandismo?
Quanto alla fine della pubblicità prevista da Abraham Moles, beh questa è invece proprio una profezia sbagliata. È più semplice predire che, cambiando le comunicazioni attuali, cambierà anche la réclame.
Consigliamo di rileggere a tal proposito un piccolo capolavoro di Philip Dick, lo scrittore di fantascienza autore del soggetto di Blade Runner. In Ubik mio signore ci si immagina un mondo in cui i pubblicitari, per aggirare il rigetto di annunci da parte del pubblico, inventano delle piccole cimici parlanti, che penetrano nelle auto e, prima di essere schiacciate, fanno in tempo a urlare: «Comprate il sapone Wash!». Forse un mondo così non fa piacere pensarlo. Ma noi da buone Cassandre ne temiamo l’avvento.

(“Panorama”, 12 febbraio 1989)

4. Guida in folle.
I manuali dilagano in libreria. Ecco i titoli che ci aspettano

Sono alcuni anni, ormai, che nell’editoria europea e americana imperversano i manuali. Non i manuali di una volta, quelli destinati a insegnare un mestiere, come accadeva nell’Ottocento con le enciclopedie popolari composte di vol umetti singoli su come fare il fabbro, l’elettricista, le operazioni aritmetiche, le riparazioni idrauliche. E nemmeno i manuali degli anni Cinquanta e Sessanta, quelli “colti” di Que sais-je in Francia, o della Feltrinelli in Italia. L’ultima stagione ha soprattutto fatto proliferare manuali di comportamento in pubblico. Come capire la psicologia della gente, come rendersi simpatici, come avere successo in società, come diventare un bravo manager, come vincere a carte, come capire le stelle, come raccontare le barzellette.
Nulla di male, naturalmente. Osserviamo, soltanto, che il manuale di un tempo era destinato a divulgare un saper fare. I nuovi manuali, invece, insegnano a saper essere, ovvero presuppongono che la riuscita sociale non dipenda da una competenza attiva, ma da un modo di esistenza. Socialmente parlando, tutto ciò non è un buon segno. La coesione e l’identità, infatti, dipendono sempre meno dalle azioni, e sempre di più dal gradimento altrui. La riprova è che a nessuno interessa saper riparare un rubinetto, ma molti conoscono a menadito le regole dell’etichetta sanno come organizzare un party, si allenano in esercizi di sorriso, simpatia e carezze (vedere, per esempio, l’articolo di Mario Carulli sulle scuole di psicologia transazionale in voga in America e adesso anche in Italia, “Panorama” 1191). I contenuti divulgativi sono sempre più curiosi e marginali. Per esempio, durante le feste è uscito da Mondadori un divertente Come scegliere i regali di Natale. È imminente la traduzione di un libro che ha fatto scandalo in Francia, il Baedeker delle sostanze “legali” per tenersi su di giri. In America c’è un’ondata di vademecum per la buona conversazione, e già da tempo circolano agili bigini per diventare uno scrittore famoso.
Ciò vuol dire che quello che rispondeva a un bisogno sociale, sia pure negativo, come la richiesta di integrarsi in un mondo sempre più difficile a causa della sua frammentazione, è diventato un surplus, un optional, un gioco. I mass media lavorano spesso così: trovato un filone, rapidamente lo consumano facendolo diventare poi di maniera. Nel nostro caso, prima arrivano i manuali di comportamento generale, dopo quelli di comportamento specializzatissimo e ai limiti dell’assurdo.
Ma, se le cose stanno così, è facile giungere a una previsione. Passato il momento del manierismo, arriveremo a delle forme barocche della manualistica, che proporranno stili di vita controsenso, contronatura, controcorrente. Noi abbiamo preparato una lista di best-seller prossimi venturi, che generosamente affidiamo a chi voglia scriverli al posto nostro.
Con buona pace di Umberto Eco, profetizziamo un Come copiare una tesi di laurea per studenti che vogliano finire l’università in fretta, da inserire magari nella stessa collana di Come annullare un compito in classe, destinato a professori in sciopero, e di Guida alla cattiva ortografia, buono per studenti medi innamorati di Luciano Rispoli. Sul versante della pedagogia offriamo un Manuale per lo sterminio dei genitori, adattissimo per pargoli fino a otto anni cresciuti nelle più moderne teorie educative. Agli zoofili pentiti potrebbe essere indirizzato un Come far soffrire il proprio cane, o un più raffinato Come perdere il proprio ippopotamo in autostrada, visto che il fenomeno si sta diffondendo (“Corriere della sera”, domenica 5 febbraio). Dal punto di vista sanitario c’è da scegliere: Come diffondere un’epidemia, per gli oppositori di Carlo Donat Cattin, Guida al bambino denutrito per i sabotatori di omogeneizzati, Le meraviglie dello scorbuto per navigatori solitari. Sul galateo, poi, un titolo sicuro: L’arte di mettersi le dita su per il naso, raccomandabile a chi sia stanco di frequentare salotti.
Dopodiché, forse si potrà ricominciare da zero, chissà, anche da un buon Bignami di storia della filosofia, soprattutto diverso da quelli di Luciano De Crescenzo.

(“Panorama”, 26 febbraio 1989)

5. Clonégalitée.
La scienza riuscirà là dove fallirono la rivoluzione e la ghigliottina

Il bicentenario della Rivoluzione francese continua a imperversare e questo sarebbe un ottimo motivo per non occuparcene ulteriormente: si sfugge al banale solo evitando l’inflazione informativa. Senonché un prossimo evento celebrativo parigino induce a qualche riflessione profetica.
Nelle prossime settimane si inaugura al Conservatoire des Arts et Métiers una mostra su Scienza e Rivoluzione. Val la pena rammentare, fra l’altro, che il Conservatoire fu voluto dai rivoluzionari che mostrarono così un tratto caratteristico di ogni sommovimento sociale, quello di essere contraddittoriamente conservatore e vandalico nei confronti della cultura. Nell’esposizione compariranno tutte le grandi innovazioni del periodo giacobino. Si celebreranno il chimico Lavoisier e l’Abbé Gregoire, uno dei primi linguisti moderni, passando per il dottor Guillotin, celebre per lo strumento di morte che da lui prende il nome.
Uno storico dell’arte, Daniel Arasse, ha studiato brillantemente la storia della ghigliottina, dimostrando in un eccellente libro alcune cose fondamentali, come il fatto che l’apparecchio in realtà esisteva anche prima e che la vera invenzione del dottor Guillotin fu di applicarla alla pena capitale, attuando così simbolicamente alcuni principi rivoluzionari. Per esempio, la fraternità: infatti la ghigliottina elimina la sofferenza e dunque esprime bontà e tolleranza (Guillotin fu visto per molto tempo come un benefattore dell’umanità, tanto è vero che la ghigliottina fu una delle pochissime cose mantenute anche dopo la Rivoluzione). Oppure la libertà: l’esecuzione “liberava” dai privilegi ingiustamente accumulati. E soprattutto l’uguaglianza: la ghigliottina era uguale per tutti, re e popolani: se il sacro mito non era raggiungibile al punto di partenza della vita, almeno lo si sanciva nel punto di arrivo. Insomma la storia della ghigliottina dimostra che dei tre grandi principi della Rivoluzione l’ultimo ha sempre posto qualche problema. È infatti rimasto una grande utopia della sinistra in ogni momento storico, talora in contrapposizione con la libertà (ricordate lo slogan: che ce ne facciamo della libertà di morire di fame?). Ma il solo momento di applicazione riuscita è stato appunto il progetto del dottor Guillotin. Il che dà qualche oggettivo disagio anche ai più puri rivoluzionari d’oggidì.
Ma l’uguaglianza morfologica stabilita della ghigliottina è davvero tramontata con la Rivoluzione francese? Noi abbiamo l’impressione di no. Oggi la scienza è di nuovo in grado di proporla: con la clonazione, che può rendere gli individui perfettamente identici e stavolta alla nascita, non solo alla morte. All’uguaglianza della forma, la scienza ha aggiunto l’uguaglianza della formula.
Noi prevediamo che, passato il momento aurorale, in cui tutti ancora discutono del problema etico della clonazione, fra poco saremo costretti a tornare invece sul tema dell’utopia dell’égalité, destinata forse a essere uno degli argomenti degli anni Duemila. Certo non mancheranno i problemi. Una volta sancita l’uguaglianza genetica, per esempio, nascerà un conflitto di estetiche. Da una parte i classicisti, coloro che troveranno bello essere più uguali dell’originale. Dall’altra i barocchi, cioè quelli che apprezzeranno la piccola differenza, scatenandosi in plastiche facciali, parrucche, lenti a contatto colorate, abbronzanti, body building. Ma anche fra i classicisti le cose non saranno facili. Chi scegliere come prototipo dell’umanità? Fra Marilyn Monroe, Francesca Dellera e Nastassja Kinski c’è la sua bella differenza. E altrettanta, se non di più, fra Arnold Schwarzenegger, Miguel Bosé e Christopher Lambert. Il dibattito sarà duro, perché se ne farà come è ovvio una questione di immagine. Speriamo solo che non finisca tutto in politica. Dall’assomigliare a Khomeini, Gheddafi, Shamir, Pinochet, Thatcher, Golda Meir o anche solo Fanfani, Andreotti e Russo Iervolino noi fin d’ora ci dissociamo del tutto.

(“Panorama”, 12 marzo 1989)

6. Peccatori S.p.A.
In tv c’è il boom delle confessioni. E in futuro? Sarà peggio

Una strana atmosfera si sta diffondendo nei mezzi di comunicazione di massa in questi ultimi mesi.
Si tratta di un clima che oseremmo definire penitenziale. Prendiamo la televisione, per esempio. Non c’è giorno in cui dal piccolo schermo non ci giungano più o meno in diretta delle confessioni. Enza Sampò ne ha fatto addirittura un programma fisso, dal titolo lo confesso. Altri come Marco Col umbro o Marta Flavi fanno vuotare il sacco delle intimità alle coppie sposate o a quelle in cerca di matrimonio. E perfino giornalisti affermati (Giancarlo Santalmassi con La macchina della verità, per esempio) riescono a realizzare degli scoop ormai solo quando un qualunque colpevole rivela il proprio peccato in una intervista.
La televisione e i grandi giornali sono insomma diventati il pieno sostituto del confessionale di una volta. Le conseguenze sono però abbastanza gravi. Innanzi tutto osserviamo che la confessione pubblica tende ad abolire i segreti privati. In altre parole: la spettacolarizzazione del rito confessionale legittima il fatto che i mass media si occupino sempre più pesantemente dei fatti della gente, delegittimando nel frattempo le antiche pratiche sociali fondate sulla riservatezza, come la religione, la corrispondenza intima, l’assistenza sociale, e persino la giustizia. Niente di male in tutto ciò in via di principio. Si potrebbe infatti benissimo dire che laddove quelle pratiche non funzionano più è addirittura giusto che esse siano sostituite. Oppure che quando la gente preferisce confidarsi a un giornalista televisivo piuttosto che a un prete o a un giudice questo è solo la conseguenza della perdita di efficacia delle istituzioni da questi ultimi rappresentate.
C’è però una seconda conseguenza deplorevole. La confessione mass-mediologica, perdendo di intimità, diventa una esibizione. Ovvero: invece di testimoniare una “caduta” morale, finisce per esprimere una “riuscita”. Il “buco” del drogato in diretta non è una sofferenza dichiarata al mondo: è anche (purtroppo) una performance tecnica. Che minaccia di attirare non tanto l’adesione o l’imitazione del pubblico (come erroneamente credono certi moralisti sciocchi) quanto il suo apprezzamento passionale.
Del resto, esiste la riprova di quanto stiamo dicendo. Il reo confesso televisivo o giornalistico dopo la confessione pubblica risulta sempre già lavato dei propri peccati, quasi che l’aver dato spettacolo di sé costituisse la pena per quel che ha commesso. E non a caso giornali e televisione inconsciamente sono molto più colpevolisti quando un sospettato invece di confessare il presunto delitto si dichiara ostinatamente innocente (noi non siamo sospettabili di essere filosocialisti o filomartelliani, e pertanto possiamo onestamente chiederci: il “caso Martelli” avrebbe avuto un tale spazio e un tale accanimento colpevolista come quello concesso dai giornali se l’onorevole avesse candidamente confessato a la Repubblica di aver fumato uno spinello?).
A nostro avviso la pratica della confessione pubblica è destinata a espandersi largamente, e con viva soddisfazione dei peccatori di ogni genere. Il carattere inflattivo dei media, infatti, porterà acercare confessioni sempre più clamorose, e pertanto magari anche ben pagate. Si potrebbe giungere perfino a un macabro tariffario. Per un omicidio impunito, cinquanta milioni. Per una strage, fino a cento. Il mostro di Firenze, se si decidesse a dichiararsi, può diventare miliardario.
Va da sé che dovranno affinarsi un poco anche le tecniche di comunicazione. Al segretario del partito politico che si batte per le “mani pulite” consigliamo per esempio di invertire i termini della sua propaganda: potrebbe “confessare” alla tv di non essere mai riuscito a rubare niente.
Al papa suggeriamo timidamente di inserire delle telecamere nei confessionali, e di installarvi delle macchinette a gettone: cinquecento lire al minuto per dichiarare i propri peccati ed esenzione dalle preghiere di penitenza. Al direttore di questo giornale, infine, proponiamo di aprire un concorso: la migliore confessione sarà sottoposta a una giuria e premiata con la pubblicazione integrale in un fascicolo omaggio mensile. Per la salvezza di tutte le anime.

(“Panorama”, 26 marzo 1989)

7. Col segno di poi.
A Parigi aprono due saloni dell’astrologia. Prossima tappa: il trapianto zodiacale

Una nuova fase storica sembra aprirsi per l’astrologia. Le cronache francesi ci dicono infatti che questo mese si sono inaugurati in gran pompa a Parigi due grandi centri di studio dei segni zodiacali. Si tratta del Salon de voyance, salone di veggenza, e del quasi omonimo Salon de la voyance et de l’astrologie (e almeno uno dei due centri parte male: proprio veggente non è stato, se non ha saputo prevedere il titolo del concorrente). Come è facile immaginare, nei saloni esoterici si praticherà un po’ di tutto, dalle carte del cielo agli esorcismi, dalla lettura della mano all’interpretazione della sfera di cristallo, dallo svelamento dell’oroscopo lunare al confronto con le divinazioni di altre culture. Il tutto, come si addice alla nostra epoca industrialmente avanzata, dotato delle più straordinarie tecnologie. Perché ormai anche la pratica dell’imponderabile non riesce più a fare a meno di ciò che in fondo dovrebbe essere il suo contrario: l’appello alla “scientificità”. Se l’astrologia attecchisce tanto radicalmente nella società di oggi, una ragione però esiste. È che funziona come una specie di psicanalisi dei poveri: la gente vuol sapere quel che non riesce a capire di sé, e per farlo deve credere che il proprio carattere e i propri comportamenti siano determinati da qualche meccanismo cosmico che sfugge al controllo individuale. Solo che la psicanalisi colloca il motore delle azioni dentro di noi (nell’inconscio), mentre l’astrologia e le altre “scienze” misteriche lo collocano fuori, nel cielo.
I saloni parigini portano comunque una novità. Fanno diventare l’esoterismo un fatto dichiaratamente di massa e addirittura quasi un caso medico. Non per nulla il nome richiama quello degli istituti di bellezza, dei centri per la salute, delle cliniche di plastica facciale. Questo accostamento medico fa scattare subito la profezia. Di questo passo andremo sempre più verso una società che tratta il proprio zodiaco esattamente come un fatto sanitario. E presto la gente non si limiterà a voler conoscere il suo destino già scritto, ma deciderà di modificarlo attivamente. A ogni buon conto, noi abbiamo brevettato l’idea che adesso andiamo a illustrare. La nostra proposta è l’istituzione di una clinica per il trapianto astrologico. Quest’anno si preannuncia ottimo per i Gemelli e per i Capricorni e cattivo per i Pesci e i Sagittari? Questi ultimi possono entrare in massa a far parte della cerchia dei primi con un intervento del tutto indolore (anche se molto, molto costoso). A un tale che si considera esuberante e spavaldo non piace di appartenere al segno della Vergine? C’è pronto un sistema per passare al Leone. Un altro non accetta il proprio ascendente, che contrasta col segno principale? Si può innestare qualcosa di più appropriato. L’astrologia occidentale non appare sufficiente a definire il carattere individuale? Si possono fare benissimo degli ibridi con quella cinese o araba: e avere per esempio un Acquario con ascendente Coniglio o Pugnale, un Bue con la Spada in Giove, o una Picca con il Topo in Ariete. Nulla infine vieta la creazione di segni inediti. E fin d’ora noi proponiamo per esempio quello dell’Aragosta per nababbi predestinati, o quello della Cicala per edonisti impenitenti. Certo, non tutto andrà subito per il verso giusto. Per esempio, potrà accadere che certi segni vengano abbandonati in massa e debbano essere soppressi: è accaduto ad alcune contrade del palio di Siena, potrebbe avvenire anche per lo Scorpione o per il Cancro. Si dovranno poi imporre delle regole per evitare l’affollamento, come quella di non consentire più di un trapianto annuo e non più di 12 nell’arco della vita. Il rischio più grande ci sarà nei casi di rigetto. Se, mettiamo, un Capricorno non si inserisce in un Ariete può succedere che il portatore si trovi d’un tratto senza segno, condannato alla perdita di identità!
È anche prevedibile l’esplosione di discipline specialistiche, adatte allo studio dei problemi etici e politici prodotti dai trapianti. Si creeranno cattedre universitarie di astrologia comparata e di astrologia morale (o astrologetica, da non confondere con l’astrologenetica, da impartirsi nelle facoltà di medicina). Nasceranno movimenti per la legalizzazione dell’aborto astrologico e gruppi di difesa delle razze zodiacali pure. E qualche dittatore accarezzerà l’idea di una società totalitaria in cui i cittadini appartengano tutti obbligatoriamente al segno della Pecora. Speriamo che allora nasca qualche gruppo clandestino che si prepari a una guerra di liberazione.

(“Panorama”, 9 aprile 1989)

8. Tutti ostaggi?
Rapiti e rapitori. Scorte e scortati. Nasce la società dei pretoriani

Emmanuel Lévinas, uno dei massimi filosofi francesi contemporanei, ha sostenuto recentemente che «la nostra società ci rende ostaggi gli uni degli altri». Ovviamente Lévinas si riferiva a una condizione dello spirito. Ma a noi sembra che il suo aforisma possa anche essere preso alla lettera. Ovvero che ci stiamo avviando verso una vera e propria società di nuovi ostaggi. Le prove sono evidenti. Prendiamo il caso Rushdie o quello del giudice Riggio a Palermo. Un gruppo in conflitto con un altro (il khomeinismo contro il demone occidentale, la mafia contro le istituzioni statali) minaccia di morte un individuo. Ebbene: di fatto lo ha trasformato in un ostaggio perché lo tiene sotto controllo ricattando il gruppo avversario. Il fenomeno si sta diffondendo con larghezza, anche in ragione della sua evidente economia. L’antico ostaggio, infatti, costava in termini di organizzazione, mantenimento della persona catturata, sistema di segretezza e sicurezza. Il nuovo ostaggio, invece, pesa direttamente sulle spalle del gruppo stesso che si vuole colpire. Per difendere la vita di Rushdie è Margaret Thatcher che paga in uomini, servizi segreti, domicilio nascosto dello scrittore. E per il giudice siciliano è lo Stato che offre una scorta armata e un’automobile blindata. L’ostaggio insomma ormai è custodito dai suoi stessi difensori.
C’è un fatto da notare. Che il nuovo ostaggio funziona come tale solo se è materia di discorso per le comunicazioni di massa. Se nessuno parlasse dell”‘editto” di Khomeini e nessuno conoscesse Rushdie, la faccenda non funzionerebbe. E infatti va rimarcata una evoluzione storica nella tradizione dell’ostaggio degli ultimi decenni. Agli inizi degli anni Settanta erano i banditi che rapivano gli industriali per un riscatto in denaro. La cosa faceva scandalo, ma procedeva indipendentemente dagli articoli che uscivano sui giornali. Poi è arrivato il rapimento politico, e già è diventato più importante il fatto che esso fosse comunicato al pubblico. Adesso la buona qualità dell’ostaggio dipende dalla sua capacità di occupare le prime pagine dei quotidiani e del telegiornale della sera.
Ma veniamo, adesso, dalla descrizione di questo stato di fatto alla profezia che se ne può trarre. Ebbene, la riflessione è semplice. Se il nuovo ostaggio deve essere persona di cui si parla, evidentemente la possibilità di diventare ostaggi diventa anche una misura della notorietà e del successo. Dunque, se da un lato l’ostaggio pesa sulla società a cui appartiene, questa stessa società finirà col valorizzare la potenzialità di essere ostaggi. La scorta invece di essere un fastidio diviene uno status symbol. Qual è il politico di maggior successo? Quello col maggior numero di gorilla. Chi è lo scrittore di maggior prestigio? Quello che offende di più i gruppi fanatici. Chi conta di più in Borsa? L’imprenditore più minacciato.
Dal punto di vista sociale tutto ciò non mancherà di avere delle conseguenze e dei pericoli. Per esempio, si può fin d’ora sostenere che rinascerà una visibile società di classe proprio laddove si credeva che fosse finita. Alla contrapposizione tra ricchi e poveri si sostituirà quella fra scortati e scortanti. Oppure si può prevedere un cambiamento nella moda: dato che la scorta per funzionare dovrà essere riconoscibile, ci avvieremo verso una società delle divise. O infine (cosa che peraltro sta già accadendo) si svilupperà una ingegneria delle macchine e delle porte blindate, una tecnologia delle protezioni, un mercato delle invenzioni di difesa.
I pericoli sono però gravi. Una volta stabilizzata la società della scorta, questa diverrà rapidamente una società dei pretoriani. Ma, dato che, come diceva Proust, «nessuno è un genio per la propria cameriera», il nuovo esercito di gente tutto sommato senza mestiere, impegno, interesse comincerà a pretendere di sostituire i propri protetti. Prima ci saranno curiosi episodi di Saturnali, in cui per un giorno all’anno gli scortati scorteranno gli scortanti. Poi, arriveranno strane e persistenti forme di presa del potere.
Un autista d’improvviso si proclama presidente della Coca-Cola, un segretario diventa re di Svezia, un legionario si fa imperatore dell’Australia. Fuori da tutto questo rimarranno solo dei marginali, i non-scortati. Dei quali si potrà tuttavia pensare che o sono i soli ad avere il massimo comando (Grandi Vecchi) o sono dei pericolosi antisociali. Avere la scorta o fare la scorta sarà reso obbligatorio per legge. Quel giorno, però, finalmente farà notizia la lettera di uno che ci augura ogni bene per l’anno prossimo.

(“Panorama”, 23 aprile 1989)

9. Tutto finto.
In piazza a Palermo metteranno la foto di un albero. Che senso ha?

Il centenario della Rivoluzione francese lo celebrano ormai proprio tutti. Ci giunge notizia, per esempio, da Palermo, che il locale assessore ai Beni ambientali, Letizia Battaglia, ha in mente una manifestazione audace. Nel giorno della ricorrenza della presa della Bastiglia, dinanzi a Palazzo delle Aquile, o in qualche altra piazza limitrofa, sorgerà un grande albero come monito per tutti dell’importanza (rivoluzionaria?) della questione ecologica. Solo che l’albero non avrà tronco, rami e foglie. Lo sostituirà, forse in virtù del fatto che la signora Battaglia è una fotografa, una gigantografia alta venticinque metri e larga cinque.
Ammettiamo subito di apprezzare l’iniziativa. Ma forse non esattamente per i medesimi e pur nobilissimi scopi a cui essa appare destinata. Il simbolo ambientalista avrà infatti la sua indiscutibile importanza, ma a noi pare che altri e più profetici segni ne possano essere tratti. L’albero fotografico è per esempio immenso. Perché? Semplice, perché solo così la gente se ne accorgerà. Ma un tale scarto dalla norma possiede una evidente funzione estetica, e la fotografia non può che sottolinearla a causa della tradizione culturale che ce la fa accettare tranquillamente come fatto artistico.
E allora può anche accadere che il simulacro eretto a memoria del simulato agisca invece per sostituzione. Gli alberi oggi non ci sono più, e anche se ci sono sono orribili. Potremmo benissimo rimpiazzarli con più estetiche e durature immagini, che hanno altresì il vantaggio di coprire le azioni speculative che tanto irritano le coscienze.
La proposta potrebbe essere allargata. In caso di bisogno, per esempio, potremmo riempire il Grand Canyon con una bella diga, e metterei davanti una foto lunga 250 chilometri. I cinesi, che spendono un sacco di soldi per mantenere la loro fatidica muraglia, potrebbero intraprendere una campagna di riproduzione del monumento, e collocare al suo posto un’immagine lunga 6.500 chilometri. E le fabbriche svizzere che a più riprese hanno oltraggiato il Reno e la Foresta Nera coi loro solventi potrebbero ridurlo definitivamente a una fogna a patto di pagare Wilson o Mapplethorpe perché ereggano mirabili foto in sua vece.
Pian piano, probabilmente, si potrebbe giungere a un vero e proprio maquillage di tutto il pianeta, persino con foto da satellite che lo coprano tutto in modo che le immagini che ci provengono dall’atmosfera non contemplino lo spiacevole e inelegante contrattempo del buco di ozono e della sparizione dell’Amazzonia. Il famoso paradosso della carta dell’Impero a scala uno a uno descritto da Borges avrebbe finalmente uno scopo, un senso, una possibilità di attuazione.
Se lasciamo inoltre lavorare la fantasia, troveremo altri non secondari vantaggi. Prendiamo quei Paesi che hanno storicamente il problema dello sbocco al mare, come l’Austria, la Svizzera o la Mongolia. Una bella foto costiera, magari verso Sud dove il mare ci sta meglio, e i giochi (persino quelli politici) sono fatti. In Alaska, dove oltretutto ecologicamente non stanno più tanto bene, si potrebbero collocare foto del deserto libico, con sollievo per le compagnie petrolifere responsabili del disastro. E inversamente Gheddafi potrebbe trovare piacere nel vedere fuori della sua tenda al mattino un bel paesaggio artico con tanto di iceberg in navigazione.
I Paesi più immaginosi e più attrezzati turisticamente potrebbero fabbricare paesaggi mutanti: a mesi alterni offrire montagna dolomitica, costa rocciosa tirrenica, palmizi africani, collina toscana e isolotti caraibici. E infine si potrebbe assistere a un prestito internazionale di monumenti, riducendo così il problema dell’affollamento delle città d’arte. La Torre del Mangia può essere collocata a Tokyo, mentre la Torre Eiffel starebbe benissimo a Milano, e Venezia intera, perché no, può essere trasferita a Houston, Texas.
Un’avvertenza, tuttavia, prima di concludere. La nostra profezia di un futuro abbellimento dell’universo attraverso le sue simulazioni è ottimista, ma richiede che ci si sappia adeguare. Noi non crediamo che, come ne L’invenzione di Morel, la realtà debba sparire per il fatto che una foto ne rapisce l’anima. Crediamo però a un altro profeta, Abbott, che in Flatlandia ha immaginato un mondo a due sole dimensioni, come sarebbe quello fotografico di cui abbiamo reso conto. Per viverci occorrerà abituarsi all’idea di diventare un po’ piatti!

(“Panorama”, 7 maggio 1989)

10. Per la cronaca.
Mosca celebra gli antimarxisti di “Annales”. E una svolta: verso…

Pochi giorni fa Jacques Le Goff ha annunciato con clamore la celebrazione in pompa magna, il prossimo settembre, a Mosca, della cosiddetta “École des Annales”. Riassumiamo rapidamente, per ricostruire la portata dell’evento; Le Goff è uno dei più grandi storici viventi; “Annales” è una rivista di studi storici fondata da Fernand Braudel, che ha proposto un metodo storico completamente diverso da quello tradizionale, e che ha dato luogo a una vera e propria scuola.
In che cosa è diverso il metodo di “Annales”? In questo: che la storia non viene più ritenuta come una mera cronologia di eventi, e che soprattutto la ricerca non si occupa più della successione dei Grandi Avvenimenti Ufficiali. Braudel ha anzi teorizzato l’esistenza di differenti “storie”: quella “non-evenemenziale”, dai tempi brevi e dall’ambito molto circoscritto; quella congiunturale, con tempi e ambiti più larghi; e quella strutturale, dai tempi lunghi e dalle più vaste conseguenze. Tutto ciò cambia il modo di fare ricerca perché, come ha sostenuto Philippe Ariés, lo storico non cerca solo successioni, ma connessioni fra i fatti, nel tentativo di stabilire le mentalità di gruppi, società, epoche. È fra l’altro per questo motivo che si abbandona il campo dei Grandi Eventi: questi sono già interpretati da chi li tramanda; mentre la vita quotidiana di un piccolo gruppo in un piccolo luogo è assai più intatta, rappresenta meglio una mentalità, che resta la medesima di tutto il sistema di cui fa parte. Ecco allora perché giudichiamo la prossima celebrazione moscovita di “Annales” come un segno profetico: per il suo aspetto paradossale. È bene sapere, infatti, che la scuola di “Annales” è sempre stata considerata come materialista non dialettica, e per di più accusata dai suoi detrattori di profondi legami con le fondazioni americane. Ora la glasnost e la perestrojka celebrando” Annales” rimettono in discussione perfino lo storicismo moralista. Il paradosso è però questo: che” Annales”, prima oggetto di discussioni in Europa, poi accettata unanimemente fino alla grande fama dei suoi membri, adesso sta subendo una reazione di ritorno, con molti storici che si ridedicano alle biografie e alle cronologie. Se infine si pensa che un punto saldo dello storicismo marxista era quello di sostenere che, una volta realizzatasi la lotta di classe, la storia sarebbe finita, il circolo è chiuso.
Siamo infatti in presenza di un gioco bizzarro: si va a fare la storia a Mosca dove si diceva che non c’era più, e forse la si abbandona da noi dove invece ci dovrebbe essere. Si inverte perfino l’affermazione di Lévi -Strauss, secondo il quale esistono società fredde, il cui modello meccanico è l’orologio, che tentano di sopprimere la storia; e società calde, il cui prototipo è la locomotiva, che invece la producono. Pensavamo di essere in una società calda e che la Russia fosse una società fredda, ma evidentemente ci siamo sbagliati, e forse non è un caso che il nostro oggetto simbolico sia oggi il computer e non la locomotiva.
Un interrogativo per concludere la nostra profezia. E se le “Annales” restassero a Mosca, dato che là si fa di nuovo la storia e qui non più? Una risposa l’ha data sempre l’antropologo Lévi-Strauss. Nelle società senza storia «l’informazione è data dai miti». E anzi, ogni nuova informazione deriva dal fatto che si mutano le caratteristiche dei miti. Possiamo concluderne due cose: che, finita com’è la storia, il nostro futuro non può che essere mitologico, come conseguenza della civiltà dei mass-media, che producono miti in continuazione; e che, avendo i media praticamente esaurito tutte le variazioni possibili di tutti i miti, ci resta solo un futuro mitologico totalmente ripetitivo, come quello delle telenovelas.
Per gli studiosi ci sarà tuttavia una chance. Trasferitasi “Annales”, si potrebbe creare una nuova rivista: “Instantales”. Gli studi da fare sono innumerevoli. Suggeriamo per esempio come argomenti l’infanzia di Età Beta, Sonia Braga e il suo ambiente sociale, Celentano e la seconda crociata contro il divorzio. Non ridete, per favore. Se ne stanno già occupando, seriamente, in molti.

(“Panorama”, 21 maggio 1989)

11. Così s’avvera.
A proposito della fusione nucleare fredda e delle scoperte annunciate

Qualcuno avrà notato nelle ultime settimane che giornali e televisioni, pur sopraffatti dalle notizie della Cina, dei congressi dei partiti, della crisi di governo, delle coppe europee di calcio, hanno segnalato un proliferare di conferme ai due tipi di fusione nucleare fredda realizzati da Fleischman e Pons e da Jones. Curiosamente, le conferme sono venute da Paesi non esattamente all’avanguardia della scienza: Italia, Unione Sovietica, Cina, India, persino qualche Paese africano. Aldilà della verità scientifica, che non possiamo accertare, colpisce la subitanea diffusione dei buoni risultati dopo il primo annuncio. E a noi è venuto in mente che non solo di esperimenti riusciti si tratti, bensì di risposta a una profezia.
Per spiegarci, facciamo un passo indietro. Ricordiamo allora che, apparentemente, il discorso profetico è molto onesto (quello veramente profetico, s’intende!). Infatti, annuncia un evento futuro a partire da indizi del presente, e così si consegna a una verifica a venire: il fatto pronosticato o avviene, o non avviene. Il buon profeta, però, visto che più di ogni altro rischia la smentita, raramente presagisce fatti contingenti. Gioca piuttosto sui tempi lunghi, e normalmente si occupa di cose che solo la storia si incaricherà di controllare.
Nel mondo delle comunicazioni di massa questa regola generale della profezia è invece saltata. La ragione è ovvia e anzi non ce n’è una sola ma due. Andiamo con ordine. Prima di tutto c’è da dire che i media contemporanei producono una mole di informazioni tale che la previsione sull’immediato futuro è sempre più difficile. Donde il principio che gli stessi media sono i primi creatori quotidiani di profezie. Sono loro, infatti, che, accrescendo la difficoltà di comprensione della realtà, inducono di converso un fortissimo desiderio di comprenderla, e sono costretti a fabbricare di giorno in giorno una massa impressionante di previsioni sul futuro. Tanto per fare un esempio: che cosa si prepara alle prossime elezioni; che cosa vuol dire quel discorso di Craxi e quella replica di Forlani; chi vincerà lo scudetto di calcio e chi il mondiale di automobilismo; che audience si preannuncia per il prossimo festival di Sanremo; che succederà alla prossima Biennale Cinema di Venezia.
Salvo però che le previsioni dei media molto spesso non sono previsioni. Nel senso almeno che non “leggono” affatto la realtà futura cercando di azzeccare l’esito fra due possibilità egualmente probabili. Piuttosto, la costruiscono. Ovvero: la profezia dei media, una volta pronunciata e per il fatto stesso di essere pronunciata, provoca immediatamente la sua realizzazione o la sua mancata realizzazione. Lo psicologo Paul Watzlawick, un viennese che vive in California, ha spiegato molto bene il meccanismo in un capitolo del libro La costruzione della realtà pubblicato l’anno scorso anche in Italia da Feltrinelli. Racconta infatti dello strano caso avvenuto a Los Angeles qualche tempo addietro, quando i giornali credono che ci debba essere uno sciopero delle pompe di benzina a breve termine, e cominciano a prevedere di lì a poco tempo una crisi per le automobili. In realtà nessuno sciopero viene bandito. Però la crisi della benzina arriva lo stesso, perché tutti i conducenti si precipitano per giorni a fare il pieno per ogni evenienza. I sociologi chiamano questo tipo di profezie col nome di self-fulfilling prophecies, vale a dire “profezie che si autorealizzano”. E ce n’è uno in particolare, l’americano Thomas Schelling, che dieci anni fa ha scritto un libro in cui se ne fa una tipologia, che comprende ovviamente anche il loro contrario, le self-unfulfilling prophecies, che invece proprio per il fatto di essere pronunciate dai media provocano l’effetto opposto di quello annunciato. Caso tipico: quel che avvenne l’anno scorso alle elezioni francesi dopo il primo turno, quando i fascisti di Le Pen ebbero una valanga di voti, che crollarono al secondo turno perché giornali e tv avevano profetizzato il rischio dell’appoggio reazionario a Chirac contro Mitterrand. Torniamo adesso alla nostra fusione nucleare fredda. I fatti ci appaiono più chiari. La tesi corrente fino a poco tempo fa era che la fusione fosse prevedibile fra cinquanta-sessanta anni. Si trattava di una self-unfulfilling prophecy: una volta detta, tutti gli scienziati hanno preso a cercare una soluzione precoce. Difatti arrivano da una parte Fleischman e Pons e dall’altra J ones. Che non realizzano affatto la fusione, come invece hanno annunciato i media desiderosi di scoop, bensì un esperimento nel quale forse ci sono tracce di fusione. Insomma: una profezia di prossimo raggiungimento possibile dell’evento scientifico più auspicato degli ultimi anni. Ma questa e risultata una self-fulfilling prophecy, tanto è vero che tutti, proprio tutti, soprattutto i meno attrezzati, finiscono per “avverarla”.
Donde una amara riflessione: che le profezie le fanno ricchi, quelli che posseggono i mezzi della produzione profetica; e i poveri si limitano a “scoprire” che sono vere.

(“Panorama”, 18 giugno 1989)

12. Video, città aperta.
Traffico. Edifici. Fognature. Semafori. Per programmarli basterà un computer. E anche per sabotarli

Qualche settimana fa ci ha sorpreso una curiosa notizia comparsa sul settimanale americano “Newsweek”. Vi si descriveva l’invenzione di una compagnia di software (programmi per computer). Un architetto ha infatti elaborato un modo per simulare col cervello elettronico (anche di quelli comuni, da casa) lo sviluppo di una città. Insomma: ha reso elettronica anche la disciplina forse più “umanistica” che esiste nelle facoltà di architettura, l’urbanistica.
Che cosa si può fare con questo gioiello di “sistema esperto”? Due cose distinte, e però inseparabili nella buona pratica urbanistica. Da una parte si può riprodurre la mappa di una città, esistente o immaginaria, con tutti i suoi edifici, le sue zone, lo scorrimento del traffico, le funzioni (area commerciale, uffici, scuole) e perfino i servizi (fognature, sistema idrico, riscaldamento). Poi, si possono aggiungere tutti i dati possibili e immaginabili che riguardano la popolazione: numero di abitanti, divisione per sesso, per età, per ricchezza, per lavoro, per istruzione; persino si possono immettere le percentuali di delinquenza, col tipo di delitti, o di conflittualità razziale e religiosa. Il programma possiede nella sua memoria una serie di parametri che prevedono ciò che succederà nello sviluppo urbano, e ciò sulla base di un enorme numero di casi studiati dalla letteratura sociologico-economico-urbanistica precedente. Per esempio: se consento l’installazione di tre supermercati adiacenti l’uno all’altro, posso prevedere che sono troppi e che falliranno tutti e tre, o che si verifichi una guerra commerciale fra i proprietari. O ancora: se una zona residenziale non prevedere un certo numero di servizi ben fatti, posso subito vedere che si trasformerà in una zona popolare e marginale, e che per esempio banche e negozi di lusso scompariranno presto di lì, e che le abitazioni magari lussuose avranno un rapido degrado.
È un bel gioco, non c’è dubbio. Un gioco che peraltro è già utilizzato per la didattica e per la progettazione in numerose università americane. Molto bene: come dice lo stesso “Newsweek” ci avviamo verso una dimensione scientifica della progettazione urbana. Ma all’occhio del profeta un programma come questo lascia intravedere possibili sviluppi. Proviamo a renderli espliciti.
In primo luogo, possiamo pensare a una profezia ottimista. Se chiunque sarà in grado di inventare o verificare lo sviluppo della propria città, cambierà anche la percezione sociale della metropoli. Tutti cominceranno a sapere che una città non si sviluppa a caso, che la sua crescita va organizzata e che molti “difetti” della vita di oggi dipendono anche dalla mancata progettazione delle cose. E c’è di più: se il comune cittadino potrà vedere sul suo computer le conseguenze di una decisione urbana qualunque, allora potrà anche esercitare un controllo democratico su quelle stesse decisioni. Si espropria un’area che era destinata a verde per farci un enorme building commerciale? Ebbene, questo porterà alla crescita di bande giovanili dedite al furto con scasso più che all’altalena. E ciò è una conseguenza non della cattiveria umana, ma di chi ha voluto l’edificio commerciale proprio lì e non altrove. L’assessore può anche andarsene: nessuno lo rivoterà. Inoltre, la gente comincerà a sviluppare utopie urbanistiche: comincerà cioè a voler vedere che cosa succede con certi progetti, che so, una scuola in più qui, case migliori lì, una nuova linea di metropolitana laggiù, lo stadio meglio fuori città e così via.
Purtroppo, però, ci possono essere anche forme opposte di controllo urbanistico. Quelle cioè che si fondano sull’immaginare le conseguenze catastrofiche di un gesto sociale. Se sposto una banda di portoricani in un quartiere residenziale trasformo la vita della città in un pauroso conflitto. Se saboto i semafori non funzionano più la polizia e nemmeno i vigili del fuoco. Se vendo droga nella più bella piazza del centro storico faccio dimezzare il turismo. Ahimè: è possibilissimo che delinquenza e speculazione si attrezzino nei prossimi anni anche loro in modo scientifico. O che invece si realizzino forme di guerriglia urbana o di rivoluzione metropolitana completamente fondate sulla simulazione e non più sull’idea di realtà o sull’inevitabile “reazione delle masse”. Un minuscolo gesto di un singolo uomo potrà infatti, come in ogni sistema complesso, avere conseguenze di grandezza inimmaginabile.

(“Panorama”, 2 luglio 1989)

13. Dal clic al bit.
Camera. Dischetto da computer. Televisore. È la nuova frontiera della fotografia. Ma quali orizzonti apre?

Su tutte le reti televisive americane in questi giorni sta comparendo la pubblicità di una nuova macchina fotografica. Fin qui nulla di strano, se non fosse che l’apparecchio è davvero rivoluzionario. Consiste infatti di un involucro che sembra veramente una normale camera automatica portatile. Solo che, invece del rullino di pellicola fotosensibile, si infila un dischetto di computer. Il funzionamento è poi tradizionale: inquadrare, evitare la fonte diretta di luce, scattare.
Il bello viene di seguito. Muniti di un cavetto che collega la macchina al vostro televisore di casa, accendete la tv, pigiate un bottone: sullo schermo vi apparirà la foto, ovviamente a colori se possedete un sistema televisivo cromatico. Il principale difetto, se così si può dire, è che per il momento la macchina fotografica funziona solo con il sistema Ntsc, cioè con lo standard televisivo americano, che è differente da quelli europei. Ma ve n’è un altro: le foto non si possono stampare o, meglio, si possono stampare con una stampante laser supersofisticata, ma non hanno più l’aspetto di una fotografia come quelle a cui siamo abituati, bensì di una foto di giornale molto appiattita. Si può prevedere che, se l’oggetto avrà successo come è probabile, presto avremo le varianti europee. E per ciò che concerne la stampa, il risultato è simile a quello delle diapositive: le dovete proiettare su uno schermo, col vantaggio di avere dei formati molto grandi. Qui poi, i benefici sono addirittura due. Non dovete far sviluppare il rullino, e non dovete aspettare nemmeno di averlo terminato, perché potete vedere subito il risultato della vostra opera. Ma c’è anche dell’altro. Dato che il televisore possiede tutto un suo apparato per regolare il colore, la luminosità, i contrasti, è chiaro che entro certi limiti si può cambiare a piacimento l’aspetto della foto, sperimentando empiricamente il risultato voluto. Per esempio, qui voglio più verde, adesso vediamo cosa succede a solarizzare l’immagine, ora proviamo a eliminare i contorni, e così via. Descritta l’invenzione, proviamo adesso a spiegare perché essa ci pare un segno premonitore di un futuro a venire, o forse addirittura già in atto. In primo luogo, osserviamo che la nuova macchina non produce oggetti reali, ma qualcosa di molto astratto. L’immagine che otteniamo sul televisore è infatti, sì, concreta, ma non dipende più dall’azione della luce su una pellicola, che registra una impressione diretta sulle cose. Si tratta invece di un programma convenzionale, che “traduce” la realtà in una serie di simboli immateriali, e poi li fa ridiventare “cosa” per mezzo di una nuova traduzione. L’immagine è dunque qualcosa di virtuale e di sempre più manipolabile. La previsione che passiamo trame è dunque questa: che ci stiamo dirigendo velocemente verso un mondo in cui esisteranno sempre di meno tracce dirette del mondo reale, e sempre di più nostre costruzioni del mondo. Il termine “immagine” significherà sempre meno un documento e una rappresentazione della natura, e sempre di più una “immaginazione”. La vita non sarà propriamente sogno, come voleva Calderén de la Barca, ma pensiero sicuramente sì. La seconda osservazione è più propriamente sociologica. Quel che ci sembra infatti significativo nella nuova invenzione è che essa riconduca al televisore qualcosa di fondamentalmente privato e familiare, come la foto amatoriale. La tv, dunque, conquista una nuova frontiera massmediologica. Si impossessa di quell’universo ancora individuale che era la fotografia. Avanza così quello che ormai possiamo chiamare il “progetto” televisivo: quello di proporsi come fondamentale strumento di intermediazione sociale. Altre frontiere erano infatti già state conquistate dalle tecnologie televisive, come il cinema, l’informazione, la musica, la conversazione, lo sport. Adesso sembra proprio che tutto l’universo della comunicazione sia tradotto in termini televisivi. Il tele schermo contiene tutto quel che ci serve per la vita quotidiana. Adesso, possiamo addirittura fare come Alice: saltare noi stessi al di là dello schermo, in quel moderno Paese delle Meraviglie che è la tv. Basterà mettersi in posa, fare clic con la macchina fotografica ed ecco l’autoritratto. Ora non rimane che azionare il telecomando.

(“Panorama”, 16 luglio 1989)

14. Non si vince.
La Germania celebra la sua sconfitta. Rimozione delle colpe del nazismo? O segno di una svolta storica?

Mai prima d’oggi si era vista la celebrazione di una sconfitta militare. E invece è quanto si accinge a fare il giorno primo settembre prossimo la Germania federale a Berlino. In quella data, presso i magazzini del Deutsches Historisches Museum, si rievocherà la dichiarazione di Hitler che dette avvio alla seconda guerra mondiale. Certo che l’evento è straordinario, curioso e imbarazzante tutto insieme. Il clamore evidentemente proviene dal fatto che il Paese sconfitto decida di essere proprio lui a esaltare la data più letale della propria storia. Eppure sembra che il primo ministro Kohl tenga moltissimo al suo nuovo museo storico, tanto è vero che la festa del cinquantenario dell’inizio della guerra non è neppure la sua data di inaugurazione effettiva, ma solo una specie di appetitoso antipasto.
La curiosità, invece, deriva dal fatto che la mostra procede secondo un punto di vista “inverso”. Non solo celebra una sconfitta, ma per farlo utilizza i documenti prodotti dai perdenti, cioè i nazisti. Il che è abbastanza insolito perché d’abitudine chi perde lascia alla storia meno tracce di chi vince. Tranne appunto i nazisti, i primi maniaci delle comunicazioni di massa. Una seconda curiosità consiste nel fatto che Hitler non dichiarò mai nessuna guerra. Si limitò a un discorso, appunto il primo settembre 1939, in cui urlò che d’ora innanzi la Germania avrebbe risposto alle provocazioni internazionali. Che non c’erano, ma che Hitler cominciò a inventare, invadendo subito “per reazione” la Polonia. La mancanza di una dichiarazione di guerra, così, rende un po’ più sfumata la cronologia. Per esempio, non si sa più esattamente in quale momento le truppe tedesche si sono mosse in direzione di Varsavia, alle 5,01 del mattino o alle 5,14. Sono solo 13 minuti di differenza, ma rappresentano l’inizio di una mancanza di certezza storica.
Infine, c’è l’imbarazzo. Bisogna ammettere che una festa per la sconfitta stravolge i cerimoniali di tutti i tempi. Come verrà svolta? Certo, non con parate militari, sarebbe un insulto al mondo occidentale. Ma nemmeno con troppa cenere sul capo: sarebbe un suicidio politico per il governo. La soluzione probabile l’ha data forse l’ex-presidente del Bundestag Jenninger, in quel suo sfortunato discorso che gli costò a dicembre le dimissioni: in fondo i tedeschi hanno rimosso la” colpa” hitleriana identificandosi con gli occidentali, e rileggendo i nazisti come “invasori” della Germania. La mostra berlinese, comunque, ha di sicuro un merito. Consentirà l’inizio di celebrazioni scomode a chi possiede grandi sconfitte. A noi italiani, per esempio, che di guerre non ne abbiamo vinte quasi mai, va piuttosto bene. Potremo intraprendere rievocazioni brillanti di Caporetto, Novara, Custoza, e perché no, di Adua e Dogali. I russi hanno a disposizione la moderna Kabul. Gli americani possono sfruttare il Vietnam, gli argentini le Malvine, gli iraniani Bassora, gli egiziani il Sinai, i libici il Ciad, i turchi Cipro ma anche l’antica Lepanto e il fallito assedio di Vienna, e i francesi possono fare grandi cose con Waterloo. Tutto ciò sembra tuttavia una parabola, ovvero un segno profetico di un evento futuro la cui sostanza è già in atto. A pensarci bene, l’esposizione berlinese ci insegna che oggi il valore della vittoria bellica non c’è più. Riflettiamo: da un lato la distensione ci dà una certa tranquillità sul fatto che non esistano guerre; ma dall’altro invece proprio la distensione consente molte guerre regionali, dato che le grandi potenze si neutralizzano e non intervengono. Che cosa accade allora? Che Paesi nemici, purché piccoli, si ammazzano senza esclusione di colpi. Fino al momento in cui la guerra minaccia i grandi equilibri internazionali. A quel punto i big bloccano i conflitti; ma come? Sospendendoli. Cioè dichiarando la fine delle ostilità, senza né vinti né vincitori. La vittoria è finita: perché la vittoria è troppo pericolosa. Il fine di ogni guerra diventa ormai il pareggio, come nella filosofia giapponese dei giochi di simulazione. Il mito della vittoria rimane solo nelle Olimpiadi e nelle feste nazionali. Ma sta cominciando a sparire anche di lì, dalle ultime frontiere del simbolico. Per i prossimi Giochi di Barcellona del 1992 non ci resta che prevedere una inusitata moltiplicazione degli ex aequo.

(“Panorama”, 30 luglio 1989)

15. Come Peter Pan.
Nel Duemila il potere sarà in mano agli ultra-sessantenni. E i giovani? Non cresceranno più

A Boston, Massachusetts, a fine giugno si è svolto un grande convegno medico sulla vecchiaia. Illustri scienziati hanno sancito quello che da qualche tempo già si sapeva sulla senescenza. E cioè che essa dipende non già da un generico invecchiamento dell’organismo, ma da tre cause diverse e concomitanti. La prima è quasi una forma di malattia: alcune ghiandole (massima indiziata la ghiandola timica) potrebbero produrre delle sostanze che a partire da una certa età attaccano le cellule umane e le indeboliscono. La seconda sarebbe invece davvero una consunzione: il cervello nel tempo si stanca biologicamente, e dirige sempre meno le funzioni del corpo. La terza infine sarebbe un indebolimento psichico: dato che il cervello si sviluppa continuamente mediante ramificazioni che consentono la trasmissione di notizie, accadrebbe che a un certo momento esso non trovi più degli interessi che lo spingono alla crescita e pertanto cominci a impigrirsi con conseguente degenerazione globale.
Come si vede, due cause della vecchiaia su tre possono essere rimosse: possiamo infatti sognare fin da adesso il momento in cui sarà possibile bloccare la maledetta ghiandola timica, e d’altronde possiamo subito immaginarci una vita sociale in cui gli anziani siano così pieni di interessi da rallentare seriamente il rimbambimento. E qui arriva la seconda notizia stavolta italiana, apparsa nei giorni scorsi sui quotidiani. Una ricerca dell’Ispes sul comportamento degli anziani in Italia ci dice infatti alcune cose inattese. Per esempio, che il 66% dei posti di comando nel nostro Paese sono occupati da persone della terza età (almeno sessantacinquenni). La cifra si abbassa, ma è sempre rilevante, se passiamo alle istituzioni culturali (46%), all’economia (25%) e alla politica (20%).
A questo punto abbiamo ampio spazio per alcune osservazioni e per una profezia. Fra le osservazioni, mettiamo subito questa. Che, almeno in Italia, tutti seguitano a parlare del mito della giovinezza, ma a noi pare che invece ci troviamo nella prassi della gerontocrazia. Il potere economico, politico, culturale sta saldamente nelle mani di alcune generazioni del passato, e da almeno vent’anni non c’è ricambio generazionale. Sarebbe bene rammentarlo quando si depreca la grande disoccupazione giovanile, soprattutto quella intellettuale, che da un bel pezzo non fornisce più la necessaria classe dirigente di questo Paese. Un secondo pensiero è poi questo: che il mito della giovinezza, in stillato attraverso la pubblicità, la moda, il salutismo, produce in tutti una “sindrome di Peter Pan”, cioè un inconscio desiderio di non crescere; e questo mito contribuisce a una specie di immaturità e fanciullismo di massa.
Buon per loro, per gli anziani, naturalmente, che, avendo degli interessi, come si è visto non invecchiano (salvo quelli poveri, che ovviamente, essendo poveri, di interessi se ne possono permettere pochi). Noi, tuttavia, speriamo invece molto dalla divulgazione delle notizie che vi abbiamo dato. Si può infatti profetizzare che, una volta diffusosi il concetto di possibile intervento sull’invecchiamento, i miti esistenti si ribalteranno completamente, e magari anche l’attuale assetto sociogenerazionale. Pensateci anche voi. Che accadrà quando si dovrà pensare non già a ospizi per anziani, ma a ospizi per i giovani? E quando grandi imprenditori multinazionali lanceranno gli “ostelli della vecchiaia”. E quando ci saranno solo concerti rock per la terza età? E quando si apriranno fast food per sessantenni, e gli stilisti si dedicheranno alla “linea anziana”?
Quel giorno i consumi tenderanno verso nuove forme. Ci si tingerà i capelli di bianco per apparire un po’ più maturi, ci si dedicherà agli stravizi per vedere di abbattersi un po’, si compreranno stampelle al posto dei windsurf e degli skateboard, e sarà bello avere le dentiere invece di quei tremendi sorrisi smaglianti di oggidì. La riprova? In Germania è nato in questi giorni il gruppo delle “Pantere grigie”, associazione di vecchietti d’assalto.

(“Panorama”, 13 agosto 1989)

16. Apocalisse gialla.
Un terremoto a Tokyo può distruggere l’economia mondiale. E una banca nipponica simula la catastrofe

Le profezie più classiche sono purtroppo quelle catastrofiche, come ci ha insegnato Cassandra. Ma nemmeno la inquietante figlia di Priamo sarebbe capace di arrivare a predire il terribile evento che adesso stiamo per annunciare. Ebbene: il giorno 1 settembre prossimo venturo un disastroso terremoto abbatterà quasi per intero la città di Tokyo in Giappone, nonché molti abitanti della zona.
Voi direte: «mio Dio!», con un sentimento di angosciata pietà per i milioni di vittime, ma al tempo stesso con un sospiro di sollievo per la lontananza del pauroso pericolo. Ma sbagliereste di grosso. Le vostre case certamente non crolleranno come quelle nipponiche, ma non per questo avrete minori danni indiretti. Accadrà infatti che il governo giapponese dichiarerà l’emergenza, e inizierà subito l’opera di ricostruzione. Come? Ovviamente, stanziando tutti i fondi disponibili, e per prime le riserve nonché gli accantonamenti per l’investimento estero (che sarà pertanto sospeso sine die). La cifra è di seicento miliardi di dollari, ovvero novecentomila miliardi di lire, pari al prodotto nazionale lordo della Gran Bretagna.
Ebbene, questa incredibile montagna di soldi non riguarda solo i giapponesi, ma il mondo intero. Costituisce per esempio il 20 per cento del denaro che entra annualmente negli Stati Uniti, e che serve a colmare il notorio bilancio passivo di quel Paese, nonché a essere riciclato dagli Usa nel mondo occidentale sotto forma di aiuti economici, soprattutto al Terzo Mondo. Pertanto, come in una catena di Sant’Antonio a rovescio, succederà che d’un colpo la produttività americana avrà un tracollo, con conseguenze irreparabili per gli altri Paesi industrializzati, e con prospettive di fame e bancarotta per il Sud America, per il Sud Est asiatico, per l’Africa.
Nel giro di un anno i Paesi ad alta inflazione non potranno pagare non già i debiti (che tuttora non possono onorare), ma nemmeno gli interessi, e si rifiuteranno unilateralmente di farlo, con rischio di rotture diplomatiche impensabili nell’area capitalistica. E nei Paesi “in via di sviluppo”, che già non amano il nostro modello di vita, scoppieranno rivolte popolari e rivoluzioni radicali. La pressione dell’immigrazione arriverà a livelli insopportabili nelle zone metropolitane. Le grandi città si trasformeranno in giungle invivibili, un po’ come già accade a Città del Messico o a San Paolo. E si moltiplicheranno i movimenti fascisti e razzisti, alimentati da nuove paurose percentuali di disoccupazione locale: 33% negli Usa, almeno il 65% in Italia. La situazione che il film Fuga da New York immagina per l’anno 1997 arriverà insomma con qualche anno di anticipo.
Come Savonarola e come i Millenaristi, adesso anche noi trarremo conseguenze morali dalle previsioni catastrofiche dell’immediato futuro. Una in particolare: che la sciagura del prossimo 1 settembre poteva essere evitata, e che in fondo è tutta colpa nostra. Non l’evento naturale, ovviamente. Ma quello economico sì. Non ci potevamo accorgere in tempo che gli intrecci finanziari internazionali costituivano una rete talmente fitta che un piccolo fatto negativo in un luogo avrebbe portato tutti gli altri, anche gli in colpevoli, al disastro? Non ci si poteva rendere conto prima che o le economie locali dovevano avere delle autonomie o dovevano esistere organismi sovranazionali di controllo ben più attrezzati dell’Onu? (la questione della sovranità brasiliana sullo scempio dell’Amazzonia, che influisce sull’ecologia planetaria, era già un segnale di questo tipo).
Dopo tanti annunci di sventura, adesso però tranquillizzatevi. Il terremoto del giorno 1 settembre ha scarse probabilità di avverarsi sul serio. È solo una simulazione, che non abbiamo fatto noi, ma che si accinge a sperimentare su dati econometrici la Tokai Bank giapponese, e che è stata annunciata da un articolo scientifico pubblicato nella “Economy Monthly Letter” del mese di luglio. Le riflessioni tuttavia è bene che restino. In fondo, il Giappone è una zona ad alto rischio sismico (gli esperti prevedono un terremoto entro il 2010). E la simulazione della banca nipponica è quasi quasi una minaccia. Come dire che il Sol Levante sconfitto nella guerra ci ha già conquistati tutti: che accade se al posto del terremoto i banchieri decidessero di bloccare comunque quei loro seicento miliardi di dollari?

(“Panorama”, 27 agosto 1989)

17. Saremo robot.
Dieci milioni di automi nel 2000. Finiremo per imitarli?

Nel mese di agosto sono apparse tre notizie, di fonte diversa e lontanissima, che ci hanno fatto riflettere sul futuro dell’umanità. La prima è francese. Il Bureau International du Travail (Bit) ha pubblicato il lO agosto una previsione sullo sviluppo della robotica nell’industria per l’anno 2000. La stima è che allo scadere del secondo millennio esisteranno nel mondo, ovviamente soprattutto occidentale, ben lO milioni di robot. Il che fa un robot ogni 6.000 abitanti del pianeta, ma molti di più se ci restringiamo alla popolazione delle aree appunto industrializzate. (I giapponesi hanno già adesso 141.000 automi, e gli Stati Uniti li seguono a stupefacente distanza al secondo posto con soli 29.000). Insomma, mentre noi umanisti pensiamo alle saghe di Isaac Asimov ancora come a della fantascienza, o al mito del Golem come a un incubo dell’immaginario occidentale, nella produzione invece si traduce tutto già in realtà. E il Bit ha pubblicato la sua previsione appunto per mettere in guardia sui rischi della automazione incontrollata. Noi recepiamo, e a nostra volta diffondiamo. Anche perché i dati ci indicano qualcosa di interessante. Mentre la robotizzazione in assoluto diminuisce gli incidenti sul lavoro, per esempio, è anche vero che ogni dieci disgrazie mortali che avvengono nel mondo solo quattro dipendono da errori operativi degli uomini, e ben sei da “funzionamento spontaneo”, cioè perdita di controllo delle macchine. E qui viene la seconda notizia, stavolta di fonte americana. Riguarda un nuovo tipo di sperimentazione dei robot che si chiama “telepresenza”. Funziona in questo modo: poiché quando si deve controllare a distanza un automa, la possibilità di controllo dei suoi errori diminuisce per diminuzione della percezione sensoriale dei suoi gesti, allora si è deciso di fornire ai robot una specie di “estesica”. Il robot cioè, prova delle sensazioni artificiali, del tipo di quelle umane, a contatto con le cose: buona o cattiva presa, buona o cattiva maneggiabilità, temperatura alta o bassa, scivolosità, eccetera. E le rinvia al controllore elettronico nelle mani dell’uomo che aziona il robot, che cosi può regolarsi e rischiare solo il necessario. Ma adesso veniamo alla terza notizia, di provenienza Unesco, e sempre concernente il lavoro nel 2000. Un gruppo di tecnici prevede che alla fatidica scadenza, oramai il 70 per cento dei lavoratori del mondo svolgerà le sue mansioni dinanzi a un teleschermo, cioè pigiando bottoni rispetto a dati e comandi provenienti da un televisore. È probabile che quello stesso 70 per cento di lavoratori a casa guardi la tv per divertimento o informazione, e così se ne può evincere una totale teledipendenza degli esseri umani nella cifra di circa 4 miliardi e mezzo di persone. Adesso non possiamo proprio fare a meno di trarne una conclusione catastrofica. Le previsioni (scientifiche l) ci dicono che nel 2000, mentre i robot saranno sempre più umani (macchine che si ribellano, automatismi “intelligenti” e addirittura provvisti di sensorialità simulata), gli uomini saranno sempre più robot (percezioni perdute a causa della tv, lavoro automatico dinanzi a uno schermo). Il linguaggio, che è sempre una testimonianza del mutamento sociale, ce ne dà la riprova. Nel nostro lessico quotidiano abbondano già metafore macchiniste che interpretano il nostro corpo e la nostra mente come automi. «Oggi non sono in forma, mi manca qualche chip». «Ieri ho commesso un fatal error». «Ne ho buscate un sacco, mi hanno proprio formattato». «Ero così sbronzo che ho dovuto mettere l’automatico per tornare a casa». «Van Basten è una macchina da goal». Siamo forse antiprogressisti? No, siamo solo realisti. Le macchine non fanno paura, perché sono sostanzialmente stupide. Ma se a regolarle dovesse essere una umanità ancora più stupida delle macchine, che cosa succede?

(“Panorama”, 10 settembre 1989)

18. Mostre vagabonde.
Per iniziativa del Beaubourg, una esposizione sulle immagini della civiltà moderna farà il giro del mondo. Italia esclusa

Uno degli ultimi bollettini-stampa del Centre Pompidou di Parigi porta l’annuncio di una grande iniziativa di cui, per una volta, il Beaubourg non è il solo promotore, e nemmeno il presentatore in anteprima. Si tratta di una mega-esposizione sull’immagine in movimento nella società contemporanea (cinema, animazione, video, computer), che parte dalle esperienze storiche d’avanguardia di questo secolo e raggiunge i progetti fantascientifici del prossimo avvenire massmediologico. Il titolo francese è Passages des images, e impegnerà l’istituzione parigina per oltre tre mesi nel 1990, cominciando da ottobre. Ma la prima uscita è prevista alla fine di quest’anno ad Amsterdam, allo Sytedelijk Museum. E con varie scadenze vi saranno sortite in altrettanto prestigiose sedi a Los Angeles, a New York, in Germania federale, in Gran Bretagna, forse in Spagna, e sicuramente si prepara un gran finale in Giappone, al Nakajirna Museum di Tokyo per la primavera del 1991. In totale, una mostra lunga un anno e mezzo.
Che cosa ci sarà dentro ancora è presto per saperlo con esattezza. La voce vuole che per la prima volta si faccia l’inventario e la storia di tutte le grandi tappe che nella nostra epoca hanno portato alla creazione delle immagini mobili, rappresentando sia i prodotti che hanno segnato un’epoca dal punto di vista tecnico (per dire: il primo apparecchio cinematografico, il primo film sonoro, il primo film a colori, il primo televisore, il primo programma tv, la prima immagine sintetica, e così via), sia quelli che hanno caratterizzato un’estetica, perché vanno considerati a buon diritto “capolavori” artistici (per esempio: un film di Man Ray, un esperimento di Eisenstein, un video di Nam June Paik, e chi più ne ha più ne metta). Un altro elemento dell’esposizione è poi che in ogni Paese essa tenderà ad accrescersi. Amsterdam parte con un certo nucleo, e Parigi, mettiamo, lo riprende. Ma Parigi, se vuole, può aggiungere quel che crede, e variare catalogo e organizzazione secondo le sue disponibilità; e cosi gli americani, e così tutti gli altri fino ai giapponesi.
Se l’impresa andrà bene ci troveremo dinanzi a una trasformazione radicale del modo di fare esposizioni nel mondo. Già si era notata una sempre maggior divaricazione fra i mega eventi e le piccole iniziative locali (in via di estinzione). Ma al massimo si trattava di esposizioni che partivano da un Paese, e poi venivano “vendute” all’estero. Adesso esiste una collaborazione internazionale, e un circuito espositivo che accomuna tutte le nazioni industriali nel nome dell’arte e della cultura. Manca solo l’Italia, che pure le grandi mostre le ha inventate negli anni Settanta. O noi non diamo sufficienti garanzie (economiche, di autonomia del culturale dal politico), o davvero stiamo ritornando alla periferia dell’impero. Passages des images, infatti, da noi neppure transiterà.
Una seconda osservazione, con annessa profezia, è che se esiste un circuito che unifica pubblici tanto diversi come quello francese, l’americano, il giapponese, allora vuol dire che anche le culture si stanno omogeneizzando. Il che è evidente soprattutto per quegli artefatti intellettuali che sono le immagini tecnologiche: le conoscono, allo stesso modo o quasi, tutti gli adulti dei Paesi industrializzati; sono il vero esperanto realizzato. E la ragione è la loro trasferibilità, per mezzo delle macchine, da un luogo all’altro del pianeta, ripetendole ed eliminando il concetto di originale persino nel mondo dell’arte. Le tecnologie risultano così il vero grande sperimentatore sociale della nostra epoca. Alle soglie del 2000, mentre risorgono i nazionalismi più esasperati, non ci accorgiamo che invece, più o meno, è già in scena una società senza frontiere. E che, senza saperlo, siamo già cittadini del mondo.

19. Eppur si muove.
Un computer, un televisore. E una figura può essere animata. Da casa

Robert Abel è un californiano famoso in tutto il mondo per la produzione di effetti speciali televisivi, ottenuti nel suo studio, la And Communications di Los Angeles, mediante le più sofisticate tecnologie elettroniche. Fra le specialità di Abel si annoverano le cosiddette “immagini sintetiche”, ovvero una forma di animazione di figure disegnate ma straordinariamente realistiche, generate da apparecchi computerizzati.
Ebbene, giunge adesso notizia dall’America che Abel sta andando ben oltre. La sua ultima fatica è un documentario su Guernica, la celebre opera di Picasso, che il tecnico californiano è riuscito a trasferire su un videodisco interattivo. Che cosa vuol dire? Che il documentario può essere visto normalmente sul televisore, ma può anche essere manipolato dallo spettatore. In questo modo: collegando tv e computer, il lettore può arrestare l’immagine quando vuole, e chiedere per esempio l’approfondimento di un dettaglio dell’opera; oppure, può lui stesso intervenirci sopra graficamente; o ancora può inserire nel video ulteriori immagini che abbia immagazzinato nel proprio cervello elettronico. Fino a produrre un proprio personale nuovo documentario.
La procedura, certo, è molto costosa. Ma sul mercato c’è anche qualcosa di meno caro. La Apple ha infatti prodotto un programma per computer, dal nome Mona Lisa, col quale si inserisce la Gioconda di Leonardo nel calcolatore, e poi la si trasforma a piacimento (le si possono fare i baffi come Duchamp, le si scrivono sopra testi e didascalie), magari trasferendola sul televisore se si ha un cavo di collegamento. Ci siamo. La notizia è un segno, un augurio, una traccia che possiamo interpretare profeticamente. E infatti basta riflettere un momento. Questi che sembrano “giochetti”, sia pur molto spettacolari, preludono a qualche grosso cambiamento sociale. Per esempio, ci pare che portino sulla strada della diffusione delle cosiddette “tecnologie ibride”: quelle che unificano tanti apparecchi in un solo quadro di manovra. È ormai il caso del computer. Il computer comanda il nostro ufficio, il nostro archivio, il nostro studio e adesso il nostro televisore. Col calcolatore vediamo la tv, scriviamo a macchina, facciamo telefonate, spediamo fax, disegniamo, pitturiamo, e fra poco faremo perfino i nostri programmi televisivi personalizzati, così, come una volta giocavamo coi videogames. Basterà che la tecnologia costi di meno. Il che sta per avvenire.
Dal “New York Times” del 12 settembre scorso leggiamo infatti che contemporaneamente la Ibm e la Apple stanno studiando un modo per realizzare a basso costo (attorno ai 4 milioni di lire) quel che Abel ha appena prodotto. E da un libro uscito il mese scorso in America di George Gilder, Microcosm, leggiamo che il terrore degli americani è che i giapponesi arrivino prima (si sa infatti di una joint venture fra la Sony e l’olandese Philips per costruire un impianto televisivo multimediale con gli stessi risultati interattivi). La gara è aperta fra gli americani dell’industria dei calcolatori e i giapponesi dell’industria tv.
L’esperimento incuriosisce molto, perché si tratta di uno di quei casi in cui la tecnologia funzionerà, come spesso accade, da sperimentatore sociale. La televisione interattiva e la tecnologia ibrida provocheranno, infatti, un radicale mutamento comportamentale. Finora si era sempre pensato al tele schermo come luogo della ricezione passiva. Adesso non sarà più così, perché lo spettatore potrà fare i suoi stessi programmi, disponendo degli archivi di immagini adatte. Basterà che le reti inviino una base convenzionale prefabbricata, e poi ciascuno ci penserà da sé. Ma questo cambierà molte cose, prima su tutte la mitologia dei media. Se io mi fabbrico una storia di Zorro o di Lassie come voglio io, che ne resta di un mito, che per alimentarsi ha bisogno di essere condiviso da tutti? Se io faccio da solo tutte le variazioni possibili della Gioconda, che rimane sia di Leonardo (il “genio unico”) sia di Duchamp (il “dissacratore unico”)? Muore il capolavoro e muore l’avanguardia, muore l’idealismo ma anche la trasgressione. Si instaura la sola Età del Gioco. Roland Barthes, che diceva che il Mito è di destra, forse sbagliava. Anche un mondo senza miti può essere molto, molto di destra.
E questa è forse la giusta profezia finale. Stiamo entrando in un’epoca in cui tutte le attività intellettuali si vanno sì allargando a livello di massa, ma sotto una parvenza totalmente Iudica. A noi piace l’idea di una società estetizzata, in cui tutti possano irridere il capolavoro o modificare a piacimento i messaggi. E però paventiamo che quella stessa società annulli e assorba tutte le forme di eversione che nel gesto avanguardistico, sia pure un po’ elitario, risiedono. Una società “giusta” non deve essere tranquilla. Ha bisogno di un po’ di veleno per poter continuare a pensare. E qui, invece, non si fa altro che produrre antidoti e tanta buona digestione.

(“Panorama”, 22 ottobre 1989)

20. L’ultima frontiera.
È quella del sapere. In un futuro senza più confini geografici, la cultura funzionerà da “barriera” fra i popoli

Dal giorno 1 novembre in Europa sembra che venga abolita una frontiera, quella fra la Francia e la Spagna. I Pirenei saranno restituiti alla loro pura identità montuosa, e perderanno quella di barriera politica fra due Stati. È un caso clamoroso per il Vecchio continente, dove gli Stati occidentali hanno origine antica. E forse pensando alla novità, l’Istituto italiano di cultura di Parigi, che pubblica periodicamente una rivista, “50, rue de Varenne”, come supplemento della mondadoriana “Nuovi argomenti”, ha deciso di pubblicare nel suo prossimo quarto numero un tema monografico a cura di Claudio Magris dedicato appunto al tema delle frontiere. La notizia ci sembra degna di riflessione, perché in effetti mai come in questi ultimi tempi abbiamo assistito alla ridiscussione di tutte le frontiere politiche del mondo. I geopolitologi, anzi, ci informano che attualmente addirittura l’80 per cento dei confini non è condiviso o è, addirittura, contestato (prendiamo l’informazione da “Le Monde”). Intanto il papa in un discorso a Seul rilancia l’idea delle innaturalità di molte divisioni “nazionali”. Mentre i socialdemocratici tedeschi profetizzano l’abbattimento del muro di Berlino e la riunificazione delle Germanie, e i socialisti francesi guardano all’allargamento del Mercato comune a certi Paesi del Patto di Varsavia, come l’Ungheria e la Polonia. Sembra l’avvento di un mondo in cui i confini, anche grazie alla forte omogeneizzazione sociale provocata dai mass media, cadono uno dopo l’altro, e in cui si preannuncia il “villaggio globale” di McLuhan non solo nello spirito, ma anche nel concreto.
Ma siamo proprio sicuri che le cose stiano così? A noi sembra invece che vi siano segni profetici anche del contrario. E cioè del fatto che: le frontiere continuano a esistere, sia pure in modo differente. Il punto diventa allora questo: di fronte alla oggettiva scomparsa di alcune vecchie frontiere, quali sono e dove sono le frontiere nuove o quelle del prossimo futuro? Alcune frontiere, a dire la verità, appaiono frutto di nostalgia. Sono quelle dei piccoli nazionalismi risorgenti: le Repubbliche baltiche in Unione Sovietica, le Repubbliche islamiche sempre nel grande universo russo, Timor in Indonesia, gli sloveni in Yugoslavia, i tibetani in Cina, e così via. Ma a parte i casi di frontiere “regressive”, tutte le altre sono frontiere di tipo completamente inedito, che talora non assumono nemmeno la forma classica del confine, cioè quella di una linea di demarcazione. Le nuove frontiere, come ha detto Julia Kristeva, sono più dentro di noi, in forma inconscia e culturale, che in certi segnali presenti nel mondo reale. Per esempio, una tipica nuova frontiera è l’aeroporto, cioè un luogo in cui la separazione fra “interno” ed “estero” è totalmente simbolica. Altre frontiere esistono soprattutto nelle metropoli. Il ghetto è forse la più inquietante fra queste, perché disegna una mappa non dichiarata di appartenenze territoriali basate su criteri di razza, lingua, gruppo (spesso delinquenziale). Ma assai simile al ghetto c’è il suo apparente contrario, il quartiere esclusivo, la zona in cui una classe sociale tenta di costruire barriere protettive. Una frontiera sempre più rigida è anche quella delle istituzioni: per accedere ai servizi come la sanità, il fisco, la previdenza sociale si deve sempre di più essere forniti di un passe-partout (raccomandazione, competenza burocratica, assistenza legale, eccetera).
Insomma, come ha scritto un grande semiologo russo, Jurij Lotman: le frontiere sono una costante della cultura umana. Servono per differenziare delle porzioni di sapere, dei blocchi culturali che definiscono le nostre identità, e, pertanto, subiscono trasformazioni, ma non si eliminano mai. Il problema delle frontiere moderne diventa semmai quello di saperle riconoscere, visto che gli antichi segni territoriali sono scomparsi, e le nuove frontiere sono soprattutto fatti culturali. Presto agli atlanti di un tempo dovremo sostituire delle carte nuove, non più una geografia fisica, ma una geografia del sapere.

(“Panorama”, 5 novembre 1989)

21. Giuda, il buono.
Goring, Bucharin, Stalin, Topolino. I cattivi del passato vengono ora assolti. Anzi riabilitati

Due notizie ci hanno colpito in questi ultimi tempi, una proveniente dall’Urss e una dall’Inghilterra. In Unione Sovietica, dopo le riabilitazioni di Bucharin e di molti altri leader messi a tacere da Stalin, adesso è toccato niente di meno che a Topolino. Il vecchio Mickey improvvisamente è stato tradotto in duecento milioni di copie (si sa che in Russia le cose si fanno sempre in grande), che sono ovviamente andate a ruba. Ma forse non tanto per l’inconscia “sete” di prodotti occidentali nei Paesi dell’Est, quanto per la curiosità di vedere come poteva divenire compatibile col socialismo realizzato quel che da sempre è stato identificato come il simbolo del capitalismo americano e della società del New Deal.
In Inghilterra la riabilitazione è stata ancora più clamorosa. Lo storico David Irving ha riabilitato Hermann Goring, il numero due del nazismo, colui che finora credevamo uno dei più feroci gerarchi di Hitler. Nel libro Goring, che è stato tradotto da Mondadori in italiano, Irving racconta che son tutte storie. Goring quasi amava gli ebrei, era colto e gentile, non voleva invasioni di terre altrui, e gli piaceva tanto l’Inghilterra.
Noterete, prego, che queste due riabilitazioni hanno qualcosa in comune. Intanto, sono due punte di iceberg di una pratica sempre più frequente nei media (e di cui Irving è fra l’altro maestro). Con regolarità, certi personaggi storici subiscono una valorizzazione o un attacco al culto della loro personalità: è diventato un “genere” giornalistico. Qualche esempio recente: attacco a Togliatti e un pochino anche a Berlinguer; rivalutazione di Che Guevara; osannanti biografie dei secenteschi cardinali Richelieu e Mazarino; il generale Custer non era poi così perfido, mentre Buffalo Bill forse era un buffone; Picasso era sadico e picchiava le donne; John Lennon era un cialtrone dominato da Yoko Ono; Eugenio Montale si faceva tradurre le cose dalle lingue straniere.
Il secondo tratto comune è però che le nostre due riabilitazioni sono “al limite”. In entrambi i casi, è il nemico storico che rivede il giudizio sul suo avversario: la Russia diffonde il simbolo del capitalismo, l’Inghilterra fa la pace col proprio perfido aggressore. E sono best seller.
La tendenza ci sembra oggi molto chiara, e noi siamo in grado di profetizzare riabilitazioni e condanne finora mancanti, ma che sarebbero il top di questo genere. Uno storico delle invasioni barbariche potrebbe studiare da capo per esempio la figura di Attila, mostrando innanzitutto come gli Unni fossero gente colta è niente affatto feroce, e poi ribaltando il proverbio che diceva che dopo il loro passaggio “non cresceva un filo d’erba”. Al contrario, la politica di Attila era quasi ecologica, perché lui non attaccava le campagne, ma le grandi città. Da uno storico delle religioni possiamo invece attenderci una riabilitazione di Giuda. Una revisione degli atti processuali intanto potrebbe far vedere che di Giuda fra gli Apostoli ce n’erano due, e che potremmo aver assistito a un tragico errore di persona. E poi già Borges aveva intuito che nell’affaire del bacio è accaduto qualcosa di strano: Gesù ha bisogno del tradimento per il sacrificio, dunque è la Provvidenza divina che crea Giuda, e dunque anche Giuda è Dio! Facciamo attenzione prima di pronunciare precipitosi commenti.
Certo che le riabilitazioni o le cadute dei personaggi storici, una volta giunte al limite, rischieranno di indebolire il genere. Così come lo indeboliranno inversioni di tendenza troppo repentine. La nostra ultima profezia, dunque, è che presto si debba arrivare a una regolamentazione e debilitazione. Suggeriamo fin d’ora almeno due principi. Uno: che le riabilitazioni debbano seguire un ordine gerarchico. Ovvero, che maggiore è la fama dei personaggio storico, minore sia il numero di possibilità di cambiarne ritratto. Per esempio, Napoleone può riabilitare una volta sola, e così Hitler, Stalin, Robespierre, o, dall’altro lato, Giovanna d’Arco, Papa Giovanni, Robin Hood o Guglielmo Tell. Per Gramsci e Luigi Einaudi si può arrivare a due o tre, per Cavour anche a cinque. Due: che le riabilitazioni debbano avere un intervallo minimo. Ovvero, non più di una riabilitazione per secolo nei casi poco controversi, non più di una ogni decennio in quelli più dubbi. Insomma, Goring adesso non deve essere più toccato per almeno cento anni, deve “stare buono” per un secolo prima di poter ridiventare cattivo.
Se il sapere non ha il tempo di stabilizzarsi un poco, si rischia altrimenti l’anarchia, l’instabilità, la catastrofe. Chi crederà più ai giornali.

(“Panorama”, 3 dicembre 1989)

22. Attenti al sarcasmo.
La comicità si fa intelligente. E di massa. Il merito? Della televisione. E dei modi di dire

La notizia è questa: un giovane comico bolognese, Alessandro Bergonzoni, ha scritto un libro di “nonsense” per la Mondadori dal titolo Le balene restino sedute, e poi ne ha tratto una lettura-spettacolo che sta portando in giro per i teatri italiani. Il libro è divertentissimo, ma anche molto sofisticato, per palati fini. Eppure, è rimasto per alcune settimane nelle classifiche dei libri più venduti, e le performance teatrali vedono il pieno tutte le sere. Insomma: si tratta del piacevole fenomeno che un prodotto intelligente e raffinato una volta tanto gode di un successo di massa. Commentiamo adesso l’evento, perché dalla riflessione, come si vedrà, è possibile trarre qualche segnale che riguarda il futuro della comicità nell’epoca dei massmedia. Innanzitutto, perché Bergonzoni ha successo nonostante il suo lavoro abbia un lettore-modello d’élite? Fra le varie spiegazioni ce n’è una banale, che non riguarda solo l’attore, ma anche qualche altro personaggio, come Vittorio Sgarbi, che ha scritto un libro di critica d’arte per Rizzoli, Dietro l’immagine, che sta vendendo un sacco di copie. Li accomuna il fatto che entrambi hanno partecipato fittamente al Maurizio Costanzo show, che ne ha fatto dei divi della tv. E chi è conosciuto in televisione, poi vende bene i libri che scrive (anzi, talora comincia a scriverli solo perché è conosciuto in televisione). Solo che dietro al successo di Sgarbi e Bergonzoni ci sono fatti diversi. Il publico compra il primo non per leggere di arte, ma per vedere se per caso dentro il suo volume ci sono nuove scandalose offese a qualcuno. Ma acquista il secondo proprio per il suo vero mestiere, la comicità di cui ha avuto scampoli professionali sul piccolo schermo. Bergonzoni piace perché è un buon comico, e, come si è detto, di tipo nuovo e sofisticato. C’è evidentemente qualcosa nei suoi testi che motiva il successo accanto al fatto di essere stato “spinto” da Costanzo. E che cosa è questo qualcosa? È presto detto. Bergonzoni costruisce le sue frasi assurde prendendole a prestito dalle frasi fatte del linguaggio dei media e del linguaggio popolare. Solo che ogni frase comincia con un attacco proverbiale, e si conclude inaspettatamente con un altro, provocando sì il nonsenso, ma anche una specie di deflagrazione di suoni e significati che fa ridere anche se non vuol dire nulla o non la si capisce. Esempi: «Il sindaco di Tortona potrebbe essere una ciliegina», «erano tempi in cui Silvestro non era ancora santo ma solo gatto», «io ero nel classico periodo in cui guardavo un uovo e chiedevo: chi sei tu? né carne né pesce», «per un pugno Martin perse l’apparecchio», «Orson Welles, or son chi mi pare», «qui gatta cicogna».
E adesso possiamo arrivare alla riflessione profetica, cominciando a ricordare quel che ha detto il formalista russo Vladimir Propp sul comico: «Più natura c’è, meno si ride; più cultura c’è, più si ride». Il che significa che il comico funziona per stereotipi, cioè per pezzi preconfezionati di cultura; quando invece si parla delle” cose”, far ridere diventa più complicato. Ma quali sono i pezzi preconfezionati di cultura? Sono proprio quelle frasi che i linguisti chiamano “idioms”, quei pezzi di discorso così bloccati che vanno ripetuti come sono, altrimenti cambiano senso. Per esempio, “casa di campagna” è come una parola sola, non tre, perché non possiamo cambiare la sua struttura e dire “casa della campagna”, “casa nella campagna”, “casa di ridente campagna” e così via. Ora, tutte le lingue hanno i loro idioms, e anzi ne costruiscono sempre di nuovi. La comicità quasi sempre consiste nel rompere questi idiomi, sbloccandoli dal loro senso prefissato, e così facendo esplodere il ridicolo che potenzialmente contengono. Ma oggi, con i mass-media, le nostre lingue stanno diventando quasi totalmente idiomi. Ed è questo che Bergonzoni ha scoperto. Che si può giocare facilmente con la lingua dei media che ormai tutti parliamo tutti i giorni, e che ne può sortire un mondo estremamente derisorio, perché basta mettere in luce il comico involontario che già c’è e che inconsciamente anche noi percepiamo.
Rivolgiamo dunque a giornalisti, uomini di televisione, pubblicitari, politici e ovviamente anche a tutti i consumatori dei loro discorsi una profezia. Attenzione al tono con cui parlate, perché la cultura di massa ci riserva un futuro in cui tutto quel che diremo potrà essere usato contro di noi a causa del suo implicito sarcasmo. I media, facendo sparire i discorsi sulle “cose” e sostituendoli con discorsi prefabbricati, ci regaleranno un mondo sempre più simulato. E perciò un mondo sempre più comico, in cui però, purtroppo, come ha detto il massmediologo americano Neil Postman, ci sarà da “divertirsi da morire”.

(“Panorama”, 24 dicembre 1989)

23. Il nemico? La filosofia.
Intervista ad Algirdas Julien Greimas
Omar Calabrese, Paolo Fabbri

Lituano di nascita, 73 anni, da quasi trenta in Francia, dal 1965 direttore degli studi di semantica generale della prestigiosa Ècole pratique des hautes études di Parigi, Algirdas Julien Greimas (autore tra l’altro di un famoso Dizionario ragionato della teoria del linguaggio) è stato ed è un autentico profeta della semiologia. A lui “Panorama” ha chiesto un parere sullo stato di salute della sua disciplina.

Lei crede che la semiotica sia in crisi, come dicono alcuni?
La crisi delle discipline dipende dalI’epistemologia generale di un’epoca. Per esempio, dalla fine degli anni Settanta abbiamo avuto la crisi della fiducia nell’oggettività, delle scienze cosiddette “dure”. Feyerabend e altri ci hanno insegnato che le scienze non sono fondate su nulla. E tuttavia oggi si è tornati alI’esigenza di qualcosa di più solido in ambito scientifico, introducendo il concetto correttivo che, se una scienza globalmente fondata non può esistere, tuttavia si possono dare ricerche rigorose e coerenti in terreni localizzati e più controllabili.

Ma si può fare un paragone fra scienze e scienze umane? Lei crede che la semiotica sia una scienza?
Si tratta di una metafora, senza dubbio. Va detto, però, che in certe discipline umanistiche, come la filosofia analitica e certamente la semiotica, esiste un’esigenza di rigore e coerenza della ricerca che fa avvicinare le due culture, quella scientifica e quella umanistica. II problema della semiotica è che molti, ingenuamente, si avvicinano a essa pensando che essa dia risposte esatte e univoche sui fenomeni per i quali viene interrogata. Ma, francamente, mai i semiologi hanno preteso nulla di simile. Anzi, potremmo dire che è stata la semiotica stessa a produrre quella “episteme” relativistica che fa affermare l’esistenza di una crisi. Siamo stati noi, infatti, ad asserire che la verità non esiste, ma esiste solo la “veridizione”, cioè l’effetto di verità all’interno dei discorsi.

Negli ultimi anni, però, vi sono stati numerosi abbandoni, anche da parte di nomi celebri come Tzvetan Todoroov, Jean [sic] Genette, Julia Kristeva…
Questa domanda fa pensare alla semiotica come a una religione, che incatena chi la abbraccia. Diciamo invece che la discussione critica sulla semiotica ha fatto sì che un filologo possa tornare più agguerrito alla filologia, un antropologo all’antropologia, un sociologo alla sociologia… insomma a tutti quegli studi che hanno oggetti solidi e necessari. Si pensi al valore che ha avuto Lévi-Strauss per gli storici! L’unico “ritorno” che non capisco è quello alla filosofia. Negli anni Sessanta “filosofia” è stato un termine quasi disprezzato nell’ambito delle scienze umane: perché lontano dall’idea di rigore, e perché si può fare filosofia anche fuori dalla ricerca(non esiste una “professionalità” filosofica). Oggi, invece, il termine è di nuovo valorizzato, soprattutto a causa della cultura americana, che ne fa una barriera precisamente contro le scienze umane, che non ha mai voluto accettare pienamente.

Forse c’è una crisi della semiotica proprio nell’università?
Sì, è vero. Ma solo dove le strutture universitarie siano antiche e solidissime. Dove sono di formazione recente si dà il caso contrario. Questo perché le organizzazioni tradizionali hanno una dinamica interna molto polemica: sanciscono la bontà dell’esistente e diffidano della novità. Se si pensa che il XX secolo è stato il secolo delle scienze umane, si vede subito che la forza di questa innovazione tende a produrre posti di lavoro a danno di quelli tradizionali. E i professori tradizionali si difendono, come è naturale. Ma allora questo non dipende dalla semiotica, dipende dalla speciale sociologia dell’Homo academicus.

(“Panorama”, 22 aprile 1990)

24. Chi resta, chi fugge.
Omar Calabrese, Paolo Fabbri

A scanso di equivoci, diciamo subito che alla crisi della semiotica noi non crediamo. Crediamo invece a un suo assestamento, come sempre accade dopo l’irruzione di un nuovo paradigma scientifico nel campo del sapere. Negli anni passati, infatti, è accaduto che l’apertura di un nuovo orizzonte di ricerca abbia fatto imbarcare per l’avventura molta, troppa gente. Ma di solito chi affluisce a una “nuova” disciplina? O i troppo intelligenti o i troppo stupidi delle discipline vicine, e questo provoca un periodo inaugurale tumultuoso, che viene scambiato per successo. Per la semiotica è avvenuto proprio questo: ci sono stati i troppo intelligenti (Barthes, Eco, Jakobson per esempio), e anche i troppo stupidi (invitiamo a leggere le opere di molti degli attuali dirigenti dell’Associazione internazionale di studi semiotici). Così si verifica la situazione prevista in economia dalla cosiddetta “legge di Greesham”: la moneta cattiva scaccia quella buona. I troppo stupidi sono riconoscibili, i troppo intelligenti vengono presi per casi individuali, e si fa strada l’idea dell’insuccesso. Fortunatamente, giunge però poi una fase in cui si pensa a far ricerca e non a scoop epistemologici. E noi crediamo che la semiotica sia oggi in questo punto.
Detto questo, va ammesso tuttavia che esistono dei rischi, che riassumeremo con l’esempio di un altro economista, Albert Hirschman. Costui dice che quando in un’azienda si fa strada l’idea che le cose vadano male, alcuni defezionano. Ma l’azienda comincia ad andare male proprio perchè defezionano. I disertori infatti indeboliscono l’omogeneità dell’impresa. In semiotica, le defezioni non sono mai state molte. E però gli abbandoni di gente come Genette, Kristeva, Metz, Todorov e quasi tutti gli allievi di Barthes si fanno sentire.
Esiste però un secondo virus. Quando ci sono dei defezionisti, si forma anche il partito dei lealisti. E i lealisti sono un danno, perché, nel far quadrato, diventano ciechi e dogmatici. Fra i semiologi anche questo accade: che i “lealisti” della scuola filosofica americana si richiudono nella filologia di Peirce; che quelli della scuola linguistica francese chiosano Greimas; che i cosiddetti “culturologi” recitano il verbo di Lotman; e così via, fino alle più irrilevanti scuolette locali.
La salvezza, insomma, sta nei protestatari: stanno lì, ma mettono tutto in discussione. Si agitano, riflettono, litigano. Ma fanno nascere spesso soluzioni nuove.

(“Panorama”, 22 aprile 1990)


Nota

  • Si ringrazia la Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena per avere concesso la riproduzione, a titolo gratuito, degli articoli di “Panorama”. torna al rimando a questa nota
Print Friendly, PDF & Email

Lascia un commento