La spina nella carne


Da: Roberto Saviano, La parola contro la camorra, Einaudi, Torino, 2010.


Una spina nella carne: ecco il mio “effetto Saviano”. Vorrei capire meglio perché.
Prima di tutto perché mi aiuta a intendere prima di giudicare. Contro le organizzazioni criminali è fin troppo facile tonner contre, come nello sciocchezzaio di Flaubert. Per poi cliccare subito ad altro. Immorale è il giudizio senza la comprensione e Saviano ci vuole compresi, in tutti i sensi della parola.
Le mafie o le camorre, non sono soltanto associazioni di mutuo soccorso che sfruttano ogni tipo di illegalismi a spese della società civile e a vantaggio dei propri membri. Sono antisocietà con ideologia e subcultura; capacità di innovazione nell’illecito sfruttamento delle ricchezze e invenzione “militare”; gerarchie flessibili di potere e di gruppi di fuoco. Parlarne non è descrivere un fenomeno di folclore locale, ma additarne la globalizzazione potenziale; i mafiascapes. Per il giudice Falcone, se ci esprimessimo in esperanto la mafia sarebbe già mondializzata.
Saviano non si ferma però alla requisitoria contro la connivenza politica e l’industria della protezione; descrive una cultura, con i suoi codici linguaggi e segni. Se si arrovella sulle parole, come dice, è perché va in guerra dentro il linguaggio stesso delle organizzazioni criminali (“arrovellare” viene dal latino re-bellare, “rinnovare il conflitto”). Contro la prova di forza che impongono, contro il silenzio intimidatorio, Saviano non si limita all’asserzione e all’antitesi, diventa traduttore. Ci spiega fino al dettaglio la grammatica criminale e il suo lessico – soprannomi, pseudonimi e prestanomi compresi. Soprattutto i modi di dire e non dire; le perifrasi, per evitare le intercettazioni e i controlli; il dir troppo degli “infami” e il venire a parole; le presupposizioni e gli impliciti, le allusioni e i silenzi. Ma anche i gesti e gli sguardi, i segni di minaccia (porte incendiate, modi di ferire e di uccidere, cadaveri, escrementi,cartelli stradali bucati, ecc). Un’intera semiotica letale. Falcone avrebbe detto “una chiave di lettura essenziale, un linguaggio, un codice. È stato per noi come un professore di lingue che ti permette di andare dai turchi senza parlare con i gesti”.
Saviano ci forza a non chiudere gli occhi – che è l’etimologia di connivenza – le orecchie e a non turarci il naso, perché questo codice criminale è contagioso e definisce il senso e il valore delle esperienze quotidiane di vita, come dimostra la sua lettura dei media locali. L’apparente normalità è una maschera.
Saviano è una spina nella carne perché configura tutti questi segni in una filza di storie di cui possiamo appropriarci. Per estrarne un senso e di ri-figurarlo nella nostra esperienza. Come il Sandokan, epicamente narrato da Nanni Balestrini. L’enunciazione letteraria non si riduce alla denuncia: attraverso la singolarità dei racconti può spostare un sistema di parole e ridefinirne il senso. E resistere alla capacità di diffamazione e delegittimazione delle organizzazioni criminali. Per questo, nonostante le nuove tecnologie della comunicazione, i libri forse ci lasceranno: non si spalancheranno e non voleranno via.
Esponiamo ora Saviano al fuoco amico della critica massmediatica. E davvero efficace usare le immagini al livello più basso di comunicazione televisiva? Sollecitare in prima serata quella pietà per le vittime innocenti che è pietanza quotidiana dei palinsesti per l’indigestione delle indulgenze e dei perdoni? L’indignazione è un bene limitato e bussare alla coscienze con le unghie produce alla lunga l’anestesia e il cinismo. In una TV che non è più un’istituzione pubblica, restituire la dignità storica alle vittime del crimine suscita solo compassione privata, può attivare la carità, non la giustizia.
Di nuovo la risposta si trova nella raffigurazione delle storie, nella capacità di suscitare una pietà singolare piuttosto che la compassione astratta delle ragioni istituzionali. Non è vero che tutti i messaggi si equivalgono nel medium. Almeno quando si tratta di testualità testimoniale: quella di un testimone a rischio. I protagonisti dei racconti non sono soltanto le vittime, ma i testimoni attivi. (Penso ancora a Falcone e ai suoi colleghi che scrivevano nelle giornate tediose di Palermo, i propri, truculenti, necrologi.) Saviano ci appare a volte come il salvato in un mondo di sommersi (Levi) verso i quali ha assunto un debito collettivo. Non è un testimonial dell'”etica della convinzione”. La sua è un’intimazione a non isolarci nella ricezione mediatica, ma ad entrare in contatto. Un atto di linguaggio per vincere la serenità dell’inazione, per aver paura d’aver paura e vergogna d’aver vergogna. Senza sentimentalismi, ipertrofia mediatica delle emozioni. Il testimone, come nella corsa sportiva, è un segno di azione collettiva, un passaggio di mano a mano. Una convivenza, non una connivenza.
Vorrei toccare o farmi toccare da un ultimo punto. Saviano non ha solo i destinatari generalisti dei suoi libri, delle sue foto e delle sue parole. Si arrovella per spiegare ai giovani, potenziali affiliati delle organizzazioni camorriste e prime vittime delle loro guerre, che c’è un’alternativa: la felicità. La felicità personale e quella di quanto sta loro intorno di società e natura.
Compito altrimenti difficile. C’è un’attrattiva dei codici forti in una comunità in crisi di cittadinanza e in crescita di appartenenze locali. In una società dis-affiliata – dove la crisi degli stili di esistenza, flessibilità, mobilità, hanno provocato slittamenti di fiducia e di fede – restano fermi il familismo (amorale) e il clientelismo. Oltre al benessere ottenuto, con grande iniziativa imprenditoriale, negli affari internazionali, l’organizzazione criminale offre un’immagine di spietata organizzazione e di efficienza, di obbedienza e di crudele professionalità. E di relativo ordine nella collettività, a copertura di loschi affari. Falcone diceva di aver appreso da questi “peggiori cartesiani” (Sciascia), più efficienti della macchina statale, delle lezioni di moralità istituzionale!
Come resiste al fascino spaccone del racconto, quello delle “gesta” criminali, un giovane che non trova risposte ad una domanda di destino; che gode di un lusso improvviso, anche se effimero e preferisce essere invidiato piuttosto che commiserato? Proponendogli altre storie. Racconti di altre forme di vita: di resistenza alla camorra certo e di benessere legittimo. Ma la giovane felicità non è solo soddisfazione: ha una tensione, un gusto di superare gli ostacoli, un sapore di vittoria.
Che questa spina nella carne stimoli la letteratura a rispondere a questa domanda di felicità.

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