Turbolenze. Determinazione e impredicibilità


Da: AA.VV., Incidenti ed esplosioni. A.J. Greimas, J.M. Lotman per una semiotica della cultura, a cura di Tiziana Migliore, Aracne Editrice, Roma, 2010.


A differenza di Greimas, che si è occupato solo tardi, nel noto saggio Dell’imperfezione (1987), di problemi di estetica, Lotman ha sempre molto insistito nella riflessione sul testo artistico, per lui produttore di informazione e soprattutto di memoria futura. Il testo artistico è un dispositivo che, in virtù della propria organizzazione interna – lo studioso di Tartu lo ha ribadito durante l’intera sua vita intellettuale – produce informazioni nuove. Per questo, l’opera di Lotman è irta di poesie e di citazioni poetiche, intese non come Gedankenexpertimenten, “esperimenti mentali”, ma come luoghi di sperimentazione che mostrano un’organizzazione del senso emergente rispetto ai significati depositati nel lessico, nella grammatica, nelle figure retoriche. Il testo è distruttore di memoria passata e costruttore di memoria futura. Nel capitolo in cui definisce la natura del concetto di esplosione, Lotman (1993) si serve allora di una poesia di Blok. Il componimento sarà al centro dei miei interessi, perché ritengo che il modus operandi di Lotman sia comparabile con la strategia di Greimas. Nel saggio del 1987, infatti, il semiologo lituano rivalorizza una radice sempre permanente in semiotica, la fenomenologia, e ne rilancia alcune problematiche, sempre servendosi di testi letterari: Calvino, Cortazar, Tanizaki… In entrambi gli autori il testo artistico diventa fondamentale per la costruzione di nuovi significati.
Nel caso particolare della poesia di Blok, L’artista (1913), Lotman non illustra il testo, ma mette in luce un significato equivalente al “come si può tradurre l’intraducibile”. L’esplosione è la possibilità di espressione dell’inesprimibile, non in quanto silenzio, ma, al contrario, come tentativo di dire quello di cui non si può parlare.

In un’estate torrida e in un inverno di bufera,
nei giorni delle nozze, dei trionfi, dei funerali vostri,
attendo che un suono lieve mai udito prima
faccia scappare via la mia noia mortale.

Eccolo, è spuntato. E con fredda attenzione
attendo per capire, fissare e uccidere.
E al mio cospetto, mentre vigile attendo,
egli dipana un filo appena percettibile.

Turbine dal mare? O uccelli del paradiso
che cantano tra le foglie? O tempo che ristà?
O meli di maggio spogliatisi
del loro niveo colore? O angelo in volo?

Le ore si protraggono, latrici dell’universale.
Si espandono i suoni, il moto e la luce.
Il passato mira bramoso l’avvenire.
Non c’è il presente. E non c’è cosa misera.

E, infine, al punto estremo del concepimento
di un’anima nuova, di forze inesperite,
percuote, come tuono, l’anima una maledizione:
la ragione creativa ho sopraffatto – ucciso.

E rinchiudo in una gabbia fredda
il buon leggero uccello libero,
l’uccello inteso ad allontanare la morte,
l’uccello accorso a salvare l’anima.

Ecco la mia gabbia – di acciaio, grave,
alla luce della sera è come dorata.
Ecco il mio uccello, un tempo allegro,
far girare la ruota, cantare alla finestra.1

Ali tarpate, canzoni imparate a memoria
voi amate soffermarvi sotto la mia finestra?
Le canzoni vi piacciono, io invece stremato
aspetto il nuovo, mi annoio ancora.

Lotman compie un’analisi sommaria, ma non manca di notare due aspetti: I) la prima e l’ultima quartina, che inquadrano molto coerentemente il testo, sono parallele dal punto di vista della strategia dell’enunciazione, sono i luoghi dell'”io”/”voi”: «dei vostri funerali. Attendo che un suono […] la mia noia». Dopo, il “voi” scompare e a partire dalla terza quartina si perde definitivamente l’indicazione “io”/”tu”, a cui subentra la terza persona («egli dipana un filo […]. Le ore si protraggono»), presente fino alla sesta quartina, dove ritornano l'”io” («E rinchiudo in una gabbia fredda […]. Ecco la mia gabbia […]. Ecco il mio uccello») e infine, di nuovo, il “voi” e l'”io” («voi amate soffermarvi […]? Le canzoni vi piacciono, io invece stremato aspetto […], mi annoio»). Ci troviamo davanti ad una strategia di débrayage attoriale dell’enunciazione, in cui all’inizio si simula testualmente la relazione di comunicazione “io”/”voi” e in mezzo si determina il passaggio all’impersonale. II) La temporalità è caratterizzata da marche puntuali e ben figurativizzata nei primi versi – «nozze», «trionfi», «funerali» – ma cede il posto all’apparizione di un “fuori tempo”, nettamente definito: nella quarta quartina, e al centro della poesia, il passato ottiene l’annullamento del presente, per un rispecchiamento reciproco con il futuro: «Il passato mira bramoso l’avvenire. Non c’è il presente. E non c’è cosa misera». Credo che valga la pena di mettere in evidenza questo momento fondamentale di u-cronia, di fuori-tempo. Dai tempi naturali – «estate torrida», «inverno di bufera» – e sociali – «nozze», «trionfi», «funerali» – si giunge ad un’uscita dal tempo.
Come può accadere che si esca dal tempo? Le strategie per esprimere questa uscita sono differenti. Ma uno degli indizi forniti da Greimas (1987) per descrivere efficacemente l’evento estetico è proprio l’improvvisa uscita dal tempo. L’incidente, il “momento”, si contraddistingue per uno sfondamento nello spazio semiotico della temporalità quotidiana, che provoca un effetto di u-cronia. Passato e futuro si specchiano l’uno nell’altro e si ha quindi assenza, fine del presente.
Quali sono le competenze passionali del soggetto che sperimenta l’affiorare del «suono lieve mai udito»? C’è un’attesa, vissuta nella noia. L’«attendo che fugga la noia mortale» del terzo verso tornerà alla fine, «aspetto il nuovo, mi annoio ancora». Si evince dunque il passaggio da una noia a una noia. Grande caratteristica della noia, anche in Leopardi e in Schopenhauer, è il suo essere una malattia del tempo, legata all’attesa. Consiste in una monotonia che nasce dalla duratività o dall’iteratività del medesimo, del quotidiano. Il quotidiano, il byt di Lotman, è fissato nell’attesa, che a un certo punto si costituisce come noia. Se l’attesa è uno stato tensivo con anticipazione del risultato, la noia è l’abbandono di questo risultato. Emerge come spazio passionale che sta fra le passioni. Le passioni, cioè, sono scandite sulla noia, che è la duratività dell’attesa, senza più speranza, del sopravvenire di qualcosa. Il soggetto attende, ma non rimane immutato nel corso degli eventi, è suscettibile di trasformarsi. Innanzitutto appare stremato, affaticato, esaurito dall’attesa. Sottolineo questa affermazione, perché la parola “stremato” indica l’esaurimento delle possibilità.
Torniamo adesso all’analisi e osserviamo che l’attesa del nuovo, per l’artista, si articola su una forma espressiva sonora non organizzata. Quando si organizzerà, diventerà canzone. Ci sono canzoni articolate – «cantare alla finestra […], canzoni imparate a memoria […]? Le canzoni vi piacciono», le quali, alla fine, chiudono dentro «una gabbia fredda […], d’acciaio» «un suono lieve mai udito prima». Il suono leggero che appare è catturato dalla «ragione creativa», che ha la funzione, sistematicamente, di ucciderlo. La trasformazione dell’ipotesi greimasiana, secondo cui l’esperienza estetica sorgerebbe da una rottura nella vita quotidiana, da un incidente improvviso, non potrebbe essere più netta. Qui accade infatti esattamente il contrario. La tensione durativa dell’esperienza estetica è interrotta, uccisa dalla ragione creativa, maledizione che colpisce l’anima come un fulmine.
Ma qual è la duratività di questa esperienza? Da quel che sappiamo, consiste in un «suono leggero», «un filo appena percettibile», è c’è una tensione che lo vuole comprendere e uccidere. Poi anche il poeta formula una serie di domande: è un turbine del mare»? O sono «uccelli del paradiso che cantano tra le foglie»? O è il «tempo che ristà»? Qui Lotman afferma giustamente che si danno diversi piani sensoriali in situazione di rottura reciproca. È allora necessaria un’autodefinizione del soggetto, il quale davanti alla dispersione estesica sia capace, a un certo punto, di dire “sono io” e “questo è un oggetto che posso controllare”. L’oggetto è marcato da tre designazioni: all’inizio «ecco, è spuntato» – affiora quindi autonomamente – e in seguito, nella penultima quartina «ecco la mia gabbia», ecco l’uccello mio già rinchiuso. A livello narrativo si nota un ribaltamento: dapprima il suono emerge dal mondo e si dà al soggetto come ricettore, mentre alla fine è il soggetto a costruire il significato e il mondo.
Perché le posizioni di Lotman e di Greimas differiscono nel pensiero sulla trasformazione estesica? Qual è l’elemento di distacco fondamentale? Nel saggio di Greimas (1987: 70) leggiamo: «Una vita modellata secondo un doppio ritmo di attese e nostalgie si espone ai danni della ritualità. Una ricerca di estetizzazione della vita finisce soltanto come la generalizzazione di una vita quotidiana da esteti. Per evitare che l’iterazione di attese non degeneri in monotonia» – nella noia – «uno spostamento di accento rischioso può essere pensato, una sincope tensiva che realizza il tempo forte per anticipazione e una prevenzione verso l’attesa degli altri». Ci sarebbe, cioè, una sincope tensiva che rompe il quotidiano per fare apparire il tempo forte. È la tesi del semiologo lituano, ma non risponde al caso nostro. Nella poesia si Blok si ha invece una durata, un’estensione del tempo non presente, e la sincope tensiva è quella provocata dalla ragione, che interviene per rompere l’esperienza estetica a lungo termine. Greimas aveva previsto però una seconda possibilità, da cui ho tratto il titolo del mio intervento. Scrive: «oppure un sostenuto che prolunga l’attesa accompagnato da inquietudine, ma che rafforza il tempo forte che resta sperato»; «così creata» – continua Greimas – «la turbolenza rivalorizza un ritmo sfiatato». La riflessione mi sembra interessante, per due ordini di ragioni. Innanzitutto introduce la problematica della turbolenza. Se si vuole dare una buona definizione di quello che succede nello scenario di un turbine di mare, dove gli uccelli del paradiso cantano tra le foglie, le ore si protraggono, latrici dell’universale, i suoni, i movimenti e le luci si espandono, il passato mira l’avvenire e il presente si perde, è che non si produce nessuna esplosione. Curioso. Nel testo portato da Lotman come esempio di esplosione nulla sembra esplodere, ma le cose divengono nella turbolenza, la stessa che lo studioso ritrova nelle sue letture di Prigogyne. L’idea che le migliori equazioni della nostra fisica siano state scritte per spiegare la turbolenza è la migliore dimostrazione di una determinazione possibile dell’indeterminato.
Tentiamo di precisare la questione. La coppia vita quotidiana/esplosione va opposta al modello caotico, che è quello della turbolenza, intesa come determinazione dell’indeterminato. Nulla di più determinato, infatti, degli elementi caotici. Renderemo conto allora, proseguendo il gesto di Lotman, di una dimensione della turbolenza. Gli faremo dire, nella stessa sua lettura della poesia, quello che lui non voleva dire. Del resto, era proprio ciò che il semiologo voleva si facesse con l’opera d’arte, cioè che fosse un esempio di memoria futura: prendere un testo e andare più avanti nell’analisi. In questo caso ci sarebbero molti motivi per farlo, anche filologici, pensiamo alla simpatia e all’importanza dell’opera di Kolmogorov per Lotman. Kolmogorov è uno dei primi a scrivere equazioni sul problema della turbolenza. Potremmo ricostruire un Lotman potenziale in grado di portarci a riconoscere la tesi “spettacolare” di Bergson. Diceva Bergson: i nostri concetti sono costruiti, per la maggior parte, sui solidi, mentre potrebbero e dovrebbero avere come modello la fiamma e l’acqua, cioè i luoghi delle turbolenze. Fuoco e acqua sono fluidi sottoposti a fenomeni di emergenza. Il loro spazio vettoriale non è metrico, ha caratteristiche qualitative. L’ «eccolo, è spuntato» della poesia non è un soggetto che costituisce percettivamente un oggetto come predefinito dallo sguardo del soggetto, è l’affiorare del mondo, che diventa soggetto lui. Non va dimenticato che la poesia è inserita in un capitolo sull’ispirazione. Lotman recupera la logica byroniana, secondo cui l’ispirazione ha la stessa qualità rigorosa della geometria; ma l’ispirazione è profondamente indeterminata rispetto alla geometria, perché permette fenomeni di emergenza improbabili. Ho l’impressione che l’idea di una “turbolenza con emergenza” aiuti anche a capire meglio il concetto di ispirazione – lo “squarcio” nella realtà – e consenta però allo stesso tempo delle determinazioni. I discorsi sulla modernità liquida lasciano il tempo che trovano; i liquidi, come insegna la fisica, hanno leggi idrauliche di grande complessità.
Veniamo, per i nostri scopi, ad un’ultima riflessione. Nello stesso capitolo dell’analisi sulla poesia di Blok, Lotman definisce ciò che ritiene fondamentale per lo spazio semiotico. Lo considera un’intersezione, a più livelli, di vari testi, che insieme vanno a formare un determinato strato con complesse correlazioni interne, attraverso gradi di traducibilità e spazi di intraducibilità. Alla base è situato lo strato della realtà, di quella realtà organizzata da molteplici lingue e che si trova con esse in una gerarchia di correlazioni. Entrambi questi strati – lingue e realtà – formano insieme la semiotica della cultura, cosicchè si può dire che la realtà non è esterna né opposta alla cultura, ne fa parte in quanto organizzata da certe lingue. L’opposizione natura vs cultura è inesatta, per la semplice ragione che la realtà è intrisa di cultura. Lotman (1993), in questo, non ha dubbi. «Oltre i limiti della semiotica della cultura si estende la realtà, che si trova fuori dai confini della lingua […]. La costruzione di questi termini ha senso se al centro di questo mondo poniamo non un io isolato, ma uno spazio organizzato in maniera complessa da molteplici io reciprocamente correlati». L’apertura di finestre dello spazio semiotico si compie attraverso sfondamenti nelle fasi di esplosione. Il mondo della semiosi, allora, non è fatalmente chiuso in sé; gioca continuamente con lo spazio che gli è esterno, ora incorporandolo, ora espellendo in esso elementi propri già utilizzati e che hanno perduto il potenziale di azione semiotica. È il punto che mi interessava trattare.
Il turbamento che si insinua nella noia ha come modello l’idea di una turbolenza delle passioni. Per un allievo di V. I. Vernadskij è evidentissimo che il soggetto, nella molteplicità delle sue esperienze estesiche, abbia un solo modo per autodefinirsi come io: oltre a dire “io sono io” – lo è e si assume in quanto tale – dirà: “sono io perché c’è un altro”, con il quale misurarsi. La verità ci viene dagli altri in forma rovesciata – affermava. Il problema dell’autodefinizione come etero-definizione fa sì che l’esperienza del turbine, degli uccelli del paradiso che cantano, dell’arresto del tempo, dell’angelo in volo, possa essere ripresa solo da una ragione creativa che dice “io” a qualcun altro e che aspetta dall’altro il significato. Dopo l’esperienza di uscita dall’io, c’è «le canzoni vi piacciono», che è come dire: ricominciate! Nella gabbia della prosodia l'”io” e il “voi” si ritrovano.
Con queste premesse, è possibile il trapianto tra discorso lotmaniano e discorso greimasiano? Ricordiamo alcune caratteristiche essenziali dei trapianti: provocano insorgenze e rigetti; e prima di trapiantare un organo, si fa spesso un leggero intervento per metterlo in condizioni di essere trapiantato. Non si trapianta un organo così com’è: prima va trattato e poi si fa l’espianto e il trapianto. Gli espianti teorici implicano la modificazione dei concetti, non possono lasciare inalterate le cose. L’importante, però, è che ci sia un’idea comune. In questo caso è Lotman a precisarne due, cruciali: I) la fonte maggiore di informazioni sul cotesto viene dal testo; II) l’emittente e il ricevente sono inscritti all’interno del testo stesso – l'”io” e il “voi”, ma anche il suono leggero che affronta la soggettività complessa.
Ultima osservazione. Una semiotica della cultura non può definirsi fuori dall’ipotesi del rapporto tra naturalità e storia. M. Serres, interrogato un giorno sul perché il mondo non fosse circolare, ma i pianeti avessero orbite ellittiche, rispose: l’ellissi ha due fuochi, e non un centro soltanto. Le ellittopedie, a differenza delle enciclopedie, hanno due fuochi. Così, la semiotica si colloca all’interno, da una parte, della natura, dall’altra, della storia, della cultura. Nell’intervento precedente al nostro è stato esaminato con cura il tema delle strade perdute. Nella storia contemporanea si scrivono sempre di più storie di quello che sarebbe potuto accadere. L’epistemologia lotmaniana è perfetta in questo senso, quanto più antihegeliana possibile e il contrario dell’assioma che “tutto ciò che è razionale è reale e reale razionale”. È fondata su un’idea delle ucronie e delle utopie., anziché perdersi in una teoria dei mondi possibili, che è una teoria referenzialista, perché presuppone che ve ne sia uno reale e altri possibili, dovremmo pensare in termini di strade perdute. La semiotica ne ha una da percorrere, ed è il legame Lotman/Greimas. Andrebbe approfondito, da un punto di vista biografico – pare che esistano settantaquattro lettere di Greimas a Lotman, ma non sappiamo, dall’archivio di Greimas, quante siano quelle destinate a Lotman – ma anche da un punto di vista teorico, esplorando le compatibilità, i trapianti e gli espianti. Servirebbe a mettere un po’ di ordine nell’attuale deregulation della semiotica e ridistribuire le ipotesi. Su una, Greimas e Lotman concordavano pienamente: che il perno della semiotica non fosse il segno, ma almeno due segni, in condizioni di dialogo – traducibilità e intraducibilità. Senza dubbio, la taglia di questi segni non è lessicale, ma testuale, discorsiva. La semiotica è una teoria del discorso, che ha inoltre come scopo di scoprire quando i segni, le parole, i lessemi vengono utilizzati in maniera originale e nuova, quando si tratta di aprire finestre all’interno dello spazio semiotico. Finestre non necessariamente affacciate su incidenti repentini nel quotidiano – come aveva supposto Greimas – ma orientate verso fenomeni di turbolenza.


Note

  1. A. Blok, 12 dicembre 1913. Traduzione di Alessandro Niero. torna al rimando a questa nota
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