Va pensiero: il testo poetico


Da: AA.VV., Sulle ali del “Va pensiero”, a cura di F. Gencarelli, Parma, 2002.


 

  1. Va, pensiero, sull’ali dorate;
  2. Va, ti posa sui clivi, sui colli,
  3. Ove olezzano tepide e molli
  4. L’aure dolci del suolo natal!
  5. Del Giordano le rive saluta,
  6. Di Sionne le torri atterrate…
  7. Oh, mia patria si bella e perduta!
  8. O membranza sì cara e fatal!
  9. Arpa d’or dei fatidici vati,
  10. Perché muta dal salice pendi?
  11. Le memorie nel petto raccendi,
  12. Ci favella del tempo che fu!
  13. O simile dei Solima ai fati
  14. Traggi un suono di crudo lamento,
  15. O, t’ispiri il Signore un concento
  16. Che ne infonda al patire virtù.

I paradossi sembrano pensieri sofisticati. Ma non è così, anzi il maggior paradosso riguarda i saperi sul mondo della vita quotidiana. Conoscenze che diamo per scontate e che ci comunicano la sensazione d’assoluta certezza sulle cose a cui fare affidamento e su come farlo (il savoir faire). Sicurezza pre-riflessiva che è molto difficile poi trasformare in conoscenza esplicitata (il sapere del savoir faire).
Succede così, agli italiani in patria e all’estero, con l’aria del Va pensiero, che ciascuno è supposto sapere, e sopratutto con il suo testo verbale, che sono pochi a conoscere per intero. È l’eccesso d’intimità che ce ne ha allontanati: canticchiando, le parole emergono nella memoria come frammenti d’un naufragio cognitivo.
Eppure l’inno del Nabucco è uno dei testi sacri o per lo meno canonici della cultura italiana, l’emblema nazionale della nostra araldica sonora. Mi propongo quindi di render estraneo questo testo troppo familiare, per poterlo meglio guardare da dentro. Per farlo dovrò isolare il testo linguistico e letterario – con le sue proprietà lessicali e grammaticali, ma anche retoriche e stilistiche – dalla comunicazione sincretica dell’opera, la quale è musicale e scenica. Operazione che lo stesso Verdi potrebbe legittimare.
È lui infatti a raccontare quanto l’avesse colpito il testo di Temistocle Solera, capitatogli fra le mani – guarda caso! – alla pagina dell’inno; quella stessa notte avrebbe imparato a mente tutto il libretto. Agiografia a parte, è vero che dal testo, con la sua particolare musicalità verbale, Verdi ha preso le mosse per comporre, mentre in altre occasioni accadrà piuttosto il contrario: “Camillo” – scriveva il Maestro a Boito durante il lavoro comune, ai diversi piani della casa di Busseto – “mettimi questa musica in endecasillabi”.

Quali sono le caratteristiche testuali di questa conosciutissima poesia, la cui efficacia simbolica, emozione, senso e valore non finirà di sorprenderci? Partiamo da un nuovo paradosso: la maggior parte del lessico, com’è il caso di tanta prosa e poesia ottocentesca, è difficilmente riconoscibile. Sono parole “difficili”: clivi, olezzano, membranza, favella, fatidici, traggi, concento; e sono incomprensibili: nomi propri quali Sionne e Solima, cioè Sion e Gerusalemme. Potremmo però sostituirle con colli, odorano, memoria, parola, ecc., ma qualcosa andrebbe perduto. Cioè lo stile elevato che corrisponde ad una scelta lessicale classica, di sapore latino e sopratutto la prosodia, la lunghezza dei versi e le rime, che contrassegna la composizione.
Ma osserviamo prima la sintassi di questa filza di 16 versi. Per constatarne subito la notevole simmetria. L’inno sembra costruito a specchio: i primi quattro versi (1-4) e gli ultimi quattro (13-16) sono raccolti in una frase unica. Mentre i versi (5-7) e (11-12) sono di una sola frase. Troviamo una lieve dissimetria tra i versi centrali (7-8), con un verso per frase (ma frasi parallele), e (9-10) dove la frase occupa due versi.
La perizia artigianale di Temistocle Solera non si ferma lì. È nella prosodia, cioè nella musicalità interna al testo verbale, che troveremo poi gli aspetti costruttivi che inquadrano il senso del testo e ne determinano l’efficacia.
Osserviamo in primo luogo che si tratta di un Inno, con una struttura metrica ben nota nella letteratura italiana ed europea. Si tratta infatti di 16 decasillabi, divisi in 4 quartine. Strofe a ritmo detto anapestico, con accenti che cadono sulle sillabe 3-6-9. (Ecco perché, ad esempio, il verso 13 si legge O simìle con accento sulla terza sillaba e non sulla seconda: simile.) Come nei manzoniani “S’ode a destra uno squillo di tromba”, nel Carmagnola, ricordate? L’ultimo verso d’ogni quartina è però tronco, cioè di nove sillabe (natal-fatal; fu-virtù).
Vale la pena di ricordare che questo formato, il quale risale alle conzonette da melodramma (lo trovate nelle Nozze di Figaro di Da Ponte), è quello dell’Ode, che con l’inno condivide delle caratteristiche semantiche che oggi, dopo la rivoluzione del verso libero, sono diventate illeggibili. L’Ode-Inno infatti era un genere poetico codificato, cioè riservato per convenzione a testi di alto senso e valore civile e religioso, epico e patriottico, com’è appunto il caso del Va pensiero. Il tono oratorio doveva essere solenne e ingiuntivo, destinato ad ottenere la persuasione e trascinare all’azione. Di qui la ricchezza di interiezioni (Oh mia patria, Oh membranza), di esclamazioni (va, ti posa, saluta, raccendi, ci favella, traggi, t’ispiri) che punteggiano le due narrazioni: il percorso del Pensiero e il suono dell’Arpa.
Le figure retoriche parallele che dominano il testo sono appunto l’Appello al Pensiero dalle ali dorate e l’Apostofre all’Arpa d’oro. Figura di passione, l’Apostrofe, che – come i manifesti in cui un personaggio punta il dito e gli occhi verso di noi – suppone una forte emozione e un coinvolgimento intenso. La relazione comunicativa che si instaura è espressa dai pronomi di persona. Il coro si rivolge col “tu” prima al pensiero, la patria e la membranza, poi all’arpa e solo alla fine assume il plurale della prima persona: ci favella, ne infonda.
All’argomentazione retorica, sostenuta dalla solida architettura della sintassi, s’accompagna un’attenzione particolare all’eufonia, che ne allevia la grandiloquenza e dà all’Inno il tono lirico d’una elegia monumentale. È in primo luogo l’effetto dell’alternanza delle rime. Ricordiamone la distribuzione, che è sonora quanto spaziale.

1 quartina
1.1 dorate
1.2 colli
1.3 molli
1.4 natal

2 quartina
2.1 saluta
2.2 atterrate (v. 1.1)
2.3 perduta (v. 2.1)
2.4 fatal

3 quartina
3.1 vati
3.2 pendi
3.3 raccendi
3.4 fu

4 quartina
4.1 fati
4.2 lamento
4.3 concento
4.4 virtù

Risulta e risalta che ogni quartina comprende i due versi centrali che rimano unicamente tra loro, mentre il primo e l’ultimo verso rimano col primo della quartina seguente. L’effetto è un legame sonoro interno a ciascuna delle coppie di quartine (1-2 e 3-4), ma anche una dissonanza tra le prime e le ultime due. La disposizione regolare è però falsata nella seconda quartina che inverte la posizione del primo e del secondo verso (ci aspetteremmo atterrate e poi saluta). Prima di optare per la debolezza metrica di Soleri – i libretti dell’opera sono tutti brutti? – osserviamo che si tratta della stessa quartina in cui è irregolare la distribuzione versi/sintassi: due frasi parallele per ogni verso, dove ce ne aspetteremmo due per uno. Per la creazione di ritmi “informativi” la metrica dell’ode prevedeva infatti l’uso sistematico del “difetto retorico”, che è possibile riscontrare ai diversi livelli della testualità. Si veda, ad esempio, il parallelismo tra le particelle all’inizio del verso: Va e Va nei primi due; Oh! e Oh! nel 7 e 8, mentre alternano gli O del 13 e 15. I parallelismi sono fatti di differenze che si assomigliano.
Lo stesso criterio di assimilazione e dissimilazione sonora si trova a tutti i livelli del Va pensiero: come nelle assonanze, paranomasi e anagrammi che possono trovarsi vicine (torri-atterrate, simili-Sollima) o distanti (come patria e patire; fati e fatidici). E per quanto riguarda la morfologia, si veda come nel primo ottastico i nomi e gli aggettivi sono più numerosi e pochi i verbi, mentre nel secondo troviamo meno aggettivi e più verbi. Anche al livello fonetico complessivo si riscontra una sensibile dissimmetria tra la presenza marcata delle liquide nei primi otto versi e la netta diminuzione in quelli seguenti.
A tutti i livelli d’organizzazione del significante, direbbe il semiologo, troviamo dunque una messa in parallelo e una trasformazione del significato. L’Appello al Pensiero rende possibile l’esperienza immaginaria del contatto (ti posa, tepide e molli), del profumo e del gusto (olezzano, dolci) e poi della vista (il Giordano, le torri) della patria. Il ricordo, riacceso dai sensi, si trasforma in Apostrofe (dagli Oh agli O) rivolta all’Arpa, cioè al potere della musica di parlare, riscaldare la memoria, dar voce alla sofferenza e, per divina ispirazione, infondere nel dolore il coraggio.
Se ho così parafrasato il testo è solo per mostrare come il racconto del Va pensiero sia lontano dai significati biblici di superficie, che si usa attribuire allo stesso Verdi. E quanto sia semplificata la versione di M. Mila: “la realtà vissuta e quella sperata, il lamento e la preghiera accettano di adunarsi ad un passo comune e costante, pacato e virile: secondo pulsazioni dichiaratamene elementari” (sic!).
Quel che ha impressionato Verdi in questo testo è, a nostro avviso, il racconto, fatto col suono e col senso, dell’insufficienza del pensiero all’azione quando manchi la mediazione e l’apporto della musica. Il potere illocutivo dell’Arpa non è soltanto quello di dare linguaggio alla memoria, ma di trasformare la passione e provocare all’azione. Passare dagli stati d’animo (il lamento) al fare, attraverso il “concento” che è “armonia dell’anima” (Della Casa). Chi ha ascoltato, una volta ancora il Va pensiero conosce questa efficacia che ci ha fatto alzare in piedi o trattenere le lacrime. È certo che il testo di Soleri non basta. Alla deformazione coerente che la sua metrica impone alla prosodia dell’italiano si aggiunge l’altra, decisiva, della melodia di Verdi. Ma il testo verbale non è un mero accessorio di scena. Al contrario: è un esempio della tensione di senso tra unità metrica e significato, di quell’integrazione poetica tra ritmo e movimento del pensiero che fa anche d’un sonetto un “sillogismo lirico”. Poi parola e musica hanno scambiato felicemente le loro proprietà.

È più facile ora, sapendo che l’efficacia del Va pensiero sta nel modo riflessivo con cui mette in scena l’efficacia della musica, interrogarsi sulla tentazione ricorrente di fare di questa ode d’esilio ebraico – il destino dell’arpa è simile a quello di Gerusalemme – l’inno nazionale italiano. È una pretesa malformata: i nazionalismi sono costruiti su quel senso di lutto e di perdita che qui troviamo solo nel primo ottastico. È malinconia nostalgica, piacere d’essere tristi. Nelle due quartine finali invece, è la musica che immette nel “patire per la patria” una virtù senza risentimenti, orientata all’azione. Il nazionalismo è contro, mentre lo spirito di quest’inno, che non dichiara nemici, è per.
Ma bisognerebbe prima leggere comparativamente l’altro candidato al ruolo simbolico della nostra appartenenza nazionale, quel Canto degli Italiani, che sfoggia il titolo di Inno di Mameli. La prosodia anche in questo caso ci istruisce.
I versi del Canto di Mameli sono di sei sillabe (senari), divisi in 5 strofe di 11 versi. L’undicesimo è sempre tronco e termina con chiamò, poiché gli ultimi tre versi formano un ritornello. Anche l’ottavo verso di ogni strofa, termina sempre tronco e in ò. Mentre rimano, alternati il 2 e il 4 verso e baciati il 6 e il 7; invece il 1, il 3 e il 5 verso di ogni strofa non rimano. Il nome Italia, non rimato, ricorre 7 volte. Dunque non è un Inno, come è invece il Va pensiero.
Come Rouget de Lille, l’autore della Marseillese, il torrenziale Solera, è rimasto l’uomo d’un solo testo. Il quale possiede però, come ci sembra d’aver mostrato, se non proprio la poesia almeno la poeticità: la qualità cioè di codificare, ai diversi livelli del discorso, quelle qualità di lingua e di stile che permetteranno a chiunque li legga o li ascolti di trovare sensi nuovi.
Il Va pensiero è un dispositivo di segni che contiene memorie future.


Bibliografia

AA.VV., L’inno di Mameli, Mondadori, Milano, 2002.

Gilles de Van, Verdi, un théatre en musique, Fayard, Paris, 1992.

A. Julien Greimas, “Per una teoria del discorso poetico”, sta in AA.VV., Semiotica in nuce, vol. 1, a cura di P. Fabbri e G. Marrone, Meltemi ed., Roma, 2000.

Massimo Mila, Nabucco “…quasi una parafrasi della Bibbia”, Teatro della Scala ed., Milano 1986.

Cesare Segre, “La Cançao do esilio di G. Dias, ovvero le strutture del tempo”, sta in Le strutture e il tempo, Einaudi, Torino, 1974 (per la lettura di un poema che è entrato a far parte dell’inno nazionale brasiliano).

Jury Tjnianov, “L’ode”, Strumenti critici, 1976.

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