Punti di intravisione


Da: Carte Semiotiche, n. 4-5, settembre 1988.


1. Tuttologia e/o tautologia

Ogni convegno ha una conclusione e ogni conclusione un inizio; spesso con la figura d’una lista ordinata di rimostranze e benemerenze.
Ma le restrizioni di tempo, i dati «indicativi» (come seguire per esteso quattro conferenze e una cinquantina di interventi?) rischiano di svisare un convegno sul punto di vista. Meglio allora spostare l’angolatura e cedere all’aggrovigliato piacere di un elenco di temi e di nomi propri, toccati o sfiorati nell’arco teso di questi giorni. Si è inteso di Bernini e Matisse, alchimia e feticci africani, film e affreschi e ancora di Borges, Calvino, Cortázar, Eco, Ockham, Saffo, Shakespeare, Virginia Woolf, Segre, Peirce, Hitchcock, Fillmore e di ben altro. I vuoti di memoria sono otturabili con una temibile bibliografia.
C’è chi, sapete, ha tacciato di «tuttologia» questa apparente babele della semiotica. È un errore, che passo a biasimare.
Non c’è programma disciplinare che non prospetti una coerenza e non sospenda alcuni tratti della diversità fenomenica. Ma la singolarità dei fenomeni non è deprezzata; la diversità empirica è ri-costruita per via di differenze formali. La semiotica tiene alla pertinenza più che al rigore: suo intento (se non esito) è l’installazione di un punto di vista, non il cumulo tuttologico del disparato; replicare una certa uniformità per meglio maneggiare il diverso segnico. È un diverso «costrutto», fondato nella forma dell’espressione e del contenuto, che mette il senso in condizioni di significare. Un legato di Jakobson: «la peggior teoria è di non averne alcuna».
La semiotica è competente a trattare portenti e prodigi: si tratta di segni che si spiegano davanti a noi in una prospettiva (Benveniste 1969). Ne segnalerò uno: davanti al mio luogo di osservazione una filza discontinua di testi – quelli del mio elenco – si sono spiegati come un reticolo di «relazioni» di senso, come programmi intelligibili di significazione. Non è un prodigio nel senso dell’«ait» verbum dicendi d’autorità disciplinare, quasi ci fosse una calcolata terminologia accettata da tutti gli ambiti della semiologia. C’era, invece, il cimento di una memoria comune, di una condivisa strategia di problemi; non asse ereditario di sostanze, ma fondo comune di concetti provati se non sempre provetti.
Una memoria può essere quella montaliana «che funghisce su di sé»: tautologia ed è la seconda accusa (o digressione) con cui si è cercato di darci ostracismo. Il convegno invece ha permesso, direi, di ricordare alcune cose che non erano state memorizzate. Non si tratta di aggiunte terminologiche e sotto-specificazioni concettuali, quanto di nozioni conosciute che non si erano inscritte nel supporto testuale della semiotica. I richiami alla fenomenologia, all’«orizzonte epistemologico», a Merleau-Ponty, all’ermeneutica, hanno consentito l’inserzione nel tessuto semiotico di alcune fondamentali interrogazioni filosofiche ed epistemologiche. In questo momento di trasformazione speculativa e di metodo abbiamo ricordato obbiezioni «rate ma non ratificate», notevoli ma non notabili ad un certo momento dell’evoluzione disciplinare. I doni e i dati della memoria, per Leibniz, valgono solo se usati tempestivamente. Mi pare che l’interesse per il punto di vista sia l’indizio (o la concausa) di una difficoltà felice da risolversi all’interno del paradigma di ricerca. Altrimenti i fondamenti assoluti sono puramente decorativi o tutt’al più utensili di controversie; la scelta di discipline «causali» (psicanalisi, marxismo ecc.) del tutto equifinale; illimitato il riassesto delle interdefinizioni.

2. Enunciazione, enunciato, soggettività

Ogni disciplina ha i suoi pacemakers e i sintomi più difficili da diagnosticare sono i «segnapassi» teorici; ma credo di condividere un certo numero di opinioni constatando nel punto di vista uno dei giunti concettuali delle dimensioni dell’Enunciazione e dell’Enunciato.
È noto che negli anni Sessanta l’analisi strutturale ha messo a fuoco (a volte anche a ferro) i problemi narrativi, operando la riduzione dell’istanza d’enunciazione. Il testo di queste prime analisi era ventriloquo: l’istanza della inter-soggettività testuale si sfocava sul fondo o finiva fuori quadro, in una lettura retorica e stilistica non sommabile ai risultati narratologici. Certo la riduzione dell’enunciato presentava e presenta convenienze di trattamento logico, ma il fading del soggetto dell’enunciazione e del gioco regolato dei punti di vista ci lasciava con una probità del vero che era davvero poco, pochissimo. Per contro l’ipotesi di una stilistica semantica non merita di essere abbandonata ed è ragionevole reclamare un’integrazione tra il sapere accumulato sulle strutture narrative e semantiche (assi e tratti semantici, attanti e sequenze d’azioni, modalità costitutive della competenza ad essere e fare) e le esplorazioni in corso sul livello enunciazionale. Auspicabile, l’integrazione non è del tutto esigibile. Se i linguisti, ad esempio, sembrano ritenere che i meccanismi d’enunciazione potrebbero essere un accesso al funzionamento dei mondi possibili (Lyons 1982), molti problemi restano aperti. In primo luogo la collocazione nell’economia teorica generale. Una proposta – altre sono ammissibili – è di farne l’operatore che trasforma la competenza narrativa comune nelle variazioni della discorsività. Latore del discorso, l’operatore enunciazionale sarebbe il luogo del transfert di un sapere antropologico sul condiviso tronco narrativo, attraverso spostamenti, focalizzazioni, «voci» ecc. Qui il récit si fa, o meglio, vien fatto idioma e può predirsi una nuova dimensione della semiotica, quella discorsiva.
Il filo della ricerca si dipana e si intesse all’ordito della filosofia. Riflettendo sulla soggettività, Paul Ricoeur – da sempre sulla traccia semiotica – scrive: «Riassumo queste conseguenze epistemologiche nella formula seguente: non c’è conoscenza di sé che non sia mediata da segni, da simboli e da testi. La comprensione di sé coincide, in ultima istanza, con l’interpretazione applicata a questi termini mediatori» (Ricoeur 1983). La soggettività non si intende fuori testo, non è questione di emittenti o riceventi empirici; va dis-implicata dalla sua iscrizione testuale.

3. Veduta dei testi

Tornare al punto di vista non è quindi un ulteriore giro di boa delle mode nelle discipline della significazione e della comunicazione. È tornare in avanti, verso una teoria della soggettività diversa dalla sua postulazione extratestuale; teoria deducibile, come si è visto durante il convegno, da testi prima facie irriducibili.
La diversità d’approccio è palpabile: nella relazione di Jauss sono i mutamenti storico-sociali – ivi comprese le variazioni delle teorie «indigene» della ricezione – a definire esternamente il senso del testo; nelle letture semiologiche l’indirezione discorsiva di una novella, il montaggio di un film, la disposizione degli affreschi di una cappella, le quinte di una scena teatrale o la direzione degli sguardi in una foto pubblicitaria sono altrettanti dispositivi complessi di comunicazione, simulacri di Emittenza e Ricezione, istanze complesse della loro relazione.
Come ogni frase porta il senso e comporta le proprie istruzioni d’uso comunicativo, così ogni testo mette in scena, ad esempio, una teoria della propria ricezione, una posologia della sua circolazione e consumo. È questo livello che va confrontato con le tipologie connotative della ricezione elaborate da certe culture (o livelli di cultura), tipologie che sono testi di autocodifica con cui una cultura foggia attivamente se stessa; testi che hanno i propri simulacri implicati di comunicazione (Lotman 1980). Le ricezioni concrete sono anch’esse testi e la loro storia non può ridursi ad una storia delle rappresentazioni teoriche e filosofiche; ci sono più cose nella terra e nel cielo della discorsività, Orazio!
La differenza tra tratti «emic» ed «etic» non va cassata mi pare. Questo spiega, o almeno giustifica, che l’impatto speculativo sul punto di vista sia venuto, più che da fiat teoretici, da un concetto di analisi non concertate. È buon segno. I nostri selvaggi sono i testi, terreno a cui tornare dopo ogni viaggio in chiari reami, respirabili elisi della teoria, sgombri dall’onere della prova. Nella pratica testuale, – dove il savoir faire eccede il sapere – si eludono le possibili agiografie (la semiotica tende a costruirsi un passato glorioso, a rifarsi una tradizione) e si formulano nuove premonizioni e predizioni. Da questa pratica si può, a chi piaccia, incamminarsi con Ricoeur verso l’oriente ermeneutico: rotta in un arcipelago discorsivo immanente o via lattea con trascendenti stelle polari. E mentre la filosofia scruta i nostri fondamenti – i nostri mini-massimi epistemologici – la semiotica potrà sempre, con utensili propri, analizzare i testi della filosofia.
Non sono mancati interventi sulla dimensione rappresentativa del testo, sulla «resa» referenziale di mondi attuali e possibili, ma l’assunzione del tema generale ci ha sollecitato a battere – come si dice di un labirinto – i segni degli impliciti o espliciti rapporti d’osservazione che tracciano relazioni tra soggetti immanenti o esterni al testo: tattiche e stratagemmi (micro- e macro-)scopici di messa in prospettiva, focalizzazioni ecc. A cominciare dalla costruzione dei programmi (collimatori e meccanismi di puntaggio) fino alle interazioni complesse e reciproche (incroci di sguardi e di vedute), è stata esposta una panoplia di simulacri, un teatro di operazioni cognitive per le istanze di soggettività e intersoggettività.

4. Difficoltà

Sono emerse allora alcune scabrose difficoltà:
1. Esiste la possibilità di una tipologia esauriente dei punti e contrappunti di vista (potremo allora abbozzarne una storia) in luogo di una affollata bibliografia? Oppure, passata l’ora di punta delle codificazioni, ci resterebbe solo il «punto morto» di una «spessa» fenomenologia (Segre)?
2. È lecito seguitare a «trattare» il testo come una superficie linguistica «ingenuamente data» e come un luogo omogeneo di informazione che la lettura storico-ideologica assesta e/o dissesta? o è d’uopo rinunciare alle premesse cognitive dell’isotopia discorsiva e prevedere un enunciato paradigmaticamente stratificato e complesso ed una variegata punteggiatura visuale che raffigura le istanze dell’enunciazione?
Diciamo, come rimando se non come replica, che la semiotica italiana ha saputo mantenere un intenso contatto con la teoria letteraria e la sua tradizione filologica: ha quindi salvaguardato un interesse per il testo come luogo di punti intensivi, differenti, singolari, al di là delle cogenze logiche, delle coesioni semantiche e delle coerenze lessico-grammaticali. Quanto ad una tipologia, nutrita da una dieta unilaterale di esempi, essa non è auspicabile, proprio per questo riconoscimento della intricatezza testuale, e qualunque sia la sua efficacia euristica immediata. Non si risponde allo sconcerto della complessità con un parto teorico settimino ma con un cantiere di interdefinizioni che lavora in progress.
Il che è pensabile (e persino fattibile) se la vexata quaestio del punto di vista è iscritta nella partita doppia dell’enunciato e della enunciazione in una semiotica discorsiva generale che permette il confronto tra diverse sostanze di espressione (particolarmente fruttuoso è parso il confronto verbo-visivo). Questo viaggio tra Scilla e Cariddi può farsi senza dare a vedere, guardando a vanvera o legati all’albero maestro di una logica proposizionale; oppure associando il punctum delle analisi allo studium di un minimo tipologico.

5. Le poste

Comunque sia, la ricerca ha delle poste su due tavoli (linguistica e semiotica) da gioco: l’integrazione (o almeno la compatibilità) di (1) diversi «regimi di frasi», ad esempio scientifiche e letterarie, e (2) delle dimensioni del valore e della passione.
Quanto a (1) ognun sa che parte ha giocato la visione nello sviluppo della ricerca scientifica (Pierantoni). La strumentazione della ricerca è un teorema reificato ma è anche uno sguardo delegato con una competenza da costruire: l’esperimento che conduce alla scoperta va anch’esso scoperto. È un mutato «colpo d’occhio» che permette, tra l’altro a R. Millikian di accertare la indivisibilità dell’elettrone (e di ottenere il Nobel): la invenzione della strategia sperimentale e lo spostamento del punto di vista da una nuvola di gocce ad una singola goccia (a cavalcioni del proprio elettrone e che il ricercatore vede come il tomista vedeva i serafini) (Holton 1983, cap. 2).
È ragionevole attendersi un confronto interno tra i modi operandi del vedere nei campi scientifici più assodati, sensibili e creativi e una comparazione intertestuale tra questi e le pratiche testuali più in vista. Accostare il lavoro di Millikian alla prise de vue di una fontana in Proust; alla maniera di Calvino nel foggiare uno sguardo, entità autonoma tra il soggetto e l’oggetto (Greimas), per una caratterizzazione meno sbrigativa dei «tipi di razionalità». Programma sterminato: da restarne a tutt’occhi, il che, dopo questo convegno è tutto dire.
Quanto a (2) è piatto constatare che la mancata esplicitazione del punto di vista smorza l’apprezzamento del «valore»; d’altra parte, messa in prospettiva e valorizzazione sono preliminari alla ricerca in atto sulla passionalità, cioè sugli affetti e gli effetti di ogni testo. Scrutarlo dal punto di vista strettamente cognitivo, informazionale e/o tropico vuol dire schivare (se non scherzare) la natura che gli riconosciamo, il carattere anisotropo, i punti singolari di intensità, il suo «raggio variabile». Due letture mi hanno convinto (si è persuasi dalle proprie ragioni, ma si è convinti da quelle altrui): in una si marcava l’indicidibilità del riferimento pronominale in termini puramente referenziali; l’altra rinveniva in Cortázar un caso di irriducibile ambiguità enunciazionale. Solo l’ipotesi non surrettizia di una tonalità patemica, una «isopatia» (espressione ingombrante a cui rinunciamo subito) fa capire come la «verità» apparente del testo persista, ma cambiando di senso e di valore. Ancora una volta è la letteratura moderna l’antesignana di questa apprensione del testo, al di là della grama comprensione. Il suo tenore speculativo è comparabile solo alla sua illeggibilità. La proliferazione della dimensione enunciazionale, a scapito di quella enunciativa, l’afflusso e l’attrito dei punti di vista sono i cardini del meccanismo con cui la scrittura inquisisce il proprio funzionamento. Alla semiotica spetta di concertarne le affollate proposte in livelli interdefiniti di conversione senza coerenze globali e forzose (vedi Bachtin), fuori da scorciatoie formalizzanti, occasioni a diverbi e diversioni (vedi la Textlinguistik).
Insistendo, tra le molte fila del convegno, sui passaggi nell’arcipelago dei discorsi, e sulla interna frattalità dei testi, abbiamo anche noi un «obbiettivo» nella camera oscura della ricerca. La semiotica, allo snodo tra filosofia e linguistica, è anche un’antropologia (gesto ostativo, da tenere anch’esso sotto osservazione); ed una metodologia per le scienze della significazione (cioè per le scienze umane). È stato interessante vederla all’opera (ogni principio può essere disprezzabile ma non la sua esecuzione).

Mi fermerò qui, sapendo che le conclusioni non sono esiti ma punti di ritrovo. Sono stato breve, ma per farsi capire è bene pronunciarsi in fretta e il silenzio che segue è quel «punto vivo» in cui ricercatori che partecipano allo stesso lavoro possono «sogna[re] uno davanti all’altro, con la libertà di vecchi amici che si scambiano talvolta delle idee senza enunciarle».
Allora: punto (di vista) e a capo.


Riferimenti bibliografici

E. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, vol. II: «Vocabulaire latin des signes et des presages», Minuit, Paris 1969.
G. Holton, L’immaginazione scientifica, Einaudi, Torino 1983.
J. Lotman, Testo e contesto, Laterza, Bari 1980.
J. Lyons, Language, Meaning & Context, Fontana, London 1982.
P. Ricoeur, Temps et récit, Seuil, Paris 1983.

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