Il valore e i suoi premi


Da: Alfabeta2, n. 25, dicembre 2012.


Proemio

Difficile parlare di Merito e del suo senso, senza peli sulla lingua. Merito non è un concetto cognitivo, ma una nozione di valore che va oltre il riconoscimento e la legittimazione. Per quell’arcaismo del senso che è l’etimologia, il merito ha a che vedere con “le parti” e l’attribuzione della parte congrua. Ma quali parti e quante? da chi a chi? come e quando? Il pubblico giudizio ha una struttura drammatica che assegnando meriti mette in circolo valori. Da attribuire al talento, allo sforzo, all’esito, alla professionalità, insomma a chi ha prestanza (l’essere) e prestazioni (il fare), se e quando corrispondono ai presunti e mutevoli mandati collettivi. Appena entrato nel gioco linguistico, il Merito attiva quindi un’estesa rete di “ideologemi”: qualità, eccellenza, reputazione, stima, rispetto, competitività e via dicendo. Anche i filosofi, che trattano i concetti come solidi, sono obbligati a interdefinire: più merito, meno eguaglianza (e allora più eguaglianza meno merito? Tutti a pari merito? todos caballeros?). Eppure se facciamo attenzione all’antonimo, il Demerito, il disconoscimento e il degrado dei valori, le Malemerenze – il contrario delle benemerenze, le macchine del fango, gogne e berline che fondano la (de)meritocrazia mediatica – non sono certo un fattore egualitario. Insomma, attestare il merito o il disdoro non è una constatazione, ma un atto performativo che vuol creare le condizioni di un esito auspicato. Si può giungere quindi alla duplice conclusione che il merito è un rimedio diretto ai favoritismo e all’ereditarietà dei saperi e dei poteri, oppure il riconoscimento obliquo della loro esistenza e persistenza. Una maniera di tenere aperta la comunità contro nepotismi e rendite di posizione oppure un mezzo per rigovernare i soggetti nella società del controllo. Per applaudire uno dei punti di vista bisognerebbe decidere della Valenza, stabilire daccapo il valore dei valori.
Che dire allora e che fare? Aprire assessorati alle dispari opportunità e far scoppiare la rivalutazione permanente? Cominciamo con la prudente constatazione che il campo dei valori ha due peculiarità: l’intensità e la reversibilità. Il più o il meno del merito esiste, ma è arduo da quantificare: lo spazio “valoriale” non è estensivo ma Intensivo, tutto soglie e discontinuità. Una questione di qualia e non dei quanta – sondaggi e applausometri, test e punteggi. Il valore meritorio non è un rapporto tra oggetti – la valuta – ma di relazioni di potere e di desiderio, di senso e di forza tra soggetti. Di qui l’incessante Reversibilità, su cui ha attirato l’attenzione Jean Baudrillard. Come il vecchio Proteo, il Merito sfugge alla presa valutativa rovesciandosi nel suo contrario, come prova la nozione di Meritocrazia, scivolata dall’originaria accezione negativa a quella positiva. Gli esempi sono legione: l’oltraggio diventa omaggio e viceversa. Dalla polvere all’altare, dalle stelle alle stalle. Dalla luce catodica alla gattabuia. Dal Meritante alla Meretrice – l’etimo è quello!- da costei alla Escort con cariche politiche.
Una volta riconosciuto che il Merito non è un solido, ma un concetto turbolento, come la fiamma e l’acqua, il modo giusto di avvicinarlo è la Microfisica del Valore. Un concetto foucaultiano che, nelle scienze umane, oltre alla tirannia delle piccole decisioni, tiene in conto l’indeterminazione degli oggetti di senso e di valore, perturbati dall’osservazione.

Premio

Cominciamo coi semiofori, come li chiama lo storico Pomian, cioè con i segni portavalore che circolano nel campo culturale, nella vita economica, artistica e scientifica. Gli Onorifici incorporati e quelli assegnati nelle cerimonie, in cui si dà onore al Merito: i Premi. Tra i primi – i predicati di onore – si fanno incontri insospettati per la delizia dei semiologi. I media da gossip, frequentati da Altezze, Grazie ed Eccellenze, non si curano della Costituzione che ci ha liberato dai titoli nobiliari, dall’obbligo di distinguere tra granduca e arciduca, nobiluomo e vicedomino, un marchese qualunque e quello di baldacchino. La frequenza e l’unione di fatto con le gerarchie ecclesiastiche ha reso gli italiani familiari con parole femminili, come Santità, Eminenza e persino Beatitudine (per soli patriarchi). È vero però che nelle università i titoli di Magnifico (il rettore) e Chiarissimo (l’ordinario) sono spariti, lasciando il campo al tu e al salve generalizzato; ma resiste e si festeggia il titolo di dottore – malgrado un timido tentativo del governo Monti – almeno fino al giorno in cui, come auspicava Montale, la laurea verrà assegnata con il certificato di battesimo o di circoncisione. A disdoro della pretesa asimbolia della società di massa, continuano a circolare fregi, fiocchi, fasce, nastri, pergamene. coppe, targhe, placche e medaglie di ogni genere e taglia per ogni genere di Meriti, professionali e sportivi, politici, artistici e scientifici. Una cornucopia di decorazioni oggetto di insospettabili appetiti. E come sempre, alla struttura trifunzionale delle medaglie – oro, argento, bronzo, che ripetono nell’ordine le antiche età dell’uomo – si sono aggiunte le onorificenze fuori dal podio: le maglie nere degli ultimi, i cucchiai di legno, il cappotto, le orecchie d’asino che già trapassano dal valore derogatorio a segni di merito. Tra le più accurate descrizioni delle decorazioni per classi di onorificenze, merita, è il caso di dirlo, di essere citato il decreto presidenziale del 30 marzo 2001, n. 173 dove si prescrive che il Cavaliere di Gran Croce debba appenderla “ad una fascia di seta dalla spalla destra al fianco sinistro. La fascia di mm 101 di altezza è verde bandiera con una lista di rosso per lato di mm 9“. Con grave discriminazione per “le signore la cui fascia è di 82 mm di altezza“. Più che le rivendicazioni di genere ci interessano qui, per la predetta reversibilità del valore, le disposizioni di revoca dell’insegna per demeriti e varie indegnità. È quanto si esige ora per il Cavalierato assegnato motu proprio al “meritevole” Assad, o si continua a chiedere, da parte dei profughi giuliani, per il presidente Tito – assegnata nel 1969. Cogliamo qui l’occasione per esigere che si degradi Berlusconi del titolo di Cavaliere, imprudentemente assegnato nel 1997 (e la Laurea ad honorem in ingegneria gestionale dell’Università di Calabria nel 1991). Il titolo di Cavaliere è ormai antonomastico, ma resta la possibilità di fregiare l’ex premier del titolo di Cavallaro. Questione di merito.
Evitiamo le ricorrenti geremiadi sui premi letterari: la proposta avanguardista di un Premio Fata – il contrario dello Strega – che premiasse le peggiori opere di narrativa non ebbe successo. È la scienza invece a offrire l’esempio più netto della reversibilità premiale dei valori. Il Nobel è un premio secolare rifiutato soltanto da Pasternak (obtorto collo) nel 1958 e da Sartre (sua sponte) nel ’64, per le implicazioni politiche della guerra fredda. Applicando il diritto di revoca per indegnità, proponiamo di “sfregiare” alcuni indecorosi Nobel per la pace, cominciando con quello attribuito al guerrafondaio Kissinger (1973) – l’appello è in rete! – al terrorista Arafat (1994) e infine ad Obama (2009), che nel discorso di accettazione (“non so se me lo merito“) promise invano di chiudere Guantanamo e rivendicò la ragion di stato per inviare subito la truppa in Medio Oriente.
I semiofori, si è detto sono reversibili, quindi almeno potenzialmente ironici. Come prova l’assegnazione annuale ad Harvard degli Ig Nobel Prizes, riconoscimento di merito alle ricerche scientifiche più improbabili e ai più stravaganti e fattuali esiti letterari e politici. Chi lamenta lo scarso sostegno e riconoscimento della ricerca in Italia si alzi e taccia. Nel sofisticato campo dell’Improbabologia, dal 2002 al 2010 abbiamo ottenuto quattro Premi Ig Nobel per la chimica, la psicologia, l’alimentazione, l’organizzazione. Nel 2000 per la Chimica: “la scoperta che, da un punto di vista biochimico, l’amore romantico non si può distinguere da un disturbo ossessivo-compulsivo”; nel 2003 per la Psicologia: “un rapporto sulle menti semplici dei poliziotti”; nel 2008 in Alimentazione: “il suono elettronicamente modificato delle patatine fritte fa credere alle persone che le masticano che sono più croccanti e fresche di quanto non siano in realtà”; nel 2010 infine nelle Scienze dell’Organizzazione: “per aver dimostrato che una data organizzazione migliorerebbe la propria efficienza se le promozioni gerarchiche fossero condotte in maniera aleatoria. Il lavoro si basa sul principio di Peters secondo cui ogni impiegato avanza nella gerarchia fino al massimo livello della propria competenza”. Questi Premi al Demerito sono oggi ricercati e apprezzati dagli insigniti, e si segnalano agli epistemologi – ai magistrati e ai sismologi – per l’impatto e la responsabilità collettiva della “pura” scienza. Io propongo di candidare il neuro-estetologo S. Zeki, per la scoperta che l’amore romantico e l’odio attivano gli stessi circuiti cerebrali.
È più facile entrare nel merito che uscirne. Facciamolo con l’amara constatazione che la maggior parte dei premi sono di consolazione, retribuiscono cioè i mancati introiti del campo per cui sono assegnati. E con proposta modesta: oltre a premiare – che rinvia etimologicamente a pre-emere, una presa anticipata, non smettiamo mai di dirimere – che ha la stessa radice – emere – cioè di problematizzare il valore.

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