Col senno di poi. Intorno a “14 maggio 1977. La sovversione nel mirino”


Paolo Fabbri e Tiziana Migliore, E|C, rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici on-line.
Data di pubblicazione in rete: 5 novembre 2011.


Nelle librerie e sul web circola una recente analisi semiotica, 14 maggio 1977. La sovversione nel mirino1, discussa da storici, giornalisti, filosofi, critici letterari e semiologi. Questa rilettura critica, con strumenti descrittivi, dell’immagine simbolo degli anni di piombo, appunto 14 maggio 1977, ha suscitato un vivo dibattito, a cui gli autori, Paolo Fabbri e Tiziana Migliore, sono interessati2.
La replica è un’occasione opportuna per raccogliere le questioni sollevate sull’analisi, considerare le impasse dovute a concezioni e approcci diversi, anche all’interno della disciplina, valutare l’operatività della semiotica rispetto ai testi politici collocati nelle reti del collettivo. Le risposte che arrivano da più parti indicano apertura e coinvolgimento. Poiché ci confrontiamo attraverso un metodo, terremo conto dei segnali utili, quelli di perplessità e di polemica.
Era ovvio che molti interventi rimettessero in gioco la posta dell’articolo, e dell’intero libro: dimostrare cioè che la foto di Paolo Pedrizzetti ritrae un collettivo e non l’eroe individuale, distaccato dalle masse tanto da rivelare la follia della lotta armata e “l’isolamento dei pitrentottisti”. Già Umberto Eco3 interpretava Giuseppe Memeo, lo sparatore della foto, come un eroe solitario, simile al pistolero del West o al poliziotto da telefilm. Un volto mascherato sulla lapide del movimento degli anni settanta. Il ricco materiale documentario e gli articoli del libro, tra cui l’analisi di Fabbri e Migliore, tentano di far vedere che non è così. Su questo punto nodale si è tornati a discutere.
Scrive Michele Smargiassi: “È probabile che Eco abbia forzato alcuni elementi della sua analisi: in fondo, un’iconografia del gesto violento e individuale esiste anche nell’album di famiglia proletario, sul versante anarchico e nichil-populista”4. Smargiassi fornisce degli esempi visivi. Poi contesta: “Ma chi addita (giustamente) come menzogna visuale l’atto di ritagliare un particolare da un’immagine più ampia dovrebbe sapere che è ugualmente un inganno isolare una singola fotografia dalle “sorelle” della stessa serie, quando ne esistono; e qui ne esistono, e il libro peraltro le mostra tutte” (Smargiassi 2011, op. cit., s.n.). Questi altri esemplari rivelerebbero, secondo il giornalista, “la stessa impressione di vuoto attorno agli sparatori. Via De Amicis è ampia e deserta, nulla in questa serie, che non rappresenta più un istante casuale, ma una sequenza, richiama l’iconografia tradizionale delle fotografie ‘di lotta’, i cortei affollati, gli striscioni, le bandiere, i volti furenti che scandiscono slogan…” (ivi).
Ora, l’analisi di Fabbri e Migliore comincia proprio col dire che 14 maggio 1977 non è una foto singola, ma un evento, di cui circolano più versioni: “alcune si correlano, per spazio, tempo e attori, allo scatto pubblicato l’indomani nel Corriere d’informazione, ma non ne hanno la pregnanza né l’esaustività. Altre sono invece esemplificative delle pratiche di fruizione dell’immagine” (Fabbri e Migliore 2011, op. cit., p. 137), cioè attualizzano quell’evento. Si ammette da subito che “La” foto, ossia lo scatto del Corriere, il migliore della serie, è “un funtivo di relazioni, testo tra altri testi, un paradigma” (ibidem). Trasforma un’istantanea in una posa e una posizione. Più avanti si citano le “sorelle” auspicate da Smargiassi: “scatti precedenti a questo mostrano il corteo, che si allontana (Fig. 2), e documentano l’audacia dello sparatore, ripreso mentre scalcia un fumogeno (Fig. 3) o punta già la pistola sulla corsia opposta della strada (Fig. 4). Altri manifestanti, accanto a lui, hanno in mano delle spranghe” (ivi, pp. 138-139). C’è pure un apparato illustrativo a fianco del testo. Queste foto, sfuggite al giornalista, dovevano rafforzare l’ipotesi della compresenza e della partecipazione all’evento. La prima (Fig. 2), che anche Smargiassi menziona, inquadra lo stesso frangente di via De Amicis (Fig. 1), ma con un taglio più ravvicinato e più vicino al corteo. Il giornalista la utilizza per dire il contrario, e cioè che

sull’estrema sinistra, in fondo, appare un gruppo confuso di manifestanti che corrono lungo via Carducci, scappando lontano dagli scontri: sono molti, confusi, visti di schiena, non si riesce a contarli: sono dunque iconograficamente una massa: e stanno, letteralmente e metaforicamente, girando le spalle al misero manipolo di pistoleri (Smargiassi, op. cit., s.n.).

Restano in coda i sovversivi, che sfidano la polizia. Per uno che “gira le spalle” allo sparatore, ce n’è un altro che arriva in suo soccorso, sempre da quel lato della carreggiata. Ne ricalca la postura ed è pronto a lanciare una molotov (Fig. 1).

Figg. 1 e 2
È quello che Fabbri e Migliore definiscono un “adiuvante” e un misuratore, cognitivo e timico, della temperatura dell’evento. Riassumendo la descrizione sul piano attanziale, si vedono, oltre allo sparatore e al primo adiuvante: quattro testimoni o “astanti” alle sue spalle; un secondo adiuvante, armato e con passamontagna e occhiali, che vigila all’angolo della via, come “attante di controllo”; una figura anch’essa incappucciata e con pistola a destra, nei pressi dell’auto bianca. È il terzo adiuvante, un “assistente partecipante”, che osserva gli spostamenti dello sparatore, senza intervenire. Sono l’ala estrema del movimento e si espongono allo scontro a fuoco, dirimpetto alle barricate. “Alla durata dispersiva dei dimostranti in fuga si contrappone la puntualità concentrata dei militanti, che però non attaccano, ma resistono a un’azione offensiva, presupposta ma non rappresentata” (Fabbri e Migliore 2011, op. cit., p. 138). Ecco il controcampo, che la celebre foto implica in negativo (Fig. 3):

Fig. 3
In proposito Fabbri e Migliore definiscono lo scatto “pezzo di un montaggio dialettico” (ivi, p. 140), il che confuta il malinteso di un’indagine condotta su un oggetto singolo.
Le prove fornite non devono essere bastate a testimoniare l’appartenenza dei militanti al corteo. Ne presentiamo allora delle altre (Figg. 4-9), quelle vere “‘di lotta’, i cortei affollati…” che Smargiassi invoca con nostalgia.

Figg. 4 e 5
Figg. 6 e 7
Figg. 8 e 9
Giudicare lo sparatore un eroe negativo fuori dal movimento o facente parte di “un piccolo gruppo di apprendisti pistoleri […], un drappello isolato […], un misero manipolo” – di quanti termini si serve Smargiassi (op. cit.) per connotare la “mereologia” di questa formazione! – è scorretto. Che avanzi o stia fermo, il “temerario” non sta dentro una bolla, non esce dal Far W est o da un commissariato. Appartiene all’unità integrale – come deriva? Degenerazione? – della lotta di massa. Chiediamoci: quanti erano gli armati? Qualche notizia in proposito la dà Giovanni De Luna, nella recensione uscita per Alfalibri:

esemplare in questo senso è l’episodio della sparatoria (“la pioggia di piombo e fuoco”) contro la sede dell’Assolombarda, nel marzo del 1977, nei giorni roventi seguiti all’uccisione di Lorusso a Bologna, spiegata come un’azione necessaria per evitare un bagno di sangue durante un corteo marchiato da “spontaneismo armato e tragico sentimento di impotenza…”. In quell’occasione, furono circa trecento le armi che fecero fuoco5.

Rispetto al frame della celebre foto, De Luna scrive: “i ‘bocciatori’ con le molotov, qualcuno che controlla la situazione e dà ordini, un altro che si muove al centro della strada con un fucile dal calcio mozzato, altri che sparano al riparo delle macchine posteggiate lungo il marciapiede, sia sulla destra che sulla sinistra di via De Amicis. Si, sono tanti” (De Luna 2011, op. cit., p. 2). Rincalza Andrea Cortellessa:

la presenza delle armi nei cortei e il loro uso non si capiscono se non si ricorda che nel ’77, sin dall’inizio, le armi da fuoco venivano usate dalla polizia – oltre che dai fascisti. Vale la pena ricordare che la fase più violenta inizia alla facoltà di Lettere dell’Università di Roma, il primo febbraio, quando i fascisti sparano in testa, a freddo, allo studente Guido Bellachioma (che non muore per puro caso); il giorno dopo gli studenti attaccano una sede dell’Msi e a piazza Indipendenza i militanti Paolo e Daddo ingaggiano uno scontro a fuoco con dei poliziotti in borghese, ferendone uno e restando feriti a loro volta […]. Due mesi dopo, a Bologna, i carabinieri sparano a Francesco Lorusso, militante di Lotta Continua, e lo uccidono. Il corteo del 14 maggio segue di due giorni l’assassinio di Giordana Masi a Roma. L’idea che i cortei mostrassero di essere armati e disposti a difendersi sparando, giusta o sbagliata che fosse, non nasceva dal nulla: ma precisamente da questo contesto. C’erano poi alcuni i quali ritenevano che l’uso delle armi non dovesse essere puramente difensivo e il libro racconta anche questo, riproducendo i documenti pubblicati all’epoca dalle riviste, come Rosso, che discutevano precisamente questa opzione6.

Violenza chiama violenza, nell’opzione delle frange del movimento. De Luna le definisce “spezzone del corteo dell’autonomia7. Domanda spontanea, forse un po’ retorica: se è così, perché mai nel nostro immaginario, nel regime della nostra visibilità resiste l’immagine dell’autonomo “alieno”, solo contro le forze (unite) dell’ordine? È la versione scontornata dell’immagine che sopravvive, traduzione visiva dell’interpretazione di Eco (Fig. 10)8. Un contrassegno che merita un controsenso.

Figg. 10 e 11
Ecco la precisazione necessaria, resa possibile grazie a questa replica. L’isolamento dello sparatore e del suo gruppo dalla massa è un artefatto, una distinzione fatta da (quasi) tutti gli altri con il senno di poi. Lui ha inferto il colpo mortale e sua è la responsabilità. Meglio prendere le debite distanze e dire “io non c’entro”.
Smargiassi accusa la semiotica di voler decostruire “cose così dure” e Fabbri e Migliore di essere addirittura “sernio-esorcisti”: “il vicebrigadiere Custra morì davvero. Ucciso come tanti suoi coetanei, in divisa e non, da un’arma come quella che vediamo, nel corso di una guerra ideologica e perdente, senza scopo e senza speranza. Questo è il fatto duro, reale, che rimane al di là dell’ambiguità delle immagini. Questo è il vero incubo che tormenta ancora tanti […] e che nessuna analisi semiologica potrà mai decostruire” (Smargiassi 2011, op. cit., s.n.).
È il luogo comune sulla semiologia, di assumere il distacco della scienza e non occuparsi di etica né di morale. Sfatiamolo, per favore. Intanto la nostra semiotica è per tradizione costruttiva, non decostruzionista – l’analisi di processi di significazione, non del “segno”, è il punto di partenza per la catalisi, cioè per l’integrazione di elementi presupposti o sottintesi. Greimas, non Derrida. Poi il problema non è giustificare o meno la violenza omicida, ma come ricostruirne il senso e articolarlo in significazione. Il metodo della semiotica greimasiana permette di farlo dalle dinamiche di una foto-evento. Smargiassi parla di decostruzione e di esorcismo perché, per lui, un conto è la morte di Custra, “fatto duro e reale”, un altro conto è l’oggetto simbolico foto. Fabbri e Migliore non obiettano la ricostruzione referenziale dei fatti – il vicebrigadiere fu ucciso da un’arma maneggiata da un altro dimostrante! – il loro scopo è comprendere l’incidenza di un’immagine “simbolo” che presentifica un passato, aiutando chi resta, figli compresi, a ricostruirlo. L’intento non è il revisionismo, ma la risemantizzazione. La foto è un reale efficace, perché della realtà è quella parte che non si dimentica. Il dibattito stesso ne è una prova9.
Veniamo adesso all’intervento di Stefano Traini su EC10. Alcune osservazioni Traini le riprende esplicitamente da Smargiassi e qui si è già risposto. Dando per buona la lettura del giornalista, anche Traini non nota che nel saggio dei “due semiologi” la foto simbolica è inclusa in un apparato di immagini, le “altre foto di quel pomeriggio”, che “bisogna analizzare, come suggerisce Michele Smargiassi in un intervento del 6 ottobre 2011 sul suo blog” (Traini 2011, op. cit., p. 3). Sviste a parte, e tenuto conto della scarsità di dibattito nella collettività dei semiologi, viene avanzata una puntualizzazione sul metodo, in particolare sulla costruzione del corpus di analisi. Traini è perplesso sull’impiego della terminologia interdefinita della semiotica – che avrebbe “lavorato molto su oggetti singoli, spesso su opere d’arte” (ivi), in casi studio di un unico esemplare. Una richiesta stravagante: dovremmo cancellare gran parte della ricerca, a cominciare da Lévi-Strauss su Le geste d’Asdiwal, Jakobson su Les Chats di Baudelaire, Greimas su Deux amis di Maupassant, Barthes su S/Z di Balzac, Eco su Sylvie di Nerval, e così via.
Rispetto a 14 maggio 1977, però, Traini sollecita “l’ampliamento del corpus di analisi, e poi un articolato lavoro di comparazione” (ivi). Chiama in causa la “tradizione comparativista della semiotica, che proviene da studiosi del calibro di Propp, Lévi-Strauss, Dumézil”. Ramanzina a parte, i “due semiologi” – uno dei quali traduttore di Dumézil – sono d’accordo sul problema dei criteri di costituzione del corpus (Hjelmslev), primo fra tutti la definizione di pertinenza:

Si intenderà per pertinenza la regola deontica, adottata dal semiologo, del descrivere l’oggetto prescelto da un solo punto di vista (Barthes), prendendone quindi in considerazione, in vista della descrizione, solo i tratti che interessano tale punto di vista (che, per il semiologo, è quello della significazione). È secondo questo principio che si praticherà, per esempio, a un primo approccio, a partire da un corpus dato, sia l’estrazione di elementi supposti pertinenti per l’analisi, sia, al contrario, l’eliminazione di ciò che è giudicato non pertinente11.

Dato che l’obiettivo di Fabbri e Migliore è dimostrare come quel fotogramma sia divenuto simbolo del movimento e della sua crisi, prelevare simboli da altri contesti, “la ricerca delle costanti” – come vorrebbe Traini (op. cit., p. 3) – porta fuori strada; è plausibile come atto di arrivo, non in partenza. L’analisi, secondo la condizione da soddisfare, ha preso in carico lo scatto e alcune foto attinenti alla serie, forse in modo non esaustivo ma coerente. La costruzione e l’analisi del corpus si arresta al punto di un esito significativo. La solitudine del militante del ’77 e il conseguente effetto western e poliziesco (Eco) sono un assunto prodotto ex post, per generalizzazione. Il “livello di pertinenza che giustifichi l’uso di un metalinguaggio tecnico” (ivi, 3) c’è, ma lo orienta un punto di vista diverso da quello di Traini.
Eco, con la sua induzione, può annoverare, accanto allo scatto di Pedrizzetti, “il miliziano ucciso di Robert Capa; i marines che piantano la bandiera sull’isolotto del Pacifico; il prigioniero vietnamita giustiziato con un colpo alla tempia; Che Guevara straziato, steso sul tavolaccio di una caserma”12. Fabbri e Migliore compiono questo movimento alla fine, dopo aver esaminato l’universo di discorso in cui ci si muove. Il metodo ipotetico-deduttivo li porta a scoprire l’efficacia pragmatica della lettura di Eco – un fotogenico re-frame della foto, dove quasi per magia l’esecutore campeggia solo, estraniato dal corteo. A questo punto ha senso riprendere, dal suo articolo, anche il miliziano di Capa (Fig. 12), considerandolo l’antonimo perfetto del militante del ’77, perché “non spara, anzi, colpito, cade petto al vento, fucile ancora in pugno” (Fabbri e Migliore 2011, op. cit., p. 141). Dall’asse sintagmatico della foto di Pedrizzetti e degli scatti a essa correlati si arriva al paradigma – i simboli di altri contesti.

Figg. 12 e 13
Delimitazione e messa a distanza hanno agito sull’immaginario collettivo per 14 maggio 1977, fino a materializzarsi nella nuova versione, la più diffusa (Fig. 13), che emula forse il destino delle foto simboliche, come quella del miliziano di Capa: nell’iconografia rivoluzionaria l’eroe, negativo o positivo, carnefice o vittima, deve risaltare isolato. Per Fabbri e Migliore l’autonomo solitario resta una costruzione semiotica, una risultante dell’assegnazione dell’etichetta. Traini scrive che i due semiologi “non colgono quell’effetto di solitudine che probabilmente ha fatto di quella foto l’immagine simbolo di un’epoca” (op. cit., p. 3). Ma lo colgono, eccome, insieme all’efficacia pragmatica di cui ha dato prova: mostrare-dimostrare l’isolamento del movimento attraverso un’ inequivocabile (?) metonimia.
Due ultime questioni rilevanti. La prima riguarda il rapporto tra prassi analitica e prassi interpretativa. A sentire Traini,

quello di Eco è un articolo giornalistico: l’autore avanza un’ipotesi interpretativa non suffragata da dati scientifici, ma è piuttosto interessato a sollecitare delle riflessioni, come accade negli interventi che compaiono su riviste culturali. L’ipotesi che l’apparizione di quella foto abbia portato “di colpo” all’isolamento della frangia più violenta del “movimento” può essere debole, certo, ma lo stesso Eco ricorda che “una spiegazione non spiega mai tutto, ma entra a far parte di un panorama di spiegazioni in rapporto reciproco”. Invece Paolo Fabbri e Tiziana Migliore, più di trent’anni dopo, scelgono il registro scientifico e mettono in campo l’armamentario della semiotica, rilevando attanti, gradienti passionali, enunciazioni e aspettualizzazioni (ivi, p. 2).

“Intervento da rivista culturale”? È un’opinione che i due semiologi vorrebbero impugnare e falsificare con un loro “teorema”. L’articolo di Eco non era affatto dichiarativo: in quelle condizioni di conflitto politico e sociale, Eco non faceva passeggiate inferenziali nel maquis terrorista; il suo è un intervento performativo, un testo “impegnato” a orientare interpretazioni, ma anche passioni ed azioni. Non proponeva la verità, ma la giustezza e l’efficacia. Certi cappucci gli ricorderebbero troppo fra Dolcino (v. Il nome della rosa). Con il senno di poi.
D’altra parte, anche a voler prendere il testo perlocutorio di Eco da un’angolazione puramente locutiva, con una forzata economia della sua efficacia, non ci possiamo comportare come se non vi fosse esplicazione nell’interpretare o lettura riflessiva nel descrivere. Ricoeur insegna che c’è una dialettica tra descrizione e comprensione: la comprensione precede, accompagna e ingloba la descrizione, ma la descrizione sviluppa analiticamente la comprensione. L’una non prescinde dalla mediazione dell’altra e più si descrive, meglio si comprende13.In secondo luogo, oltre le difese d’ufficio, non si capisce dove starebbe l’esoterismo14. L’impiego della terminologia tecnica interdefinita è euristico: il modello attanziale permette, ad esempio, di rilevare il ruolo implicito ma non manifestato dell’ opponente, lo schieramento di polizia il cui procedere armato spiega i comportamenti dei personaggi visualizzati e mette in dubbio l’affermazione di Smargiassi per cui la massa dei manifestanti sta “letteralmente e metaforicamente, girando le spalle al misero manipolo di pistoleri” (Smargiassi, op. cit., s.n.). Fuggirebbero non dal sopraggiungere delle forze dell’ordine, ma dai militanti armati!
Gli strumenti di analisi utilizzati da Fabbri e Migliore si confrontano col testo di Eco per aumentarne l’intelligibilità. Non è un ripasso epigonale dell’ipse dixit, ma un riscontro – cioè un incontro e uno scontro. Per esempio, il tanto deprecato gradiente passionale della foto, che va dalla temerarietà dell’esecutore alla titubanza dei dissidenti a sinistra, fino alla ritrosia del compagno a destra, è la manifestazione, nel testo, della “sindrome di rigetto che di colpo l’immagine produce” (Eco, op. cit., p. 100). Ma qui i comportamenti passionali sono diversi, almeno di tre tipi. Il rigetto, forse, non è prodotto dalla foto, ma da una possibile identificazione col compagno sulle retrovie.
Fermiamoci qui. Nella ricerca ogni parola è penultima. Allora cogitamus.


Note

  1. In Sergio Bianchi, 2011, a cura di, Storia di una foto, Roma, Derive Approdi, pp. 136-141. torna al rimando a questa nota
  2. Si esclude che ciò sia dovuto all’onda di passioni costruita ad arte, il 15 ottobre 2011, sulla figura del lancia­estintori, “Er Pelliccia”. Il dramma, lì, è una vicenda personale portata in piazza, passerella, ormai all’ordine del giorno, di un ragazzo che a casa sua non nota nessuno (pronome soggetto e complemento oggetto, a scelta). Ora i genitori sono “scioccati”. L’estintore, quanto meno, li ha risvegliati dal sonno. Driin! Per il resto è sfilato un corteo di pacifici manifestanti, nella norma, cioè con poche idee, approvato dalla politica, che resta comodamente in poltrona. È il vero fatto drammatico. I dovuti distinguo dalla strategia dell’acquisto collettivo di terreno, fronte TAV. torna al rimando a questa nota
  3. Umberto Eco, “Una foto”, L’Espresso, 29 maggio 1977, ora in Sette anni di desiderio, Milano, Bompiani, 1983, pp. 96-100. torna al rimando a questa nota
  4. Michele Smargiassi, “Esorcismo di una foto”, 6 ottobre 2011, Fotocrazia, blog di LaRepubblica.it, http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/2011/10/06/esorcismo-di-una-foto/ torna al rimando a questa nota
  5. Giovanni De Luna, “Controscatto”, pp. 2-3, Alfalibri, giugno 2011, p. 2. Corsivo nostro. torna al rimando a questa nota
  6. Andrea Cortellessa, “Storia di Storia di una foto. Conversazione fra Sergio Bianchi e Andrea Cortellessa”, Alfalibri, giugno 2011, p. 3. torna al rimando a questa nota
  7. De Luna 2011, op. cit., p. 2. Corsivo nostro. torna al rimando a questa nota
  8. Vedi la voce “Anni di piombo”, in http://it.wikipedia.org/wiki/Anni_di_piombo. torna al rimando a questa nota
  9. Lo dice Eco stesso: “è l’opera visiva che fa ormai parte della nostra memoria”. Cfr. Eco 1977, op. cit., p. 96. torna al rimando a questa nota
  10. Stefano Traini, “L’analisi di una foto e il metodo semiotico. A proposito del saggio di Paolo Fabbri e Tiziana Migliore sulla foto 14 maggio 1977“, EC, Rivista on Iine dell’Associazione italiana di semiotica, 25 ottobre 2011, pp. 1-3. torna al rimando a questa nota
  11. Algirdas Julien Greimas e Joseph Courtés, Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, a cura di Paolo Fabbri, Milano, Bruno Mondadori, Collana Il metodo semiotico, 2007, voce “pertinenza”. Corsivo nostro. torna al rimando a questa nota
  12. Eco 1977, ed. 1983, p. 99. torna al rimando a questa nota
  13. Cfr. Paul Ricoeur, Algirdas Julien Greimas, Tra semiotica ed ermeneutica, a cura di Francesco Marsciani, Roma, Meltemi, 2000. torna al rimando a questa nota
  14. “La semiotica assume le sembianze – che di fatto non dovrebbe avere – di disciplina esoterica in grado di svelare chissà quali significati nascosti, e anche il suo metalinguaggio rischia di perdere in funzionalità”. Traini 2011, op. cit., p. 3. torna al rimando a questa nota
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